Quattro verbi che Papa Francesco ha consegnato sabato 5 giugno ai giovani del Progetto Policoro: animare, abitare, appassionarsi e accompagnare.
A. A.A.A. : lavoro cercasi. Non si tratta di un annuncio per offerta di lavoro ma delle iniziali dei quattro verbi che Papa Francesco ha consegnato sabato 5 giugno ai giovani del Progetto Policoro: animare, abitare, appassionarsi e accompagnare. Quel discorso non deve finire in un cassetto. Non può essere congedato come una delle tante udienze e derubricato nel “già visto”. Il motivo è presto detto: la crisi del covid-19 ha fatto riaffiorare il drammatico problema del lavoro tra i giovani. I dati sono impietosi e la realtà ancora peggiore: sono volti rassegnati e delusi quelli che finiscono per cercare fortune in altri Paesi del mondo o per diventare numeri da statistica. Il Papa ha ricordato la tragedia dei giovani suicidi: c’è di che riflettere! Per questo, un discorso incentrato sul lavoro e destinato ai giovani è materia calda per chi vuole affrontare seriamente il tema dell’occupazione giovanile senza illudersi che il PNRR (il Piano nazionale di ripresa e resilienza predisposto dal governo italiano) sia la panacea di tutti i mali.
Veniamo al dunque. Il messaggio di Francesco porta l’attenzione su alcuni pilastri dell’edificio lavoro, senza i quali ogni investimento rischia di diventare un flop, perché sarebbe come costruire un palazzo partendo dal tetto. I quattro verbi che cominciano con la prima lettera dell’alfabeto rimandano ad alcune questioni irrisolte e che invece meritano di essere affrontate con coraggio, se si vuole prendere di petto la crisi di lavoro giovanile.
Il verbo «animare» aiuta a capire che non c’è lavoro senza comunità. Il Pontefice aveva davanti a sé un centinaio di giovani «animatori di comunità», per cui l’espressione poteva essere considerata “di casa” nella vita dei presenti. Lo insegna Laudato si’ 219: «Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie». La questione è posta nella sua essenzialità. Il lavoro genera una comunità, come afferma l’articolo 1 della Costituzione italiana, ma è vero anche l’inverso: una comunità genera lavoro. Senza reti comunitarie il lavoro non attecchisce: finisce nelle secche della sterilità tra burocrazie che controllano, disinteresse individualista, dispersione sociale o paternalismo suppletivo. A ben pensarci, ogni luogo di lavoro è una comunità, perché ogni lavoratore è chiamato a fare «con» e «per» altri, a condividere un progetto, a sentirsi parte di una collettività. Lo aveva intuito molto bene un genio dell’impresa come Adriano Olivetti che aveva fatto del concetto di comunità la sua missio. Senza la tensione comunitaria l’aria dell’anonimato rischia di allargarsi sempre più. Senza un ampio tessuto solidale anche la vita sociale ne risente e intristisce.
Inoltre, proprio la comunità è il contesto adatto per creare lavoro. Vale a dire, occorrono istituzioni che funzionano, una politica al servizio, una sussidiarietà solidale. Le possibilità di lavoro, infatti, non sono figlie di un supereroe salvatore della patria, ma frutto di idee condivise tra gente che si stima, si frequenta e impara a sognare insieme. Il contesto comunitario facilita le opportunità lavorative. Ecco allora la domanda: chi si preoccupa oggi di costruire contesti comunitari? La pandemia ci ha abituati al distanziamento, ma urge favorire relazioni, connessioni che facciano dialogare competenze e intuizioni, ricerche e senso pratico, ipotesi e soluzioni. All’interno di reti solidali il lavoro è benedizione, «unzione di dignità», perché sa valorizzare ciascuno senza isolare e, contemporaneamente, sa promuovere grandi progetti attraverso il contributo di ogni persona.
Certo, come suggerisce Francesco, serve audacia, che è un vero e proprio esercizio di fede. Non è volontarismo, né invocazione del leader (o dello Stato) che dall’alto del suo potere risolve tutto. È necessario entrare nei tessuti vivi di un Paese, sostenere i luoghi di ricerca e di costruzione del pensiero. Abbiamo davvero bisogno di animatori di comunità, ben diversi dagli influencer tanto osannati quanto autoreferenziali.
La seconda A, quella dell’«abitare», porta a riflettere sulla concretezza dei territori. A differenza di come si vuol far credere, nelle logiche di multinazionali senza volto, il lavoro si esercita in un rapporto vitale con il territorio. L’esortazione rivolta ai giovani «ad amare i territori in cui Dio vi ha posti, evitando la tentazione di fuggire altrove» è una provocazione che vale per tutti. Il lavoro si genera all’interno della vocazione di un luogo: quali investimenti sono compatibili per valorizzarlo? Quali opportunità possono nascere a partire dalla sensibilità e dalla cultura della gente? Non è vero che un posto vale l’altro: anche solo pensare che tutto sia uguale percorre la strada del fallimento.
Il lavoro risponde alle domande di senso e non semplicemente ai desideri di guadagno delle persone. Dunque, si tratta di fare i conti con la concretezza della vita. E non ci si può raccontare menzogne, come se i problemi di un territorio non esistessero.
È importante anche abitare i conflitti che si generano all’interno di un luogo di lavoro o di una città. C’è chi vuole aprire e chi vuole chiudere, chi cerca strade percorribili e chi ostacola, chi sposa un modello consumistico e chi vuol superare uno stile di vita materialista, chi intende tenere il piede in più scarpe per sentirsi garantito e chi inaugura nuovi cammini... Abitare i conflitti per trasformarli significa starci in mezzo favorendo uno sguardo diverso. Tra le sterili proteste contro l’impresa e il silenzio indifferente di chi accetta ogni compromesso, c’è lo spazio del conflitto che obbliga a dichiarare le priorità, a vedere quali risorse sono a disposizione e quali vie di uscita imboccare. Il bene concretamente possibile è il sentiero impervio da percorrere, molto più generativo della strada sbarrata di un divieto di accesso.
Il lavoro conosce molto spesso la conflittualità a diversi livelli: chi insegna ad abitarla in modo fecondo? Chi abitua a cercare soluzione più che bloccare? Chi sposa i «no» di principio non riesce a illuminare le esistenze di tutte le parti in causa. Imparare a sporcarsi le mani abitua ad aprire le porte e le finestre perché i problemi concreti della gente entrino nella vita sociale e non rimangano all’esterno.
Il terzo verbo, «appassionarsi», rimanda a una questione cruciale del nostro tempo: la formazione. Lo spunto proviene dalla necessità di farsi la domanda giusta, che non è «chi sono io?», ma «per chi sono io?». Il «pensarsi per» significa mettere in gioco tutta la propria vita. A questo livello si colloca l’importanza della formazione, che agli occhi di Papa Francesco assume diverse sfaccettature: cura dell’interiorità, spiritualità, studio, insegnamento sociale della Chiesa, competenze, aggiornamento nel lavoro. Diffidare delle imitazioni, dunque: ci sono percorsi formativi che vengono proposti solo perché esistono finanziamenti momentanei cui attingere. Non serve ai giovani ma agli adulti “soliti noti”. Esaurito il denaro, finisce la spinta formativa. Perché non essere seri?
La formazione attraversa tutte le stagioni della vita e irrobustisce tutte le dimensioni della persona. Per questo, diventa quanto mai appropriata la citazione di don Lorenzo Milani in un passaggio di Esperienze pastorali: «Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale!». Una formazione appiattita sulle competenze e che non intercetta l’umano è come un albero senza foglie. E neppure funziona una formazione tutta spirituale senza attenzione alle esigenze concrete del mondo del lavoro.
L’ultimo verbo, «accompagnare», guarda allo stile. Il lavoro non è mai qualcosa di automatico: non basta cioè accendere un impianto perché ci sia lavoro. Ogni fase va accompagnata sia in loco sia nella vendita. La fase commerciale del prodotto non è meno importante della capacità di realizzarlo. Così occorre accompagnare il lavoratore nelle diverse stagioni della sua attività, con una formazione continua e con la capacità di aprirsi ai cambiamenti tecnologici e alle novità.
L’idea di prendere per mano, però, ricorda anche la necessità di non lasciare che nessuno sia dimenticato, soprattutto dove si presentano gravi situazioni di esclusione: NEET , persone depresse o demotivate, disoccupati, sottopagati, sfruttati... Accompagnare è evitare la tentazione che i sussidi siano l’unica risposta ai problemi, quasi una vuota attesa di tempi migliori. I momenti di passaggio, invece, possono essere fecondi per ripensarsi, magari in un’ottica nuova.
Ogni persona si riconosce nel proprio lavoro, ma contemporaneamente è molto di più della propria professione. Francesco usa verbi che indicano pienezza di vita: rialzarsi, rimettersi in cammino, tornare a sognare, impegnarsi. Tipicamente evangelici. Chi si trova ai margini della vita sociale può sperimentare forme di inclusione solo se qualcuno lo accosta e lo prende per mano. Le crisi chiedono accompagnamento, altrimenti finiscono per ristagnare in un nulla di fatto o per scadere nel senso di abbandono. Vanno evitati avvii di impresa senza vicinanza, blocchi di licenziamenti senza una crescita di responsabilità e di formazione. Lo stile diventa dunque quello di affiancare e motivare. Stare a fianco è opera d’arte, tanto più necessaria quanto più c’è aria di crisi personale o sociale.
Se c’è una speranza per il lavoro in tempo di pandemia, essa passa dai quattro verbi indicati da Francesco ai giovani di Policoro. Con una postilla: la richiesta di fare chiasso. Sul tema giovani e lavoro non tengono più le mediocrità, le mezze misure, i silenzi imbarazzanti, le parole non dette, l’indifferenza diffusa. Si crea una mentalità attraverso il coinvolgimento di tutti. Sulla pelle dei giovani non si possono fare sconti. Ne è della nostra dignità.
di Bruno Bignami
tratto da osservatoreromano.va
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