Il vero nucleo problematico della questione che stiamo affrontando sembra dato dal fatto che l'esistenza «virtuale» appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale.
del 04 giugno 2012(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));
          Come si fa a vivere bene ai tempi della rete? Per comprenderlo bisogna verificare quali sono le trasformazioni che i media sociali realizzano nella nostra vita a livello profondo.
          La prima trasformazione consiste, del resto, nel significato stesso di che cosa significa esistere. Chi siamo quando siamo presenti e comunichiamo in Rete? La nostra vita è lì, nelle foto e nei pensieri che condividiamo, lì sono i nostri amici. Noi, in un certo modo «siamo» in Rete, parte della nostra vita è là. Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo quando interagisco. Ci rendiamo conto ormai che noi esistiamo anche in Rete. Una parte della nostra vita è digitale. Dunque anche una parte della nostra vita di fede è digitale, vive nell’ambiente digitale.
          Un mio studente africano della Pontificia Università Gregoriana una volta mi disse: «Io amo il mio computer perché dentro il mio computer ci sono tutti i miei amici». E’ vero: dentro il suo computer c’è Facebook, Skype, Twitter… tutti modi per lui di stare in contatto con i suoi amici lontani. La sua «comunità» di riferimento era reale grazie alla Rete.
          Il vero nucleo problematico della questione che stiamo affrontando sembra dato dal fatto che l’esistenza «virtuale» appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale. Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res extensa, una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. Si apre davanti a noi un mondo «intermediario», la cui ontologia andrebbe indagata meglio.
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