L'uomo non è solo il suo errore: stavolta, però, avverto che la responsabilità è tanta. Perché negli inferi non ci va solo lui, ma l'intero popolo che ai suoi piedi aveva legato la favola di un'Italia che non molla. In quelle scarpe sudate e consumate è nascosto, oggi, un ragazzo che va preso per mano e va aiutato a parlare...
Come chicchi di grandine in un cielo d'agosto. Una tempesta di sms per annunciare, seppur in maniera velata e lontana dalla cattiveria, la notizia che nessuno aveva il coraggio di raccontarmi: Alex Schwazer, positivo ad un controllo antidoping, bloccato alla partenza per Londra. Cala il silenzio, scompaiono improvvise le parole, s'affacciano mille ombre. Perché quel ragazzo - nato e cresciuto tra boschi di larici, all'ombra di una chiesetta sorvegliata da papaveri rosa - era per me l'emblema dello sport sano e genuino, condito dal sudore e rispettoso di quella religione della fatica che aveva fatto di lui l'immagine bella di uno sport ch'è metafora nobile dell'esistenza. Allenamenti, capacità di sopportazione, fiuto del limite: in quel pugno stretto dentro lo stadio di Pechino era raccontata la storia di un camminatore che aveva lasciato sospettare che lo sport fosse una nobile forma di educazione. Vinceva perché si divertiva: «non sono felice di aver vinto, ma ho vinto perché sono un ragazzo felice», confessò ai microfoni con l'oro al collo. Qualche anno dopo s'affacciò la crisi nera sotto le vesti di una donna maligna e informe, sbadatamente neutrale e tentacolare. La depressione. Ne insinuò il sospetto che la fatica non valesse il gioco, che la strada fosse troppo lunga, che la mente chiedesse una tregua.
A Barcellona s'inginocchiò per terra: non era il gesto d'adorazione di un vincente che bacia il suolo conquistato, ma il grido d'aiuto di un ragazzo che non si divertiva più. E senza divertimento anche il talento, seppur intrigante, è un'insopportabile presenza. Come un estraneo da esporre al pubblico ludibrio. Ne raccolsi la sua storia, la feci diventare un romanzo, usai il suo alfabeto per parlare a quel popolo giovane che abita l'Italia. Per questo la notizia è devastante: dietro quel volto c'era davvero la convinzione che lo sport fosse un alfabeto meraviglioso per interpretare l'ardua fatica di diventare uomini. Forse usai un pizzico di poesia per tratteggiarne le gesta, qualcuno stamattina ci leggerà del grottesco o dell'irreale ripercorrendo nel romanzo Contropiede la filosofia che ne animava le tracce. Di quelle sillabe non rinnegherò mai nulla. In quel miscuglio di spiritualità e fatica, di ardore e discrezione, di battiti e di aneliti abita ancora la storia di un ragazzo che ieri mi faceva girare la testa e oggi chiede aiuto. Perché sotto la coperta del doping c'è dell'altro: la paura di non essere all'altezza dei sogni, l'ansia di non accettare il tempo che scorre, la voglia di spostare limiti in mondovisione, il malaugurato sospetto che la scorciatoia sia indice di maturità e di passione per l'ignoto.
L'uomo non è solo il suo errore: stavolta, però, avverto che la responsabilità è tanta. Perché negli inferi non ci va solo lui, ma l'intero popolo che ai suoi piedi aveva legato la favola di un'Italia che non molla. In quelle scarpe sudate e consumate è nascosto, oggi, un ragazzo che va preso per mano e va aiutato a parlare, a trovare parole di denuncia e di collaborazione, a trasformare lo strazio e il pentimento in feritoie attraverso le quali far strada alla speranza per il futuro di molti ragazzi. La carriera forse è finita, ma la vita continua. E nella vita si può essere felici anche senza mettersi in società con il gatto e la volpe. Di questa fatica Alex potrebbe diventare testimonial per ridare colore a una storia che stamattina appare illeggibile e artefatta. Io ci sono, Alex, e ti vorrò sempre bene.
Don Marco Pozza
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