Il messaggio per la 29a Giornata punta alla compenetrazione tra corpo e anima, “eros” e “agape”, come “grammatica” inscritta nel cuore della persona. Rispettare la dignità di ogni vita e la sua intangibilità, educare il desiderio orientandolo ad una crescita e maturazione umana e coltivare la speranza come sfida culturale.
del 21 gennaio 2007
 
Il messaggio della Cei per la 29ª “Giornata per la vita” si situa tra l’enciclica Deus caritas est, il convegno ecclesiale di Verona e gli interventi di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della pace e per il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
 
L’enciclica stimola a cogliere la profonda compenetrazione di corpo e anima. Il rischio odierno è di considerare il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé, da adoperare e sfruttare con calcolo. Se, infatti, non viene più integrato nel tutto della propria libertà umana, ma viene come respinto nel campo puramente biologico, il corpo umano scivola in una pericolosa degradazione. E tante sono le conseguenze, a livello personale, familiare-sociale ed ecclesiale, del fatto che eros e agape non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro.
 
 
Il contesto
 
Il tema della vita ha interessato trasversalmente i cinque ambiti del convegno di Verona, affrontati a partire dal Risorto e dall’attenzione al reale: affettività, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza. Nel messaggio per il primo gennaio 2007 il papa ricorda che, rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale, carico di futuro. Dal rispetto della “grammatica” scritta nel cuore della persona dal Creatore ne consegue che «della persona non si possa disporre a piacimento, perché la vita è un soggetto di cui l’uomo non ha la completa disponibilità» (nn. 3-4). Dopo aver parlato di «morti silenziose», il papa ribadisce che l’aborto e la sperimentazione sugli embrioni costituiscono «la diretta negazione dell’atteggiamento di accoglienza verso l’altro, che è indispensabile per instaurare durevoli rapporti di pace» (n. 5).
 
Dal discorso ai diplomatici accreditati, si può imparare il metodo del pontifice per porsi al servizio della vita: opporre al male globale il bene globale, basato sulla salvaguardia della dignità della persona umana; promuovere e consolidare tutto il positivo e superare con buona volontà, saggezza e tenacia quanto ferisce, degrada e uccide l’uomo; lavorare, insieme e con lungimiranza, alla costruzione di quell’umanesimo integrale atto ad assicurare un mondo pacifico, giusto e solidale; eliminare le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale e correggere i modelli di crescita che sembrano incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente e uno sviluppo integrale per l’oggi e soprattutto per il domani. In tale cornice si pone la denuncia contro le aggressioni alla vita, tra cui la diffusione dell’aborto nel mondo, la relativizzazione della famiglia, la copertura della ricerca scientifica.[1]
 
 
Amare la vita
 
Il messaggio Cei (cf. suppl. Sett. n. 1 del 7/1.2007 pag. 19) è un’articolata riflessione sul “desiderare” la vita, il primo e più prezioso bene per ogni essere umano, sul quale nessuno può mettere le mani. Per i vescovi, la vita è un bene non disponibile e incompatibile con l’idea di possesso indiscriminato, dell’arbitrio e della manipolazione. L’amore vero per la vita non va falsato dall’egoismo e dall’individualismo, non può cedere ad alcuna strumentalizzazione ed essa non è valutabile solo in base alle condizioni o alle sensazioni che la caratterizzano nelle sue varie fasi. Anche in una visione puramente laica, l’inviolabilità della vita è «l’unico e irrinunciabile principio da cui partire per garantire a tutti giustizia, uguaglianza e pace». Per i credenti, ogni vita umana porta l’impronta di Dio ed è destinata all’eternità.
 
Si chiede pertanto non solo di rispettare, promuovere, celebrare, curare, allevare la vita, ma di amarla con coraggio e di desiderarla: non da padroni assoluti, ma da fedeli custodi. Questo porta ad interrogarsi sul significato del nascere, del crescere, dell’assumere responsabilità, del morire. Chi desidera la vita ne combatte i nemici cioè il dolore e la sofferenza, il degrado e la solitudine; smaschera il diabolico inganno di confondere l’interruzione della vita con l’umana pietà; non si accanisce con terapie ingiustificate e sproporzionate; non fa graduatorie di merito per cui non nega ad alcuno, neppure al più indifeso nascituro o disabile, la possibilità di esistere; si pone in solidale vicinanza a chi è tribolato; non si ferma ai “no” bensì pronuncia dei “sì”, forti e lungimiranti a sostegno della famiglia, fondata sul matrimonio, dei giovani e dei più disagiati.
 
Tante le tematiche: aborto, calo demografico, eutanasia, immigrazione, pretesa del figlio ad ogni costo, ricerca scientifica, adozione e affidamento, droga, stragi del sabato sera… L’invito finale è ad «imboccare il sentiero virtuoso della vita», che si esprime anche in uno sguardo di speranza ai giovani, spesso traditi nel loro slancio d’amore e nelle loro aspettative di futuro, nonché tentati di cadere in crisi di disamore e di nonsenso o di percorrere pericolose scorciatoie.
 
Non manca il ringraziamento a chi si dedica alle nuove generazioni, segnate da slanci entusiasti e da problemi, nonché bisognose di formazione e di lavoro. Già S. Pezzotta, nella sua relazione al convegno di Verona, invitava i cristiani ad uscire dalla retorica negativa sul mondo dei giovani: «Il problema dei giovani siamo noi adulti. Troppe volte veniamo meno al nostro dovere di testimonianza e di trasmissione di valori, ideali e visione del mondo». Cogliendo i segni di speranza che attraversano il mondo giovanile, «dobbiamo diventare promotori di una nuova relazione intergenerazionale fondata su educazione, lavoro e trasmissione della fede». Di qui il percorso triennale della Cei per i giovani.
 
La vita umana è «un’avventura per persone che amano senza riserve e senza calcoli, senza condizioni e senza interessi, ma è soprattutto un dono», in cui riconoscere l’amore del Padre e per cui sentire la dolce e gioiosa responsabilità della cura, soprattutto verso i più deboli.
 
 
Educare il desiderio
 
Il messaggio del vescovi è in sintonia con la “questione antropologica”, cioè con il ritrovare la verità di sé come persona aperta all’incontro con l’altro, nella ricerca di un’armonica e ordinata sinfonia di un “noi”, che compie l’io e lo libera dal rischio del branco e della banda. A desiderare la vita si impara da adulti che siano uomini e donne tendenzialmente riusciti, capaci di vivere una vita degna, certi del suo significato positivo, e perciò impegnati con pazienza e tenacia a costruirla, senza paura del sacrificio. La chiesa è chiamata ad essere la scuola dove si apprende a desiderare la vita, a partire da Cristo in cui è apparsa la vita di Dio, luce per l’umanità. I santi sono i testimoni di una vita bella, buona e saporosa e rivelano il volto della chiesa, “esperta in umanità”.
 
Desiderare la vita esprime quel legame originario, ricordato da Benedetto XVI a Verona, tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti. Il papa ha sollecitato la formazione dell’intelligenza, senza trascurare quella della libertà e della capacità di amare, anche per superare lo squilibrio tra la crescita tanto rapida del potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle risorse morali.
 
Desiderare la vita costituisce il primo gradino dell’educazione ed è il segno della speranza nel quotidiano. Chi coltiva in sé l’anelito alla vita sa riconoscerne con stupore i germogli ovunque e riesce a compiacersi dei frutti maturi, senza impressionarsi per i limiti e disperarsi per le sconfitte. Rilanciare il desiderio della vita è un’operazione profetica, rivolta ai singoli e alle famiglie, alle istituzioni e al volontariato, su scala nazionale e globale.
 
Desiderare la vita equivale ad avere la persona umana come principio fondamentale e architettonico dei contenuti della dottrina sociale cristiana e della conseguente prassi nella concretezza delle sue situazioni e relazioni di ogni giorno.
 
Riflettere sulla vita significa lavorare non per l’interesse cattolico, ma sempre per l’uomo concreto e storico; significa, per ogni comunità cristiana, superare le tentazioni dell’autoreferenzialità e del ripiegamento su di sé per confrontarsi con il contesto culturale diffuso nel paese e per entrare in una nuova missionarietà, segnata dalla testimonianza. Solo una chiesa madre, oltre che maestra, può essere “locanda di accoglienza” per ogni autentica aspirazione alla vita.
 
Ripartire dal desiderio della vita è reagire all’appiattimento sulle convenienze del momento e alla subalternità alle rappresentazioni sociali più diffuse, per cogliere l’essenziale. Il tema di quest’anno della Giornata per la vita favorisce l’unitarietà del soggetto di fronte al rischio della “scomposizione dell’umano”, della frammentazione e del particolarismo, da cui ha messo in guardia a Verona L. Ornaghi. Impedisce pure la tentazione dello straniamento dei cattolici dalle sorti del paese. Anziché cedere alla lamentela, al giudizio o alla contrapposizione, i vescovi guardano ai bisogni più profondi della nostra nazione, aprendosi alla collaborazione con gli uomini di buona volontà, di qualunque schieramento politico.
 
Dentro il pluralismo parossistico e il relativismo, che moltiplicano nella società le risposte parziali e ingannevoli, la chiesa esercita il suo discernimento e rilancia la domanda primordiale e inalienabile per costruire il domani: «Ami, desideri la vita, oppure sei schiavo della “cultura della morte?”». Nell’amore reale alla vita sta il fondamento di un mondo più umano e aperto, meno dipendente dalla sfera economica, dall’interesse particolare, dalla tecnica e dal potere fine a se stesso.
 
 
Tra vergogna e speranza
 
Desiderare la vita rientra in una spiritualità della speranza, basata sulla «lietezza di essere stati creati e redenti». Per S. Pezzotta «tra individui che si accalcano in una corsa senza fine, dobbiamo essere lieti e contenti di essere in questo mondo. La speranza cristiana è l’annuncio del compimento, della realizzazione di una gratuità, di un’eccedenza che s’inserisce nella storia».
 
Desiderare la vita permette di «abitare con simpatia il cambiamento», uscendo dalla «cultura dell’impossibile» per un sano dinamismo fermo nei principi e duttile alle situazioni. È la via per una familiarità condivisa tra i vari raggruppamenti ecclesiali, e per un esercizio più efficace delle opere di misericordia.
 
Desiderare la vita richiede di sostituire la logica individualista, che ha caratterizzato le scelte politiche e contrattuali, con una logica familiare, capace di valorizzare la famiglia come soggetto. E conduce ad assumere i vari problemi nella loro completezza, senza genericismi ottimistici o pessimistici che rafforzano gli egoismi individuali e corporativi. Così si reagisce ad una società sempre più depressa e desolata perché segnata da un diffuso senso di inutilità e da scarsità di tensione ideale.[2]
 
Dag Hammarskjold affermava che «solo la vita potrà rispondere alle domande poste dalla vita» e per questo chiedeva impegno libero e responsabile per essere un ponte verso gli altri nel bene, una pietra nell’edificio della rettitudine. Perché «nulla è peggiore del nulla», scriveva O. Fallaci.
 
Per il cardinale C. Ruini la cultura secolarizzata dell’Occidente moderno e post-moderno è vittima di uno strano “odio di sé”, che va di pari passo con il suo allontanarsi dal cristianesimo. Questo fa sì che oggi la morale cristiana ottenga da una parte un apprezzamento pubblico quando tratta i grandi temi della pace, nonviolenza, giustizia, sollecitudine per i poveri e rispetto del creato, anche col rischio di essere inquinata da un moralismo di stampo politico. Dall’altra parte, quando si riferisce alla vita umana, al matrimonio e alla famiglia, la morale cristiana è assai meno accolta a livello pubblico, anzi costituisce un ostacolo molto grave nel rapporto tra la chiesa e la gente.[3]
 
 
Una sfida culturale
 
Già l’enciclica Evangelium vitae notava che la passione per la vita rientra nella svolta culturale che richiede il coraggio di assumere un nuovo stile di vita, basato sul primato dell’essere sull’avere, della persona sulle cose. Questo implica anche il passaggio dall’indifferenza all’interessamento per l’altro e dal rifiuto alla sua accoglienza (n. 98). L’impegno per la vita, che è uno dei pilastri su cui si regge ogni società civile, intende promuovere uno stato umano e il bene comune.
 
Mettersi dalla parte della vita equivale ad arginare il grave crollo morale, per il quale scelte un tempo unanimemente considerate come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a poco a poco socialmente rispettabili, in nome dei diritti della libertà individuale e persino con l’autorizzazione da parte dello stato.
 
Ripartire dalla vita porta a riscoprire la stessa medicina che, in alcuni suoi settori, si presta sempre più a realizzare atti contro la persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice la sua vocazione originaria e avvilisce la dignità di chi la esercita (n. 4). Perché la capacità della scienza di prevedere e controllare «non deve mai essere impiegata contro la vita umana e la sua dignità, ma sempre posta al servizio suo e delle future generazioni», ha di recente ribadito il papa.[4]
 
Desiderare la vita contrasta l’idea che ci sono situazioni in cui l’essere umano non è più degno della vita, come se la sofferenza o il dolore gli togliessero la dignità. Desiderare la vita è l’opposto della «tirannia dell’utilitarismo» nella dottrina e nella regolamentazione della vita umana associata. «Se non si radica il profilo morale e legale della vita associata in una ontologia della persona che la ragione è in grado di scoprire, la scala dei valori che si dice di istituire sarà sempre rinnovata da chi esercita il potere. La controprova è che, in fondo alla scala, finiscono sempre i diritti dei più deboli», sostiene il card. C. Caffarra.[5]
 
Desiderare la vita infine favorisce l’interculturalità, espressione cara a Benedetto XVI: si pensi alla sacralità della vita umana per le tre grandi religioni monoteiste. Tanti motivi per preparare con cura, vista la posta in gioco, la Giornata per la vita, servendosi anche del sussidio allegato ad Avvenire.[6]
 
Al termine, l’affermazione del presidente della nostra repubblica, di cultura laica: «Sui grandi temi etici colgo una profonda sintonia con la chiesa cattolica, con le sue espressioni di base e con le sue voci più alte».[7] È un riconoscimento importante del servizio della chiesa nel paese, è la conferma inattesa della rettitudine del percorso intrapreso, è l’invito a continuare.
 
 
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[1] Avvenire, 9/01/2006, pp. 4-5.
[2] Danneels G., Sperare. La società depressa, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2006.
[3] Avvenire, 15/12/2006, pp. 26-27.
[4] Discorso alla plenaria della Pontificia accademia delle scienze, in Avvenire del 7/11/2006.
[5] Avvenire, 8/12/2006, p. 11.
[6] Numero speciale di “Genitori & Figli”, che uscirà il 28/01/2007.
[7] Discorso alla nazione, 31/12/2006.
 
 
 
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LEGGI IL MESSAGGIO________________________
 
 
Conferenza Episcopale Italiana
Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente
per la 29a Giornata per la vita
4 febbraio 2007
 
“AMARE E DESIDERARE LA VITA”
 
Non si può non amare la vita: è il primo e il più prezioso bene per ogni essere umano. Dall’amore scaturisce la vita e la vita desidera e chiede amore. Per questo la vita umana può e deve essere donata, per amore, e nel dono trova la pienezza del suo significato, mai può essere disprezzata e tanto meno distrutta. Certo, i giorni della vita non sono sempre uguali: c’è il tempo della gioia e il tempo della sofferenza, il tempo della gratificazione e il tempo della delusione, il tempo della giovinezza e il tempo della vecchiaia, il tempo della salute e il tempo della malattia... A volte si è indotti spontaneamente ad apprezzare la vita e a ringraziarne Dio, “amante della vita” (Sap 11,26), altre volte la fatica, la malattia, la solitudine ce la fanno sentire come un peso.
Ma la vita non può essere valutata solo in base alle condizioni o alle sensazioni che la caratterizzano nelle sue varie fasi; essa è sempre un bene prezioso per se stessi e per gli altri e in quanto tale è un bene non disponibile. La vita, qualunque vita, non potrà mai dirsi “nostra”. L’amore vero per la vita, non falsato dall’egoismo e dall’individualismo, è incompatibile con l’idea del possesso indiscriminato che induce a pensare che tutto sia “mio”; “mio” nel senso della proprietà assoluta, dell’arbitrio, della manipolazione. “Mio”, ossia ne posso fare ciò che voglio: il mio coniuge, i miei figli, il mio corpo, il mio presente e il mio futuro, la mia patria, la mia azienda, perfino Dio al mio servizio, strumentalizzato fino al punto da giustificare, in suo nome, omicidi e stragi, nel disprezzo sommo della vita.
Se siamo attenti, qualcosa dentro di noi ci avverte che la vita è il bene supremo sul quale nessuno può mettere le mani; anche in una visione puramente laica, l’inviolabilità della vita è l’unico e irrinunciabile principio da cui partire per garantire a tutti giustizia, uguaglianza e pace. Chi ha il dono della fede, poi, sa che la vita di una persona è più grande del percorso esistenziale che sta tra il nascere e il morire: ha origine da un atto di amore di Colui che chiama i genitori a essere “cooperatori dell’amore di Dio creatore” (FC n. 28). Ogni vita umana porta la Sua impronta ed è destinata all’eternità. La vita va amata con coraggio. Non solo rispettata, promossa, celebrata, curata, allevata. Essa va anche desiderata. Il suo vero bene va desiderato, perché la vita ci è stata affidata e non ne siamo i padroni assoluti, bensì i fedeli, appassionati custodi.
Chi ama la vita si interroga sul suo significato e quindi anche sul senso della morte e di come affrontarla, sapendo però che il diritto alla vita non gli dà il diritto a decidere quando e come mettervi fine. Amandola, combatte il dolore, la sofferenza e il degrado – nemici della vita – con tutto il suo ingegno e il contributo della scienza. Ma non cade nel diabolico inganno di pensare di poter disporre della vita fino a chiedere che si possa legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà. Né si accanirà con terapie ingiustificate e sproporzionate. Nei
momenti estremi della sofferenza si ha il diritto di avere la solidale vicinanza di quanti amano davvero la vita e se ne prendono cura, non di chi pensa di servire le persone procurando loro la morte.
Chi ama la vita, infatti, non la toglie ma la dona, non se ne appropria ma la mette a servizio degli altri. Amare la vita significa anche non negarla ad alcuno, neppure al più piccolo e indifeso nascituro, tanto meno quando presenta gravi disabilità. Nulla è più disumano della selezioni eugenetica che in forme dirette e indirette viene sempre più evocata e, a volte, praticata. Nessuna vita umana, fosse anche alla sua prima scintilla, può essere ritenuta di minor valore o disponibile per la ricerca scientifica. Il desiderio di un figlio non da diritto ad averlo ad ogni costo. Un bambino può essere concepito da una donna nel proprio grembo, ma può anche essere adottato o accolto in affidamento: e sarà un’altra nascita, ugualmente prodigiosa.
Il nostro tempo, la nostra cultura, la nostra nazione amano davvero la vita? Tutti gli uomini che hanno a cuore il bene della vita umana sono interpellati dalla piaga dell’aborto, dal tentativo di legittimare l’eutanasia, ma anche dal gravissimo e persistente problema del calo demografico, dalle situazioni di umiliante sfruttamento della vita in cui si trovano tanti uomini e donne, soprattutto immigrati, che sono venuti nel nostro Paese per cercare un’esistenza libera e dignitosa. È necessaria una decisa svolta per imboccare il sentiero virtuoso dell’amore alla vita. Non bastano i “no” se non si pronunciano dei “sì”, forti e lungimiranti a sostegno della famiglia fondata sul matrimonio, dei giovani e dei più disagiati.
Guardiamo con particolare attenzione e speranza ai giovani, spesso traditi nel loro slancio d’amore e nelle loro aspettative di amore. Capaci di amare la vita senza condizioni, capaci di una generosità che la maggior parte degli adulti ha smarrito, i giovani possono però talora sprofondare in drammatiche crisi di disamore e di non-senso fino al punto di mettere a repentaglio la loro vita, o di ritenerla un peso insopportabile, preferendole l’ebbrezza di giochi mortali, come le droghe o le corse del sabato sera. Nessuno può restare indifferente.
Per questo, come Pastori, vogliamo dire grazie e incoraggiare i tanti adulti che oggi vivono il comandamento nuovo che ci ha dato Gesù, amando i giovani come se stessi. Grazie ai genitori, ai preti, agli educatori, agli insegnanti, ai responsabili della vita civile, che si prendono cura dei giovani e li accolgono con i loro slanci entusiasti, ma anche con i loro problemi e le loro contraddizioni. Grazie perciò a quanti investono risorse per dare ai giovani un futuro sereno e, in particolare, una formazione e un lavoro dignitosi.
Sì, la vita umana è un’avventura per persone che amano senza riserve e senza calcoli, senza condizioni e senza interessi; ma è soprattutto un dono, in cui riconosciamo l’amore del Padre e di cui sentiamo la dolce e gioiosa responsabilità della cura, soprattutto quando è più debole e indifesa. Amare e desiderare la vita è, allora, adoperarsi perché ogni donna e ogni uomo accolgano la vita come dono, la custodiscano con cura attenta e la vivano nella condivisione e nella solidarietà.
 
Roma, 21 novembre 2006
Memoria della Presentazione della Beata Vergine Maria
 
 
 
 
Luigi Guglielmoni
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