Amartya Sen: la libertà individuale è un impegno sociale

A custodire e promuovere la nostra libertà è anche il fatto che ci interessiamo agli altri.

Che rapporto c’è tra libertà individuale e impegno collettivo? Nel 1990, in occasione del discorso per il conferimento del premio Gianni Agnelli, il futuro premio Nobel Amartya Sen affrontava questa domanda. La sua risposta prefigurava i maggiori sviluppi della sua filosofia, riconcettualizzando uno spinoso problema di etica sociale anche alla luce della sua esperienza in India.


 

Nel 1942, quando Amartya Sen aveva circa otto anni, a Dacca, la città del Bengala in cui viveva, scoppiò un violentissimo conflitto etnico. I diversi quartieri della città erano insanguinati quotidianamente dagli scontri tra musulmani e indù. Il filosofo premio Nobel per l’economia ricorda vividamente il giorno in cui un uomo entrò sanguinando nel cortile di casa sua in cerca di aiuto. Si chiamava Kader Mian ed era un lavoratore giornaliero musulmano: si era avventurato per una consegna nel quartiere indù ed era stato accoltellato alla schiena. Il padre di Sen lo aveva portato subito in ospedale, ma dopo giorni di agonia l’uomo era morto. Per cosa? Perché non aveva potuto permettersi di rifiutare un lavoro, anche se pericoloso, in quanto da lui dipendeva il sostentamento della sua famiglia.

L’anno successivo, nel 1943, nel Bengala si verificò una carestia nel corso della quale sarebbero morte circa 3 milioni di persone. Eppure, ricorda Sen, nella zona rurale in cui viveva non si avvertivano i segni di quella catastrofe. Solo in seguito, studiandola, l’economista avrebbe capito che il problema non era stato la mancanza di cibo, che in realtà era ancora relativamente disponibile. Morivano di fame alcune categorie professionali perché troppo povere per sfamarsi: per il resto della popolazione, la vita si svolgeva in modo paradossalmente normale.

Che hanno a che fare, però, questi ricordi d’infanzia – per quanto terribili – con la libertà degli individui? Amartya Sen lo chiarisce subito in modo cristallino: la libertà individuale è non solo un elemento centrale per la valutazione di ogni società. Essa è anche e soprattutto un prodotto degli assetti sociali. Cosa significa questo, in concreto?

Per comprendere appieno la prospettiva di Amartya Sen occorre fare un passo indietro e chiedersi: in cosa consiste, di fatto, la libertà?

Ponendosi in continuità con la riflessione etica del filosofo Isaiah Berlin, Sen distingue le libertà fondamentali degli individui in due generi: libertà positive e negative. La libertà positiva fa riferimento a tutto ciò che un individuo è libero di conseguire. Quella negativa, invece, si riferisce ai vincoli, imposti da altri o dallo Stato, dai quali l’individuo è libero. Ora, argomenta Amartya Sen, evidentemente un individuo per dirsi autenticamente libero dovrebbe poter godere di entrambi i generi di libertà in misura ragionevole. Far sì che questo sia possibile, però, è il primo compito dello Stato. Storicamente, tuttavia, le politiche sociali della maggior parte delle nazioni hanno manifestato la tendenza a concentrarsi sulla tutela della libertà negativa. Eppure, come dimostrano la carestia nel Bengala e la tragedia di Kader Mian, i due aspetti sono inestricabilmente connessi. Infatti,


Mian dovette affrontare il rischio di venire ucciso perché era povero e la sua famiglia aveva fame. La povertà non è in sé una violazione della libertà negativa. Una persona in estrema povertà, piuttosto, non è libera di fare molte cose […] e la mancanza di libertà positiva non è necessariamente dovuta a un’intromissione da parte di altri. Ora, fu proprio questa mancanza di libertà positiva a costringerlo ad andare in cerca di un guadagno in un territorio ostile. Possiamo considerare il suo omicidio come un’estrema violazione della sua libertà negativa. Però egli fu spinto a rischiare anzitutto dalla sua povertà e quindi dalla mancanza di libertà positiva. […] Ciò dimostra che concentrarsi su un solo aspetto della libertà non solo è eticamente incompleto, ma può anche risultare incoerente dal punto di vista sociale. L’impegno sociale nei confronti della libertà individuale, perciò, deve riguardare entrambe le libertà, negativa e positiva, insieme alle loro estese relazioni reciproche.


Secondo Sen, pur consistendo la libertà individuale di due aspetti inestricabilmente interconnessi, positivo e negativo, si tende a privilegiare sempre un solo aspetto, quello negativo. Di conseguenza, le politiche sociali nazionali e internazionali continuano a risultare incomplete.

Il problema, per Amartya Sen, è quello di riuscire promuovere livelli adeguati di vita, tutelando i diritti umani nel loro insieme. Ciò non è possibile, come avrebbe scritto ne Lo sviluppo è libertà, considerando unicamente criteri come i livelli di reddito della popolazione. Infatti,


i livelli di reddito contano, perché ogni livello coincide con una certa possibilità di acquistare beni e servizi. Tuttavia, spesso il livello di reddito non è un indicatore adeguato di aspetti altrettanto decisivi. Tra questi, si pensi ad esempio alla libertà di vivere a lungo. Alla capacità di sottrarsi a malattie evitabili. Alla possibilità di trovare un impiego decente, o di vivere in una comunità pacifica e libera dal crimine.


Non è possibile nemmeno, però, interpretando semplicemente il benessere sociale come sommatoria dell’appagamento mentale soggettivo degli individui. Questa mossa, tipica delle teorie e delle prassi maggioritarie di stampo utilitarista, presenta infatti un duplice svantaggio. Anzitutto, essa sacrifica il benessere individuale concreto a un benessere sociale astratto, valutato attraverso calcoli di carattere statistico. In secondo luogo, non considera che la condizione di benessere soggettivo può non corrispondere all’effettiva adeguatezza delle condizioni di vita. Per illustrare questo punto, Sen offre l’esempio della condizione delle donne in alcune zone rurali dell’India negli anni ’80. Interpellate sulle proprie condizioni di vita, infatti, queste donne esprimevano un sincero appagamento. Esse, però, avevano un’aspettativa di vita notevolmente inferiore rispetto agli uomini ed erano analfabete: tale appagamento derivava da una sostanziale mancanza di informazioni.

La proposta di Sen, approfondita negli anni successivi all’intervento, era che la prassi politica si facesse finalmente carico della libertà come frutto degli assetti sociali. Come? In primo luogo rivedendo la nozione di sviluppo economico. Tale indicatore, infatti, avrebbe dovuto misurare non la crescita del PIL ma della qualità di vita delle persone.

Un cambiamento, dunque, è auspicabile. Eppure, sorge una domanda legittima: è anche possibile? Poiché ci saranno sempre gruppi avvantaggiati e gruppi svantaggiati, non si tratta di un processo destinato necessariamente allo scacco? Secondo Amartya Sen, «un certo pessimismo non è irragionevole: la sua forza dipende da come concepiamo gli umani in quanto persone sociali».

Infatti, argomenta lo studioso,


Se è vero che gli individui perseguono senza compromessi solo il loro ristretto interesse personale, allora non c’è molto da fare. La ricerca della giustizia verrà costantemente intralciata dell’opposizione di tutti coloro che abbiano qualcosa da perdere dal cambiamento proposto. Se, invece, gli individui come persone sociali coltivano la comprensione per gli altri e un impegno verso le norme etiche, allora è molto diverso. In questo caso la giustizia sociale non dovrà necessariamente fronteggiare un’incessante opposizione a ogni cambiamento.


Ora, secondo Sen, la descrizione degli individui come puri massimizzatori di angusti interessi personali non è solo desolante: è anche e soprattutto inaccurata. Questo perché i resoconti su discriminazioni, torture, miserie o abbandono aiutano a coalizzare le forze contro questi avvenimenti. Essi allargano l’opposizione dalle sue vittime a un vasto pubblico. Questo è possibile solo perché la gente ha la capacità e la disponibilità di reagire anche alle difficoltà altrui. […] La stampa e i mezzi di comunicazione di massa sanno essere veicoli straordinari di sensibilizzazione politica e di sicurezza economica. Ciò sarebbe incomprensibile se la gente si limitasse davvero a promuovere solo i propri interessi personali.

Ecco, dunque, quella che è forse la lezione più preziosa del piccolo discorso tenuto dal filosofo indiano oltre trent’anni fa. A custodire e promuovere la nostra libertà è anche il fatto che ci interessiamo agli altri. Oggi che avvertiamo quasi visceralmente il bisogno di un profondo rinnovamento politico e sociale, questo potrebbe essere un punto davvero decisivo da cui partire.

 

di Valeria Meazza

 


Testo e immagini tratte da ultimavoce.it

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