Andare all'università paga?

La difficoltà riscontrate nel mercato del lavoro, dunque, fanno propendere a non riconoscere all'università quell'elemento in più che potrebbe fare la differenza. Si è anche verificato il fenomeno opposto, anche se statisticamente meno rilevante, vale a dire che altri giovani in attesa che la situazione del lavoro muti a favore, preferiscono rifugiarsi o investire nello studio all'università.

Andare all'università paga?

da Quaderni Cannibali

del 23 marzo 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

          Le Università in Italia stanno conoscendo una fase di declino in termini di iscrizioni presso le varie facoltà. Questa informazione di carattere ufficiale oltre che statistico, fornita da fonti autorevoli sull’andamento annuo del numero delle matricole, porta con sé un dato non molto confortante: si è verificato un calo del 5% nel 2010 rispetto agli iscritti dell’anno precedente.

          Una ragione, evidente e sotto gli occhi di tutti, potrebbe stare nel fatto che molti giovani ormai non considerano più l’obiettivo della laurea essenziale alla ricerca del lavoro, dato che il numero dei disoccupati attuali con tanto di laurea in tasca è vistosamente aumentato il doppio rispetto al 2008.

          Ma non è solo la mancanza di lavoro che determina uno scarso interesse verso l’ambito pezzo di carta e la propensione a evitare l’iter universitario, vi sono pure le modalità anomale e ambigue con cui si propone ai giovani di lavorare che li scoraggiano a scegliere una facoltà: il precariato che si configura come realtà più emblematica quando si fanno i cosiddetti contratti a termine o a progetto. Ne sono succubi la metà di tutti i laureati italiani. E si affaccia con sempre più prepotenza il lavoro nero a squalificare ancora di più quella meta degli studi raggiunta negli atenei.La difficoltà riscontrate nel mercato del lavoro, dunque, fanno propendere a non riconoscere all’università quell’elemento in più che potrebbe fare la differenza. Si è anche verificato il fenomeno opposto, anche se statisticamente meno rilevante, vale a dire che altri giovani in attesa che la situazione del lavoro muti a favore, preferiscono rifugiarsi o investire nello studio all’università.

          Ma questa tendenza a investire nell’istruzione da parte dei giovani per avere poi qualche opportunità in più nel mondo del lavoro non è marcata nel nostro Paese, in cui la fiducia nel titolo di studio più elevato non è percepita come propedeutica a opportunità occupazionali più vantaggiose, in quanto il fenomeno ormai imperversante del precariato unito a quello di bassi salari per nulla rimunerativi taglia le gambe a tutti o quasi.

          Il mito della laurea che ti garantiva il posto sicuro che una volta era fisso, è praticamente svanito, è fumo negli occhi, è una leggenda metropolitana. I giovani lo hanno sperimentato sulla loro pelle. E hanno rinunciato a credere nell’istruzione come valore. Come strumento di affermazione. Come fonte di riscatto.

          Che futuro si presenta allora per un Paese in cui le nuove generazioni non hanno accesso nel mondo del lavoro e vivacchiano solo grazie al portafogli o alle pensioni dei genitori o a retribuzioni ridicole, che sono il frutto di lavori dequalificati e squalificanti?

In Italia chi raggiunge la laurea (e non è nemmeno il 20% di tutti i giovani) non avrebbe chance nel mondo del lavoro. E questa constatazione è sintomo di un declino.

          Quando uno su 5 giovani tra i 15 e i 29 anni né studia, né lavora, quando il 45% di essi è in cerca di un lavoro qualunque da più di un anno, si fanno delle considerazioni che possono apparire ciniche o scontate (dipende dai punti di vista): mancano quei riferimenti etici che potrebbero condizionare in positivo le scelte dei giovani, dare loro un’iniezione di fiducia, spronarli a reagire. Si è passivi o rassegnati. Ma chi legge queste righe e sta vivendo questo disagio sappia allora che studiare, investire nell’istruzione, andare all’università e conseguire una laurea rimane un antidoto alla crisi. Se un diplomato guadagna 100, un laureato ne percepisce 155. Basta crederci. Le statistiche, anche se le percentuali non sono proprio consolanti, con 26 mila studenti universitari in meno, dicono ancora che con la laurea in tasca trovare uno straccio di lavoro è possibile. Non è chimerico, ma un dato reale, confermato da fonti ufficiali quali Censis, Istat e altre analoghe, che chi ha un titolo di studio superiore, un diploma di laurea è privilegiato rispetto a chi si è fermato alla scuola media o alla scuola media superiore. Un posto a tempo indeterminato lo ha ottenuto negli ultimi anni il 18% dei diplomati, ma più elevato è stato il numero dei laureati: 37%. Certo ciò dipende anche dal tipo di facoltà scelta: se fai ingegneria, o economia o medicina, per esempio, hai più occasioni di chi fa architettura o lettere. Si dice. Ma dai un tempo massimo di 5 anni, e anche chi ha fatto per esempio, filosofia, piuttosto che una disciplina scientifica, un buon lavoro, se si mette di buzzo buono, con tenacia da far tremare i polsi, con grinta da vendere, lo trova, e guadagna anche benino…

Nicola Di Mauro

http://www.dimensioni.org

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