ovvero: cosa capita in Argentina ora che non se ne parla più?L'abbiamo chiesto ad uno studente di Economia: ci spiega cos'è successo e cosa sta succedendo
del 11 gennaio 2003
Circa un anno fa cominciava a manifestarsi in Argentina una delle crisi più gravi che il paese abbia conosciuto negli ultimi anni.
Il 19 dicembre 2001 migliaia di persone iniziarono ad assalire i supermercati, le banche, sfociando nelle piazze di tutte le città più importanti della nazione. Giunsero fino a Plaza de Majo a Buenos Aires, sede della Casa Rosada e dimora dell’allora presidente De La Rua. Alle 23 di quello stesso giorno fu dichiarato lo stato d’assedio e il giorno successivo, il ministro dell’economia Cavallo, uno dei principali responsabili della crisi argentina a causa della sua azzardata politica monetaria, si dimise dal suo incarico. Negli scontri di quel giorno persero la vita ventidue persone.
Il 24 dicembre il presidente provvisorio, Rodriguez Saa, assecondò le agenzie di rating (quelle che dicono se chi emette delle obbligazioni riuscirà a ripagarle), che dal 6 novembre 2001 avevano assegnato al debito dell’Argentina la lettera D (ovvero “default”, fallimento, in poche parole ne avevano sancito l’impossibile ripagamento) dichiarando il definitivo crack finanziario dell’Argentina.
Dal 2 gennaio 2002 il presidente del paese sudamericano è Eduardo Duhalde, uno dei principali esponenti del peronismo (movimento che detiene la maggioranza nel parlamento argentino), e acerrimo nemico dell’ex-presidente Menem.
Da allora l’Argentina versa in una profonda crisi economica e sociale. Il tasso di disoccupazione reale è in crescita e a livelli superiori al 30%. I poveri sono circa il 37% della popolazione in un paese che conta circa 36 milioni di abitanti. Il debito estero ammonta a 142 (!) miliardi di dollari. Il corralito (il blocco dei conti correnti bancari e dei depositi con più di 30000 dollari, per evitare la fuga di capitali all’estero), che doveva durare fino a febbraio 2002, è ancora in atto. I cittadini non possono prelevare da ogni conto più di 250 dollari a settimana e non possono trasferire all’estero più di 1000 dollari al mese. I salari pubblici, già un anno e mezzo fa, vennero decurtati del 13%. Le pensioni sospese a quasi 1 milione e mezzo di persone. Il peso, la moneta argentina, non è più ancorata al dollaro in parità di 1 a 1 ed è stato svalutato. Questo, se da un lato è un vantaggio per le esportazioni perché i prodotti argentini costano meno, dall’altro crea un ulteriore pressione sui prezzi dei prodotti all’interno, alimentando l’inflazione che è uno, se non il principale, problema dell’economia argentina. Il governo, per l’incapacità di far fronte alla crisi di liquidità, emise dei titoli provinciali del debito (come i nostri B.O.C.) per 1 miliardo di dollari dal nome poco rassicurante di patacones, che raggiunsero una diffusione simile a quella della moneta; tanto che Mc Donald’s creò un menu appositamente chiamato patacombo. Parte dell’economia nelle province si basa sul baratto, in luoghi simili a mercati dove la gente si incontra per lo scambio dei generi di prima necessità. Il 22 febbraio scorso 3 delle principali obbligazioni con scadenza 2002 del banco hypotecario (il colosso argentino dei mutui) vennero swappate (sostituite con obbligazioni a scadenza più lunga). Il 2 aprile Telecom Argentina decise di pagare gli interessi sulle sue obbligazioni ma di non rimborsare il capitale.
Uno dei principali protagonisti di tutta questa vicenda, sia in positivo che in negativo, è il Fondo Monetario Internazionale a cui vengono avanzate molte critiche, in parte condivise anche da me, a riguardo del modo di gestire la crisi argentina.
1) Innanzitutto l’FMI dovrebbe essere un organismo di controllo e sorveglianza e non un concedente credito (un po’ come il giocatore che vuole fare l’arbitro). Questa sua duplice posizione crea ormai da diversi anni una situazione di evidente conflitto di interessi nel suo operato.
2) I parametri da rispettare per ottenere prestiti dall’FMI sono troppo stringenti. Solitamente essi prevedono politiche di bilancio e monetarie restrittive impedendo al governo di sfruttare la politica fiscale (la spesa pubblica) per favorire la necessaria espansione.
3) I consigli del Fondo vanno bene per democrazie solide ma non in Argentina, paese dove l’attenzione per l’economia del paese ha distolto l’attenzione dalla gravissima crisi sociale poi sfociata nelle veementi proteste dello scorso inverno.
4) I problemi cominciarono con l’eccesso di inflazione degli anni ’80. Per bloccare l’inflazione bisognava cambiarne le aspettative. Agganciare la valuta al dollaro serviva proprio a questo scopo. Se le aspettative fossero cambiate subito si avrebbe avuto deflazione (l’inflazione al contrario) senza avere disoccupazione (come probabilmente qualcuno di voi ha studiato o sta studiando all’università). Un cambio non fisso ma più flessibile, adatto ai modelli commerciali argentini, sarebbe stato più opportuno.
5) Il programma di riforme introduceva l’intervento di molte grandi banche straniere. Era un sistema più stabile in apparenza ma che non prestava denaro alle piccole e medie imprese del paese.
La cattiva gestione delle crisi nei paesi emergenti degli ultimi anni (a partire da quella asiatica del 97) ha fatto in modo che lo stesso FMI alzasse i tassi per tutti gli stati con cui aveva in essere rapporti di finanziamento, compresa l’Argentina, che con quegli stessi tassi al 20% doveva destinare il solo 9% del PIL (!) al pagamento degli interessi sul debito internazionale.
L’FMI consigliò un taglio netto della spesa pubblica per riacquistare la fiducia internazionale ma fu il primo creditore a non concordare questa stessa fiducia nel dicembre 2001 quando non concesse un ulteriore finanziamento per 1,3 miliardi di dollari (ne aveva già prestati 8 in quell’anno!). Di conseguenza anche tutti gli altri potenziali finanziatori si allontanarono dal paese.
Ad un anno dall’elezione di Duhalde a presidente dell’Argentina, la situazione è ancora gravissima. Dei tre punti da affrontare per rilanciare l’economia (risanamento dei conti pubblici, uscita dal corralito e politica monetaria credibile e coerente) forse solo il primo è stato affrontato con decisione.
Il Fondo Monetario Internazionale continua ad essere l’unico Istituto Specializzato delle Nazioni Unite, insieme alla Banca Mondiale ovviamente, in cui il peso degli stati nelle votazioni è proporzionale alla quota di capitale sottoscritta per diventarne membri.
Negli ultimi anni l’intervento del Fondo è stato in alcuni casi poco appropriato e in altri, come in questo, addirittura dannoso. Non concordo con chi afferma che l’FMI sia al servizio delle multinazionali e dei potenti ma probabilmente una revisione del suo ruolo nelle crisi economiche internazionali o una più attenta analisi esterna del suo operato renderebbero meno drammatica la risoluzione di controversie di così enormi proporzioni.
Filippo Sossi
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