Un anno dopo la morte di Giovanni Paolo II e l'elezione del suo successore.Parola di un esperto che lo conosce bene e che conosceva bene anche Wojtyla. E che qui azzarda qualche parallelo. Esempio: «Per Giovanni Paolo II la fede era un evidenza, non aveva bisogno di ragionamenti. Per Ratzinger è la scoperta di ogni giorno, bisogna sempre darne ragioni». Bilancio di un pontificato partito piano, ma che sta rivoluzionando la Chiesa dal di dentro. Più di quanto abbia fatto quello precedente.
del 31 marzo 2006
«Guardi, il modo di procedere di Ratzinger l'ho capito ancora meglio l'estate scorsa, quando ho passato un po' di giorni in una Kurhaus della Svizzera tedesca». Scusi, che c'entra il Papa con le terme? «Per una settimana i medici mi hanno fatto solo visite: almeno quattro o cinque,  senza dirmi nulla. Nessuna terapia. La cura è iniziata dopo. Prima serviva  la diagnosi». Eccolo lì, il «metodo Ratzinger» visto da uno che lo conosce bene. È Vittorio Messori, scrittore e giornalista che sottol'etichetta (vera) di «saggista cattolico più letto del mondo» ha la sostanza di  giornate intere spese a discutere con Karol Wojtyla e lo stesso Joseph  Ratzinger, cavandone bestseller mondiali (i libri-intervista Varcare le  soglie della speranza e Rapporto sulla fede hanno venduto milioni di  copie) ma anche, e soprattutto, una conoscenza personale di due Papi che  pochi possono vantare. La persona giusta per tirare un bilancio, quindi. A  un anno dalla morte di Giovanni Paolo II, che il 2 aprile 2005 mise fine  al terzo più lungo pontificato della storia (26 anni e mezzo), e  dall'elezione di Benedetto XVI, che rispetto al Pontefice polacco è  diverso in tutto. E a pochi giorni dal Concistoro che ha creato 15  neocardinali - alcuni dei quali a sorpresa-, dando un'altra accelerazione  all'abbrivio preso da Papa Ratzinger negli ultimi tempi. Da fine gennaio  sono arrivati, nell'ordine: la prima enciclica (Deus caritas est); la  conferma di Camillo Ruini a capo dei vescovi italiani; la sforbiciata ai  «ministeri vaticani» (con il Consiglio per il dialogo interreligioso  accorpato a quello per la Cultura e con la Pastorale per i migranti  portata sotto la Iustitia et Pax); l'annuncio di una riforma ancora più corposa della Curia, con la richiesta di suggerimenti ai cardinali. Niente  male, per un Pontefice che nei mesi successivi all'elezione aveva  spiazzato tutti tenendo il ritmo basso. Molti osservatori avevano previsto  restaurazioni massicce e radicali, adatte al Panzerkardinal che, secondo  la vulgata, aveva regnato per 24 anni sull'ex Sant'Uffizio. Benedetto XVI  ha fatto capire in fretta che della macchina da guerra non ha nulla.
 Tutt'al più assomiglia a un aratro. Passo lento, ma costante. Smuove la  terra, non la spiana. E lo fa per seminare. «Devo essere sincero: qualche  volta nei mesi scorsi mi sono sorpreso anch'io a pensare 'Santità, si dia  una mossa'», confessa Messori: «Mi sembrava che facesse poco. In realtà  non è così. Benedetto XVI è un uomo che non ama balconi e bagni di folla,  Ha ridotto drasticamente gli impegni pubblici. Però fa quello che Wojtyla  un po' trascurava: studia i dossier. Una delle accuse che venivano fatte a  Giovanni Paolo II era di occuparsi molto del mondo, ma poco della Chiesa:  non aveva né tempo né voglia di studiarsi a fondo i documenti. Ratzinger è  il contrario. Scuola tedesca, appunto. Si prende tempo per la diagnosi  prima di stabilire le cure». Poi, però, decide. E lo fa in proprio. In  Vaticano ne parlano tutti come di uno che ascolta tutti, ma non delega le  scelte a nessuno. È così? «Questa è un'altra differenza rispetto a  Giovanni Paolo II. L'80 per cento delle cose che leggeva o pubblicava  Wojtyla erano opera del suo staff. Lui supervisionava. Giovanni Paolo II  voleva essere onnipresente, in qualche modo: occuparsi di tutto e dire la  sua di tutto. Per questo era costretto a non fare da solo. Ratzinger,  invece, quello che dice se lo scrive lui, al suo tavolino. Nella Deus  caritas est si capisce benissimo: ci si legge sotto la sintassi tedesca e  ci si ritrova il suo stile. Ma la stessa cosa vale per le occasioni  pubbliche. Nella sua bulimia di incontri, Wojtyla ospitava sempre  qualcuno: dalla messa nella cappella privata all'alba, ai pranzi, alle  riunioni a raffica. Ratzinger no: ha ridotto del 70% le udienze private e  tagliato i viaggi a tre o quattro l'anno, non di più». Vuol dire che è un  Papa meno accessibile del predecessore? «Solo in un certo senso. Provi a  riguardarsi le foto e i filmati di Wojtyla in mezzo alla folla. Lo vede  stringere migliaia di mani, ma sempre di corsa, guardando poco in faccia  gli interlocutori. Ratzinger no. Lui guarda negli occhi, sempre. Si ferma  a parlare, uno per uno. Vuol sapere chi ha davanti. Questione di  carattere, chiaro. Ma non solo. Wojtyla era un uomo di cristianità: voleva  che il Vangelo fosse annunciato ai popoli. Per lui la folla era l'habitat.  Ratzinger è un uomo di interiorità, un intellettuale postmoderno. Uno che,  se potesse, parlerebbe sempre e solo a tu per tu». Eppure anche lui le  folle le attira, a dispetto di un'altra previsione sballata d'inizio  pontificato: a Colonia, in agosto, c'era un milione di giovani, agli  Angelus piazza San Pietro è strapiena... «Vero. Joaquin Navarro-Valls mi  diceva proprio ieri che le presenze alle udienze sono tra il raddoppiate e  il triplicate». E come se lo spiega? «Con due motivi di fondo. Uno:  l'effetto-traino del predecessore. C'è poco da fare: Wojtyla ha riportato > Cristo al centro del dibattito mondiale. Nel '78, alla sua elezione, la  crisi della Chiesa era all'acme: a San Pietro c'erano solo turisti, altro  che folle. L'anno scorso, al suo funerale, si è visto che cosa è  successo». E l'altra ragione? «La spiegava bene il titolo di un giornale  tedesco nei giorni di Colonia: 'Ratzinger, l'accademico che si capisce'.
 Benedetto XVI è un professore, ma ha un grande rispetto per  l'interlocutore. Parla con densità e serietà assolute, ma sforzandosi di  farsi capire. La gente lo sente. Avverte che è un uomo buono; uno che non  vuole toglierti niente, ma regalarti qualcosa. Non vuole vincere, ma  convincere. Per questo la folla ne è attratta». Apriamo il dossier-Chiesa.
 Anche lì le prime mosse sono state intonate allo stesso Leitmotiv:  snellire e semplificare. Impressione corretta? «Sì. Una volta gli ho  chiesto: eminenza, immagino che lei, da bavarese, sarebbe contento se il  centro della Chiesa non fosse a Roma, ma in Germania. Lui mi guardò un po'  sorpreso, poi mi disse: 'Per carità, avremmo una Chiesa troppo  organizzata. E l'organizzazione soffoca lo Spirito'. La verità è che  Ratzinger non ama il barocchismo curiale e l'ipertrofia burocratica. Pensa  che la Chiesa vada snellita». E come? Vuol dire che si arriverà a una riforma drastica della Curia? «Per riformare la Curia ci vuole un motu  proprio, un documento ufficiale del Papa. Serve tempo. Lo farà, per amore  della Chiesa. Ma credo che umanamente gli costerà molta fatica. Sarà  doloroso». Però sarà l'occasione per pescare facce nuove, magari degli  outsider. In parte l'ha già fatto, nominando l'americano William Levada  come suo successore alla Dottrina della fede... «Ma in fondo lui stesso è un outsider. Può sembrare un paradosso, perché era già a Roma da un quarto  di secolo e come custode della fede, mica da monsignore qualunque. Però nella Curia era rimasto un corpo estraneo. Si occupava del suo ruolo e  basta. Faceva documenti dottrinali. Studiava. Scriveva. Ogni settimana  vedeva il Papa. Incontrava qualche altro cardinale. Ma di rapporti veri e  propri con la macchina non ne aveva. Di quello che succedeva nelle altre  congregazioni sapeva poco. Delle varie conferenze episcopali mondiali,  ancora meno. Anche per questo ha dovuto studiare bene la situazione.  Certo, è probabile che punti su facce nuove. Ma senza crearsi intorno reti  a maglie troppo fitte». Niente clan, quindi. E niente invasioni di  tedeschi in vista: anche il rapporto professionale con don Georg  Gaenswein, segretario personale, è lontano da quello semicameratesco tra Giovanni Paolo II e Stanislaw Dziwisz, vero deus ex machina della gestione  wojtyliana. Ma di sicuro i cambi della guardia arriveranno in fretta.
Anche in alto. «Chi conta in Vaticano sa che che non c'è sintonia tra il  nuovo Papa e il segretario di Stato, Angelo Sodano, ereditato da Wojtyla e  che peraltro nel 2007 compirà 80 anni. Ci sono sensibilità diverse, ci  sono state anche contrapposizioni: quando Ratzinger era al Sant'Uffizio  era intransigente, conoscendo bene la situazione tedesca, contro la  presenza di consiglieri 'cattolici' nei consultori di Germania dove si  praticava l'aborto. Sodano, invece, era possibilista. Ma anche in altre  occasioni le prospettive divergevano, tra i due cardinali. Per ora, Sodano  è stato riconfermato. Ma solo pro tempore». Chi non è stato confermato,  invece, è il cardinale Michael Fitzgerald, addirittura retrocesso da  responsabile del dialogo interreligioso a nunzio in Egitto. Segno che sull'argomento Benedetto XVI vuol cambiare impostazione? «La verità è che  Ratzinger è sempre stato un pensatore eurocentrico. È un intellettuale  della Mitteleuropa: un teologo occidentale che, anche nei suoi messaggi,  in qualche modo ha come interlocutore sempre l'uomo occidentale. Non ha  illusioni terzomondiste. Sa che malgrado tutto il futuro della Chiesa si  gioca qui. Ci sono ragioni teologiche: già negli Atti degli apostoli  sembra esserci un avvertimento misterioso sulla prevalenza dell'Occidente  nello sviluppo della fede. Ma ci sono anche motivi storici: dalle nuove  Chiese, in fondo, non è ancora venuto qualcosa di rilevante, di  paragonabile a quella che, nonostante tutto, continua ad essere la  vitalità del cattolicesimo europeo. La teologia della liberazione,  spacciata come fenomeno sudamericano, dal punto di vista teorico è tutta  opera di tedeschi e francesi. La stessa Chiesa degli Stati Uniti,  nonostante i dollari e i 70 milioni di fedeli, non ha mai portato novità  reali: chessò, un ordine importante, un movimento, un grande teologo...
 Niente. Per non parlare di Asia e Africa: le congregazioni si illudono di  riempire di nuovo i ranghi con seminaristi che arrivano da lì, ma molto  spesso sono vocazioni fragili. Benedetto XVI ha le idee chiare: per lui  conta di più tener duro in una parrocchia delle Marche o ridare vita alla  Chiesa in Bretagna che conquistare fedeli in una diocesi africana». Forse  è anche per questo che sta cercando di riportare nella Chiesa i  lefevbriani (scomunicati da Giovanni Paolo II) e lancia segnali sempre più  forti agli ortodossi. L'ecumenismo, per lui, parte dall'unità della  Chiesa... «Chiaro. E su questa frontiera europea, l'ortodossia ha un ruolo  molto importante. Certi vescovi hanno mitizzato per anni il dialogo con le chiese protestanti storiche: be', quello è un dialogo con dei fantasmi.  Luterani, calvinisti e anglicani ormai sono senza popolo: hanno  professori, ma non fedeli. Spendere energie con loro serve a poco. Il solo  protestantesimo vivo è quello impazzito: Avventisti del settimo giorno,  evangelici... O i Testimoni di Geova, che da noi sono la terza confessione  religiosa dopo cattolici e musulmani: eppure la Chiesa non se n'è mai  preoccupata, al di là della polemica spicciola. Il dialogo con queste  realtà è ecumenicamente scorretto. Ma non escludo che Ratzinger, da buon  realista, lo apra». E l'islam? «Anche lì sta facendo la diagnosi, prima  della terapia. Di sicuro è consapevole che i musulmani non sono un  monolite: quello può pensarlo solo Bush, che si illude di combatterli con  le bombe. E infatti, se continua così, penso che prima o poi si arriverà a  uno scontro tra Usa e Vaticano». Però la radicalizzazione dell'islamismo  c'è, specialmente in certe zone di frontiera. Si vedono sempre più spesso  martiri e chiese bruciate... «Certo, oggi il dialogo diventa più  complicato. Ma la vera difficoltà stabilire con chi si possa dialogare.  Trovare gli interlocutori adeguati. Il Papa lo sa. E li sta cercando».  Altri dossier e altro tempo da investire, quindi. Ma intanto l'aratro va  avanti. E, a sentire Messori, è facile che tra un po' vada a smuovere pure  un altro orticello, magari meno appealing per i non cattolici ma  altrettanto delicato: «La liturgia. Per lui è ancora un grande cruccio. Lo  considera uno dei maggiori tradimenti del Concilio. A cominciare dal  rovesciamento della posizione dell'altare. Se il prete guarda verso il  popolo e ci si mette in cerchio, sembra che la Chiesa sia solo una cosa  umana e la messa un dibattito. Niente a che vedere con il sacerdote che,  alla testa del popolo, guarda l'altare piazzato verso Oriente, cioè verso  Cristo. Ecco, su questo punto pensavo che avrebbe fatto subito un  intervento». Però segnali ne ha lanciati: ha scritto ai neocatecumenali  chiedendo messe più ordinate... «Il vero errore è pensare alla liturgia  come a uno show, con il prete che fa da anchorman e magari chiude la  funzione dicendo 'arrivederci a tutti e buona serata': succede in molte  chiese. Per Benedetto XVI, invece, la forza della messa sta tutta nella ripetizione, nel dire le stesse cose tutti i giorni nello stesso modo,  alternando gesti e silenzi. Il sacerdote è solo uno strumento al servizio  del popolo. Persino il Papa lo è. E infatti le celebrazioni papali sono  diventate molto più sobrie. Mi dicono che i registi Rai a volte non sanno  più come cavarsela». In che senso? «Da Colonia in poi, il Benedetto XVI ha  reintrodotto l'adorazione eucaristica durante la messa: silenzio e  preghiera davanti al Sacramento. Be', è la cosa più antitelevisiva che ci  sia: che fai in quei momenti, inquadri l'ostia?». Però le cerimonie sono  calate anche di numero. In San Pietro, per dire, non ci sono più  beatificazioni: il Papa celebra solo le canonizzazioni. «Il punto è  proprio questo: Ratzinger vuole rendere la Chiesa meno papocentrica. Il  carisma personale di Wojtyla, in qualche modo, ha fatto sì che la Chiesa  intera si identificasse in un uomo. Insomma, ha avuto risvolti da culto  della personalità, per quanto non voluti. Ratzinger cerca di essere il  meno invadente possibile. Non vuole che la Chiesa diventi tout court  l'uomo che la guida. Anche se forse, a conti fatti, la differenza più  importante tra Wojtyla e Ratzinger è un'altra, e riguarda proprio l'idea della fede». In che senso? «Giovanni Paolo II non aveva bisogno di  credere. Era un temperamento mistico, e il mistico non ha bisogno di  ragionamenti. Vede. Tocca. Constata. Per lui, la fede è un'evidenza. Non lascia spazio a dubbi o domande. Benedetto XVI, invece, anche in questo è un vero intellettuale postmoderno. In lui la fede è una riscoperta di ogni giorno, qualcosa di cui occorre sempre spiegare le ragioni. È uno che  sulla fede si interroga e conosce anche la possibilità del dubbio. Non che  lui stesso dubiti, chiaro. Ma si rende conto che gran parte degli uomini  occidentali lo fanno. E vuole rispondere anche a loro».
 
 
Corriere della Sera. Magazine. 30 marzo 2006
Davide Perillo
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