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«C'è un senso nel mio dolore»

A colloquio con Chiara M., la giovane infermiera trentina che nei suoi due libri ha messo nero su bianco le riflessioni spirituali scaturite dalla malattia degenerativa che l'ha colpita. La sua casella di “posta in arrivo” è sempre intasata. Le scrivono migliaia di persone che hanno assaporato i suoi due libri; con 400 di questi lettori diventati amici si sforza di tenere un dialogo costante.


«C'è un senso nel mio dolore»

da Quaderni Cannibali

del 05 febbraio 2009

La sua casella di “posta in arrivo” è sempre intasata. Le scrivono migliaia di persone che hanno assaporato i suoi due libri; con 400 di questi lettori diventati amici si sforza di tenere un dialogo costante. Eppure Chiara M., l’infermiera trentina consumata di giorno in giorno nel fisico da una malattia terribile, respinge l’idea di dover dare lezioni, come se la sua carrozzina fosse diventata una cattedra, le sue “scoperte” valide per tutti.

 

“È solo la mia esperienza, una fra tante altre. Ogni malattia ha le sue variabili”, premette più volte, prudente come chi sa che domani si troverà a fare i conti con un dolore nuovo. Ma accetta di confrontarsi, con la fiducia di un’amicizia nata ai tempi dell’oratorio, sul passaggio-chiave del messaggio dei vescovi per la Giornata per la Vita, quella consapevolezza che “è Cristo, il solo giusto, a portare la sofferenza con noi”. “E’ una maturazione graduale – reagisce –; all’inizio questa consapevolezza non ce l’hai, non riesci a fare questo ragionamento. Quando ti viene addosso una montagna di dolore, non ne hai la forza”. La diagnosi di una malattia cronica, inesorabile: “Vedi che vai lentamente verso la consumazione del fisico. Le tue potenzialità vanno assottigliandosi, la società, che considera out chi non produce, ti allontana”. Si è sentita tarpare pian piano le ali Chiara, donna autonoma con l’hobby della fotografia e un grande senso della libertà. “Il Suo giogo non è “soave e leggero”, l’affidarsi a Lui non è immediato; è una maturazione dell’anima, che ti s’incarna dentro, ma arriva dopo tanto, tanto tempo, attraverso lotte, ribellioni, una valanga di perché”.

 

Quando ci si arriva? “A un certo punto, in questo perdersi, in questo doversi fermare, cominci a guardarti. Quando perdi tutto, ti ritrovi davanti a te stesso, come denudato. Solo allora comincia una sorta di catarsi. Capisci che questo tsunami arrivato addosso ha un suo valore e un suo perché. Ti apri e solo allora cominci a entrare in una dialettica diversa con Lui, a capire certi messaggi che ti lancia attraverso la quotidianità”.

 

Lo chiama il Socio, nei suoi libri. Per dire confidenza, complicità, ma anche dialettica: “A un certo punto ti accorgi della possibilità di entrare in comunione con Lui. Questo dolore che tu sei diventato entra in comunione con il Suo dolore. Solo a quel punto lo senti amico, non un Dio che castiga ma che ti accompagna sulla strada della vita. E anche se tu fai l’asino recalcitrante, alla fine ti viene da tornare lì”.

 

Appunto, non è mai un’acquisizione definitiva, una volta per tutte. “No, continui a cambiare”, e Chiara sfodera una delle immagini che fioriscono sempre fresche nelle sue riflessioni spirituali: “È come quando fai un corso di lingue. All’inizio ti insegnano alcuni primi vocaboli, senza i quali non potrai mai costruire una frase. Così è con Lui: devi imparare pian piano il suo linguaggio, con la docilità di farti correggere o di scoprire dove hai sbagliato”.

 

Il messaggio dei vescovi introduce la frase di Paolo ai Colossesi: “Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne”. Chiara riposa lo sguardo sui cumuli di neve nel piazzale sotto casa: “Ci ho pensato tante volte – s’interroga - ma come fai a sapere fin dove arriva la sofferenza di un Dio? Come se lui patisse fino a 90 e tu completassi con il tuo 10? Che significa? È una cosa altissima!”. E ripesca l’immagine mariana dello “stabat”: “Alla fine, gli offro questo, deposito lì il mio dolore: stare così, davanti a Te, alla tua Croce. Entrare in questo abbraccio di dolore. Fondo il mio con il Tuo. Non vorrei dire un’eresia, ma forse proprio qui è il compimento del Suo dolore, il dolore di Colui che si è fatto uomo, per collegare terra e cielo. Dico sempre che non sei mai solo sulla croce. All’apice del dolore massimo, lì esplode la vita, la Resurrezione, sentì la Sua compagnia”.

 

Chiara riflette anche sulla virtù invocata nel messaggio dei vescovi: la fortezza. “Non la tiri fuori da una tasca, è normale farsi prendere dalla sconforto. Sicuramente – e qui nei suoi occhi scorrere il ricordo di tante figure amiche – è di enorme importanza il contesto sociale e famigliare. Se uno è solo, resta tutto il giorno ad ascoltare il suo problema. Che si ingigantisce. Se invece qualcuno sta lì a farti compagnia e ti dà un supporto, degli stimoli, allora è diverso. Che aiuto sentirsi dire: guardiamo insieme in faccia il dolore senza paura, ti prendo per mano e ti accompagno!”. Il sorriso di Chiara è dolcissimo, ma l’ironia non le manca. Appunta nel suo diario, quando in ospedale la torturano con gli aghi delle flebo: 'Alla ricerca della vena perduta'. E ai “sani”, sempre che ce ne siano, cosa le verrebbe da dire? 'A tutti vorrei dire: svegliatevi. Quanto tempo si perde in cose inutili e superflue', ripete nel suo diario invitando a coltivare una più sottile percezione delle cose: 'Vivere al massimo il momento presente, come se fosse l'ultimo'. Passati i quarant’anni, si sente ancora una 'migola', una briciola in dialetto trentino, eppure lo spirito coraggioso dentro questo corpo ridotto a 'un catorcio abitato da Dio' l'aiuta a raccontare e valorizzare la sua malattia, senza mai nominarla: 'Forse il Socio ha voluto “sfruttare” la mia povertà, per farne un dono”.

 

 

LA POESIA

Svegliati giorno!

Fà presto!

Porta via con te

questa lunga notte.

Stanchi occhi su nude pareti,

dolore abbandonato tra coperte sfatte;

prigione bianca di un corpo esausto…

ma basta un raggio di Luce

e riprendo la mia libertà.

Chiara M.

 

 

E LE LACRIME DIVENTANO PERLE

“Se gli amici non avessero insistito, mai avrei pensato di scrivere un libro”. Chiara M. invece ha visto il suo “Crudele dolcissimo amore” (Edizioni San Paolo, 2005) salire in testa alle classifiche, guadagnarsi vari premi, essere tradotto ormai in quattro lingue, apprezzato dai ragazzi di dieci anni e dai nonni di novanta: c’è chi lo porta all’esame di terza media, chi lo cita nella tesi, chi lo adotta per gli esercizi spirituali. Alle (rare) presentazioni a cui partecipa, Chiara non può scrivere la dedica autografa con le sue fragili dita. Allora s’è inventata con un’amica un timbro che riproduce la sua firma vicino ad una conchiglia e una perla, 'perché – spiega - una lacrima, giorno dopo giorno, può trasformare il dolore in una perla'. Al tema del dolore è dedicato l’altro titolo con ossimoro: “Oscura luminosissima notte” (Edizioni San Paolo, 2008) il secondo libro è accompagnato da un film in dvd, un colloquio girato sulle cime trentine dalla regista Cinzia Th. Torrini; dopo aver conosciuto Chiara in una clinica, le è diventata amica: 'Il suo è un amore immenso che ogni giorno viene riconfermato – scrive - si ha la sensazione che proprio la conoscenza profonda del dolore dia a Chiara la capacità di emanare questa luce interiore'.

 

Diego Andreatta

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