Tra il 10 e il 14 settembre 2003 si è tenuta a Cancun (Messico) la conferenza interministeriale dei 146 membri (148 con l'ingresso da quella data di Cambogia e Nepal) dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO nel mondo, OMC in Italia). L'incontro si inseriva nell'insieme di riunioni facenti parte del cosiddetto Doha Round...
del 11 aprile 2003
 
A differenza che per le altre discipline, per la cui minima e sufficiente comprensione basta fare una breve introduzione al tema e affrontare poi direttamente l’argomento topico, un articolo che tratti di temi economici necessita di un certo background che non è possibile fornire con un lessico a margine e tanto meno con una introduzione. Il problema è addirittura amplificato per gli articoli riguardanti l’economia internazionale, poiché sono innumerevoli i contatti con materie come la politica e la sociologia; contatti che non sono sempre esplicabili senza tendere a far diventare quell’articolo un saggio (peraltro tutto fumo e niente arrosto) o, peggio, una noiosissima e incomprensibile lezione.
 
Così, quando mi hanno chiesto di scrivere questo articolo sul fallimento della conferenza intergovernativa di Cancun  in Messico, la memoria è subito ritornata alla fatica che feci per rendere il più semplice possibile l’articolo che scrissi sulla crisi argentina, e alla corrispondente coscienza di essere stato semplice e chiaro solo in una parte dei passaggi a cui feci riferimento. Spero che la lezione mi sia servita per aggiustare il tiro.
 
Tra il 10 e il 14 settembre 2003 si è tenuta a Cancun (Messico) la conferenza interministeriale dei 146 membri (148 con l’ingresso da quella data di Cambogia e Nepal) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO nel mondo, OMC in Italia). L’incontro si inseriva nell’insieme di riunioni facenti parte del cosiddetto Doha Round (i round sono incontri periodici che affrontano temi di diversa natura all’interno del WTO e che possono durare anche degli anni. Doha è il nome del luogo in cui iniziò il round che dovrebbe concludersi nel 2005; i suoi temi sorsero sulla spinta di ciò che era successo l’11 settembre negli Stati Uniti). Come a Doha sono stati creati alcuni gruppi negoziali: Agricoltura, presieduto dal ministro del commercio e industria di Singapore. Accesso al mercato per i prodotti industriali (NAMA), guidato dal Segretario alle Finanze di Hong Kong. Sviluppo, presieduto dal ministro del commercio e industria del Kenya. New Issues (investimenti, etc.), presieduto dal ministro canadese Pierre Pettigrew.
 
L’incontro di Cancun si apriva non solo alla luce degli antichi conflitti nord-sud del mondo ma anche con i nuovi e forse più laceranti conflitti sud-sud. L’esito del meeting messicano dipendeva interamente da ciò che fosse stato deciso sull’agricoltura, nonostante fossero stati inseriti nell’ordine del giorno anche altri temi non strettamete attinenti al WTO (i cosiddetti temi di Singapore). L’esito sarebbe stato fondamentale: si sarebbe deciso se proseguire finalmente con il processo di liberalizzazione dell’economia mondiale o se rinchiudersi nell’emergente neo-protezionismo (i finanziamenti ai produttori interni perché possano vendere a prezzi più vantaggiosi) delle grandi potenze mondiali (USA e Europa). Dico finalmente perché l’eliminazione dei sussidi di Stati Uniti e Unione Europea ai propri agricoltori avrebbe implicato per i produttori dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) la possibilità di competere sui mercati internazionali con i propri prodotti.
 
In base ad un rapporto della banca mondiale una riduzione delle tariffe del 10% nei paesi ricchi e del 15% dei paesi poveri accrescerebbe il reddito dei primi di 170 miliardi di dollari l’anno e quello dei secondi di oltre il doppio, di 350 miliardi, entro il 2015. Il commercio mondiale si espanderebbe del 10% annuo e quello dei PVS del 20%. In poco più di 10 anni sarebbero 140 i milioni di persone che uscirebbero dallo stato di povertà.
 
Nonostante gli sforzi (più o meno evidenti) il vertice di Cancun si è concluso con un nulla di fatto e i motivi del fallimento sono sostanzialmente due. In primo luogo la contrapposizione del G21 (la neonata e potente unione delle economie degli ex-paesi in via di sviluppo guidata dal Brasile) al blocco “occidentale”; in particolare per quanto riguarda il taglio drastico alla dimensione dei sussidi alla produzione proposto dal primo al secondo. In secondo luogo l’inserimento dei temi di Singapore nella scaletta delle discussioni: investimenti, concorrenza, trasparenza degli appalti e facilitazioni al commercio. Questo ha provocato la violenta reazione dei “quattro del cotone” (Benin, Mali, Ciad, Burkina Faso), di Kenya, Senegal, Uganda e di altri PVS, fortemente contrari all’affrontare tali argomenti. In molti di questi stati infatti manca ancora una legislazione in materia ed essi non sono disposti a lasciarsela “dettare” dal fronte industrializzato. Sono stati quindi gli africani ad alzarsi dal tavolo delle trattative e a non votare il documento finale proposto da USA e UE. Il numero elevato di negoziatori e la necessità di avere l’unanimità hanno impedito il raggiungimento di alcun obiettivo concreto.
 
 
CHE COSA IMPARIAMO DA TUTTO QUESTO?
 
1.                 il WTO deve essere difeso, nonostante gli errori compiuti durante il meeting di Cancun e nonostante l’ingerenza sui temi internazionali vada riportata ai soli aspetti commerciali e non anche al GATS (l’accordo generale sulla liberalizzazione dei servizi) e ai TRIPS (gli accordi riguardanti il trattamento internazionale della proprietà intellettuale; in poche parole: i brevetti). Non riferirsi al WTO significherebbe ritornare ad un ordinamento internazionale basato solo su accordi bilaterali tra paesi, che implicherebbe l’allargarsi a dismisura del divario tra ricchi e poveri nel mondo.
 
2.                 Il suicidio in diretta del contadino sudcoreano, di cui tutti ricordiamo le immagini, deve far pensare a quali sono le reali condizioni economiche dei produttori agricoli nei paesi poveri, ostacolati nella vendita dei loro prodotti dai sussidi che i paesi occidentali forniscono ai loro agricoltori. Questo non sancisce certo il fallimento del processo di globalizzazione, ma ci impone di riprogettarlo in modo sostenibile e realmente “globale”, perché ne usufruiscano tutti i potenziali partecipanti (e quindi tutti gli stati del mondo).
 
3.                 USA e UE si fanno paladine del processo di globalizzazione ma sono esse stesse a negarla, non transigendo di fronte ai paesi che propongono loro il cambiamento delle politiche agricole (in Europa per la recente riforma della Politica Agricola Comune in modo da favorire l’ingresso di nuovi membri; negli Stati Uniti per non inimicarsi le lobbies agroalimentari alle porte delle elezioni 2004) in modo da favorire la concorrenza e allargare così il mercato internazionale delle merci agricole.
 
4.                 Alla vigilia di Cancun si è concluso un accordo riguardante Trips e salute pubblica sull’esclusione dei farmaci dalle tutele brevettali (come era stato esplicitato nella Dichiarazione di Doha), per rendere l’accesso ai farmaci più semplice per i PVS. Anche la Cambogia aveva siglato questo accordo. Ma per entrare a far parte del WTO la Cambogia è stata costretta a modificare la propria legislazione, sotto presunte pressioni statunitensi, introducendo norme addirittura più restrittive di quelle contenute nei Trips.
 
5.                 Riguardo ai nostri ministri Urso e Alemanno, la sensazione è di totale inadeguatezza rispetto alla complessità dei negoziati. Credevano veramente che le indicazioni geografiche (per il pecorino, il prosciutto, il gorgonzola?) avessero qualche speranza su un palcoscenico su cui la maggior parte del pianeta intendeva lottare con i denti per ritagliarsi spazi di mercato per dare sopravvivenza ai propri agricoltori ?
 
6.                 E’ necessario che le ONG propongano una nuova globalizzazione, non la sua abolizione. Ad esempio: è paradossale eliminare del tutto i sussidi europei e americani all’agricoltura. Ciò danneggerebbe irrimediabilmente i paesi più poveri, che sono importatori netti di prodotti agricoli, perché i prezzi occidentali sono a prezzo “controllato”.
 
Insomma, l’OMC va rapidamente riformata, a partire dal sistema di democrazia rappresentativa che utilizza. Essa va riformata anche perché al suo interno, come in altre organizzazioni occidentali, è troppo forte il peso dei paesi occidentali: la nascita del G21 (che raccoglie il 50% della popolazione mondiale)per contrastare questo potere ne è un effetto. Ma i PVS e il G21 non devono godere del fallimento, anzi. La strada da percorrere è evidentemente quella della liberalizzazione degli scambi, solo che quest'ultima dovrebbe essere reindirizzata su binari piu' equi per i paesi che ne godono: gli stessi paesi poveri sono coloro che ne trarrebbero maggior beneficio.
 
 
 
Filippo Sossi
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