Di questo Don Tonino Bello ci parla ancora oggi, non solo perché è possibile diffondere oggi - dopo il suo passaggio dalla morte alla vita - il testo delle meditazioni da lui offerte in occasione di un pellegrinaggio di presbiteri anziani o malati a Lourdes, ma anche e soprattutto perché le verità di fede annunciate da Don Tonino e la sua testimonianza di fedele discepolo del Signore rimangono vive perché ancorate, radicate nel Signore della vita.
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Prefazione.
DON TONINO BELLO MITE DISCEPOLO DEL MAESTRO MITE.
di Enzo Bianchi.
Beati imiti, perché erediteranno la terra»: è questa la beatitudine che risuona al mio cuore ogni volta che “incontro» Don Tonino Bello. Forse ad altri viene più spontaneo pensare all'altra promessa di Gesù: «Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio», ma per me il passaggio di Don Tonino in mezzo a noi resta contrassegnato innanzitutto dalla «mitezza», da quell'essere discepolo del Maestro «mite e umile di cuore» che invita tutti a prendere su di sé il suo giogo dolce e il suo carico leggero. Una mitezza mai triste, una docilità mai remissiva, un'umiltà di cuore resa manifesta da un'umiltà nel servizio, un'audacia evangelica propria di chi non ha nulla da difendere. Sì, alla sequela di Gesù e assieme a lui siamo chiamati a portare un carico, una croce che è nel contempo segno di speranza e di gioia: cirenei della croce, cirenei della gioia.
Siamo portatori di qualcosa che è più grande di noi, che «porta» noi nel momento stesso in cui è portato: come la croce è «nostra» solo in virtù del profondo legame con la croce di Cristo, così la gioia è «nostra», ed è autentica, piena solo se vissuta in comunione con la gioia del Risorto, solo se trasmessa, condivisa, annunciata agli uomini tutti, al mondo che l'attende forse senza nemmeno saperlo.
Di questo Don Tonino Bello ci parla ancora oggi, non solo perché è possibile diffondere oggi - dopo il suo passaggio dalla morte alla vita - il testo delle meditazioni da lui offerte in occasione di un pellegrinaggio di presbiteri anziani o malati a Lourdes, ma anche e soprattutto perché le verità di fede annunciate da Don Tonino e la sua testimonianza di fedele discepolo del Signore rimangono vive perché ancorate, radicate nel Signore della vita.
Rimane viva la sua semplicità, la sua concretezza, la sua fedeltà alla terra nella ricerca delle cose dell'alto. Rimane viva la sua passione per il mondo, «passione» talmente intensa da prendere carne nella sua sofferenza fisica, passione che anche da queste pagine emerge con chiarezza cristallina e con radicalità evangelica: “Il mondo non è il rivale della Chiesa. Il mondo deve essere il termine della passione della Chiesa, così come è il termine della passione di Dio, così come è il termine del progetto salvifico di Dio».
Era solo la stanchezza che gli faceva ripetere in quei giorni, in mezzo ai malati, «Sono malato anch'io»? O era un presagio di quella prova che avrebbe affrontato poco dopo? Forse era qualcosa di più profondo ancora: era il suo desiderio di farsi «tutto a tutti», povero con i poveri, emarginato con gli emarginati, lacerato dalla violenza e dalla guerra con le vittime della violenza e della guerra; un desiderio talmente autentico e profondo da essere esaudito dal Signore. La malattia allora come segno di una preghiera esaudita, come sigillo a una solidarietà vissuta non solo a parole, come testimonianza di amore fino alla fine.
Mite discepolo del Maestro mite, Don Tonino è stato, anzi è ancora, con più forza che mai, parabola vivente del Pastore dei pastori che depone le vesti per servire i fratelli, che depone la vita per le sue pecore. Sì, a Lourdes, in mezzo a malati e sofferenti, don Tonino ha rivolto loro parole di consolazione e di gioia, ma queste pagine ci dicono anche che li ha iniziato ad ascoltare nel proprio intimo una voce amica che come acqua viva gli sussurrava: «Vieni al Padre!».
Enzo Bianchi.
Bose, 3 giugno 1995.
1. CIRENEI DELLA GIOIA DEL MONDO.
Confratelli sacerdoti, dopo aver visto in questo suggestivo vespro di luglio tanto tripudio nella gente che ci ha atteso nelle stazioni di Grosseto, di Livorno, di Pisa, di Chiavari, di Sestri, di La Spezia, dopo aver contemplato la distesa del mare nella festa del tramonto, dopo aver invidiato la serenità gioiosa di tanti bagnanti sulle spiagge della riviera ligure, dopo aver ammirato la dolcezza di questi ridenti paesaggi quando scende la sera, mi è venuta l'idea di intitolare questo mio primo intervento così: Cirenei della gioia.
Noi conosciamo bene il Cireneo della croce. Una lunga dottrina ascetica ci ha abituati a pensarci soccorritori delle sofferenze del mondo, a sentirci gente che aiuta il mondo a portare la croce. Perché non ci pensiamo invece come gente che aiuta il mondo a portare la gioia? Non vi sembra bello dare inizio con questa idea al nostro pellegrinaggio?
Se è lecito abusare delle immagini, a me pare che, da quando siamo partiti, è come se avessimo steso una rete a strascico, come dicono i pescatori del mio paese; stiamo trascinando verso Lourdes come una rete che ingloba dentro di sé tantissima letizia, tanto tripudio, tanto gaudio.
«Siamo i collaboratori della vostra gioia».
È vero: questo è un treno di sacerdoti anziani, ammalati, di gente che soffre, però noi stiamo portando adesso verso la grotta di Lourdes, verso la Vergine santissima, tutto un tripudio, un gaudio, tutto l'esubero di gioia pasquale che abbiamo potuto cogliere lungo il cammino. È giusto quindi avere come primo pensiero il nostro essere cirenei della gioia.
D'altra parte oggi, nella liturgia di Santa Maria Maddalena, ci sono stati offerti per lo meno due spunti su questo tema. Il primo ci viene dato dal pianto della Maddalena; nel Vangelo se ne parla ben quattro volte: «Maria stava all'esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva... vide due angeli... (che) le dissero: Donna, perché piangi? E vide Gesù (che) le disse: Donna, perché piangi?». Prima gli angeli, poi Gesù stesso, le dicono: «Donna, perché piangi?». La rimproverano garbatamente, come per dirle: «Non han più motivo le tue lacrime, non è più tempo di piangere. Tu devi essere l'annunciatrice gioiosa della risurrezione». Così abbiamo detto nell'orazione della Messa: «Fa' che, per il suo esempio e la sua intercessione, proclamiamo al mondo il Signore risorto».
Il secondo spunto ci è offerto da una espressione della seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto nell'Ufficio delle letture (lunedì della 16a settimana). San Paolo dice: «Siamo i collaboratori della vostra gioia».
La gioia infatti deve permeare il nostro cammino. Anche il nostro viaggio verso Lourdes deve essere caratterizzato dall'empito della gioia pasquale. Noi sappiamo di essere amati da Gesù Cristo, che è la nostra pace, che è la nostra luce, che è la nostra gioia. Oggi dovremmo ripetere tutti insieme l'esclamazione del Salmo: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa di Maria, andremo alla sua casa».
A me sembra indispensabile tutto questo: noi non siamo solo i portatori della sofferenza del mondo, non siamo i cirenei che aiutano il mondo a portare soltanto la croce.
Le speranze del mondo sono le nostre speranze.
Non possiamo dimenticare che uno dei documenti più importanti e più belli del concilio Vaticano II comincia proprio con questa espressione carica di luce: Gaudium et Spes. Tra tutti i documenti della Chiesa, da quando si è incominciato a designarli con le parole latine, nessun altro - credo - ha una ouverture così perfetta: Gaudium et Spes. Si direbbe che vi abbiano posto mano i poeti più che i teologi, e che la prima stesura sia stata scritta non sulle carte severe degli esperti di scienze divine ma sulle righe agili di un pentagramma musicale. Sembra infatti l'attacco a piena orchestra d'una sinfonia le cui note scuotono l'aria, ora con irrefrenabili vibrazioni di festa, ora col ritmo simmetrico della fuga, ora con le cadenze della elegia.
Ricordate certo quelle parole benedette: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Con questo preludio solenne - è come una diga squarciata dai pensieri di Dio - la Chiesa sembra dire al mondo: «D'ora in poi le tue gioie, o mondo, saranno le mie gioie, spartirò con te il pane amaro delle tue tristezze, mi lascerò coinvolgere dalle tue stesse speranze, e le tue angosce stringeranno pure a me la gola con identico groppo di paura».
Non siamo soltanto portatori dei dolori del mondo verso la grotta di Lourdes, siamo anche portatori delle gioie del mondo, e siamo chiamati a spartirle. È questa l'aggiunta in più che vorrei dare al pensiero di stasera. Dovremo rendere grazie alla Chiesa per tante cose, soprattutto per quella notizia inaspettata, stupenda, che ci dà col fremito dei lieti annunci, quando afferma, nella Gaudium et Spes, che le gioie degli uomini sono anche le gioie del cristiano, e che tra le une e le altre - caduto il sospetto della contrapposizione - corre il filo doppio della simpatia.
Non esperti solo nell'arte della compassione.
Sembra incredibile. Eravamo abituati a condividere solo i dolori del mondo. Una lunga dottrina ascetica ci aveva allenati a farci carico esclusivamente delle sofferenze dell'umanità. Eravamo esperti nell'arte della compassione. Nelle nostre dinamiche spirituali aveva esercitato sempre un fascino irresistibile il Cireneo della croce, ma i maestri di vita interiore non ci avevano fatto mai balenare l'idea che ci fossero anche i cirenei della gioia.
Ecco ora lo sconvolgente messaggio: le gioie genuinamente umane, che fanno battere il cuore dell'uomo, per quanto limitate e forse banali, non sono snobbate da Dio, né fanno parte di un repertorio scadente che abbia poco da spartire con la gioia pasquale del Regno.
La felicità per la nascita di un amore, per un incontro che ti cambia la vita, per una serata da trascorrere con gli amici, per una notizia sospirata da tempo, per l'arrivo di una creatura che riempie la casa di luce, per il ritorno del padre lontano, per una promozione che non ti aspettavi, per la conclusione a lieto fine d'una vicenda che ti ha fatto penare, questa felicità così corposamente umana fa corpo con quella che sperimenteremo nel Regno; questa felicità passeggera è contigua col brivido dell'eternità che proveremo in cielo. L'estasi che ti coglie davanti alle montagne innevate, alle trasparenze di un lago, o - come stasera - davanti alle spume del mare, al mistero delle foreste, ai colori dei prati, ai turgori del grano, ai profumi dei fiori, alle luci del firmamento, ai silenzi notturni, all'incanto dei meriggi, al respiro delle cose, alle modulazioni delle canzoni, al fascino dell'arte, questa estasi è parente stretta con le sovrumane gioie dello spirito; allo stesso modo l'umanissima gioia che ti rapisce di fronte al sorriso di un bambino, al lampeggiamento degli occhi, agli stupori di un'anima pulita, alla letizia di un abbraccio sincero, al piacere di un applauso meritato, all'intuizione di cose grandi nascoste dietro i veli dell'effimero, alla fragilità tenerissima di cui si riveste la bellezza, al si che finalmente ti dice la persona dei tuoi sogni. Non vi è nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore e nell'anima.
Ma che cos'è questa rivelazione improvvisa che annuncia coincidenze arcane tra le gioie degli uomini e le gioie dei discepoli di Gesù? Colpo di scena o colpo di genio? Forse è solo colpo di grazia.
Facciamo suonare le campane della speranza.
Come cirenei della gioia, quindi, ci avviamo verso il santuario della Madonna di Lourdes. Siamo contenti questa sera di portare anche il sospiro della letizia pasquale di tutte le cose, di tutte le creature, del mondo che ci siamo lasciati dietro. Noi dovremmo essere, per abitudine, gli annunciatori della gioia pasquale come Maria di Magdala.
Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l'ultimo giorno andai in una scuola materna. C'erano tantissimi bambini di 3-4 anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico. La maestra chiese: «Bambini, sapete chi è il vescovo?». Tutti diedero delle risposte. Uno disse: «È quello che porta il cappello lungo in testa»; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: «Il vescovo è quello che fa suonare le campane». Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane. Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profondamente umana. Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così. Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane», le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.
Don Tonino Bello.
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