Scelgo come travatura di questa riflessione, un'espressione che si trova nel prefazio della Messa crismale del giovedì santo: «Egli (Gesù) con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che, mediante l'imposizione delle mani, fa partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi (o Padre) che nel suo nome,... servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti».
del 01 gennaio 2002
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Scelgo come travatura di questa riflessione, un'espressione che si trova nel prefazio della Messa crismale del giovedì santo: «Egli (Gesù) con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che, mediante l'imposizione delle mani, fa partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi (o Padre) che nel suo nome,... servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti».
Siamo, dobbiamo essere, servi premurosi del popolo di Dio. Siamo condotti ora a considerare la nostra conformazione a Gesù Cristo servo, dopo aver visto la nostra conformazione a Gesù Cristo capo.
Desidero sottolineare tre concetti: il nostro essere servi, essere servi premurosi, essere servi premurosi del popolo: perché il popolo che ci sta accanto non abbia a patire il freddo.
Essere servi.
Gesù «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». Siamo servi del gregge, non padroni, non despoti, non tiranni. È probabile che ci sia un'accentuazione pessimistica in queste espressioni: però, qualche volta, i segni di questo dispotismo noi li esprimiamo nei confronti del gregge.
Il complesso del «reverendo».
Lo so, carissimi fratelli presbiteri, è difficile per noi vincere la sindrome del condottiero, la deformazione professionaie del dignitario, la sicurezza sprezzante del notabile; forse siamo troppo reverendi nelle nostre chiese, troppo ragguardevoli nell'ambito delle nostre città, troppo dotti nei circuiti dei nostri impegni umani, per sentircela di condividere uno dei tanti sinonimi che ogni buon vocabolario porta sotto il termine «servi». Prendete un Palazzi, uno Zingarelli qualsiasi, ed ecco cosa c'è sotto il termine «servi», ecco quali sinonimi, quale nomenclatura viene snocciolata: domestico, dipendente, cameriere, schiavo, sguattero, facchino, lavapiatti, uomo di fatica.
Siamo troppo reverendi, troppo dotti, troppo ragguardevoli, troppo notabili, per sentircela di condividere fino in fondo uno di questi sinonimi. Siamo troppo assuefatti al ruolo di progettisti per sopportare di essere relegati al compito di esecutori. Siamo troppo abituati al ruolo di maestri.
Gesù è il Maestro, ma è anche il Servo.
Essere maestri (magister, magis-stare) è stare un gradino più su: in questo momento io parlo stando un gradino più su di voi. Essere servi però significa vivere in dimensione opposta: ministro (minus-stare), stare un gradino più sotto.
Nonostante lo scialo di vocabolario che facciamo - ministri sacri, ministri ordinati, ministeri - si fa molta fatica ad essere ministri: minus-stare è fare come Gesù, che si inginocchia davanti agli alluci male odoranti dei discepoli.
Come si fa ad essere servi? Ci sentiamo troppo impiegati di concetto per vederci confinati alla mansione di scrivani o di uscieri. Ci consideriamo troppo capaci di genialità creativa per accettare un gioco di squadra elaborato su altri tavoli che non siano quelli della nostra ingegneria pastorale. Quante volte, anche all'interno del nostro presbiterio, si configurano planimetrie pastorali cosiddette comunitarie, però poi ognuno il suo progetto se lo fa per conto suo. Siamo troppo bravi come impiegati di concetto, come architetti, per subire l'affronto di accettare un disegno fatto da altri.
La carriera o la diaconia.
Abbiamo troppo vivo il senso della nostra partecipazione alla dignità di Cristo capo, per sentirci fino in fondo «incaricati della diaconia di Gesù Cristo», come diceva sant'Ignazio di Antiochia parlando dei vescovi; incaricati del servizio, secondo lo stile evangelico che abbiamo già considerato. Come presbiterio, tutt'uno col vescovo, siamo incaricati della diaconia di Cristo, che afferma: «Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo; e colui che vorrà essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo».
Chi vuol essere il primo sarà il servo di tutti: sono parole che diciamo da tanto tempo e che, negli anni di seminario, abbiamo sentito dire tantissime volte, all'interno delle conferenze spirituali, dei ritiri, degli esercizi. Chiediamo incessantemente al Signore la grazia della schiavitù, che nessuno di noi si senta proprietario del popolo che è di Dio, nessuno si senta il gestore delle sue sorti spirituali.
«Gestisco io, mi faccio carico io, mi prendo io la responsabilità, decido io per te». Queste non sono forme di servizio ma di potere. Stiamo attenti: c'è anche una forma di potere molto raffinato, molto aristocratico, che si infiltra nelle nostre scelte.
Nessuno di noi si senta manipolatore della coscienza degli altri, agente segreto delle scelte libere della nostra gente, condizionatore delle sue opzioni. Si senta semplicemente servo, servo senza le attenuanti della nomenclatura in uso presso la nostra raffinatissima civiltà. Servo, non «collaboratore domestico», come si vuole oggi. Servo a tempo pieno, non a mezzo servizio. Servo insonne dalla mattina alla sera e non con semplici prestazioni part-time. Servo amante degli ultimi posti e non innamorato delle luci della ribalta.
Qualche volta si sprigionano anche nel nostro cuore sentimenti di amarezza, piccole invidie per un posto non raggiunto, per un titolo che non ci è stato accordato, per una carriera che ci pare stroncata. Come se noi dovessimo fare discorsi di carriera.
La nostra vera carriera è un'altra cosa: è la sequela di Gesù Cristo, felicissimi di essere rimasti servi, preti del Signore nella nostra piccola parrocchia, che magari non conosce nessuno. Quando ci chiedono: «Dove sei, parroco? Quanti abitanti ha la tua parrocchia? Così pochi?», siano 350 o siano 40.000 le anime che ci sono affidate, noi siamo servi. Sei in una parrocchia di montagna? Felice te che puoi servire il Signore.
Diceva Luther King: «Se c'è una persona soltanto alla quale tu puoi dire buon giorno, hai già un motivo valido per sopravvivere». Altro che il buon giorno, io do la salute del Signore, la grazia del Signore a tante persone, e sono felicissimo di stare li dove il Signore mi ha messo, di essere arrivato lì, e di non aver fatto quello scatto di carriera.
Siamo servi, ansiosi di collegarsi con gli altri servi, non per fare un sindacato di categoria o per promuovere rivendicazioni salariali, ma per servire con efficacia e umiltà. Se il servo invece rifiuta le planimetrie pastorali concordate con gli altri o si sottrae a precisi ordini di servizio, anche se fatica per cento, è peggio di un dittatore.
Gli arnesi del servizio.
Chiediamo al Signore la grazia di mantenere sempre nitidi gli arnesi del nostro servizio, che vengono indicati nel bellissimo prefazio della Messa crismale: “servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola, lo santifichino con i sacramenti... e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso».
La Parola, i sacramenti, la testimonianza: ecco gli strumenti del nostro servizio. Sono la nostra vanga, sono la nostra zappa, sono gli arnesi che il Signore mette nelle nostre mani perché possiamo dissodare il terreno e perché davvero il popolo di Dio che sta accanto a noi non abbia a patire il freddo.
Il servizio della Parola.
La Parola risuoni limpida sulle nostre labbra, soprattutto risuoni vera, senza finzioni, non inquinata da sofismi umani, da ricercatezze culturali, da interpretazioni di parte, da riduzioni di comodo. Risuoni tagliente, anche quando si ritorce come un boomerang contro di noi, perché non siamo abilitati a dire la Parola di Dio solo se trova verifica o adempimento nella nostra vita. Guai se al nostro popolo dovessimo presentare soltanto la Parola di Dio che viene realizzata nella nostra vita: presenteremmo una Parola molto decurtata. Anche se si ritorce contro di noi, anche quando colpisce per primi noi, la Parola di Dio dobbiamo pronunciarla tutta intera.
La Parola deve risuonare vera sulle nostre labbra, perché la gente possa dire: “Quello crede veramente a quel che dice». La gente si accorge subito se noi facciamo la sceneggiata, quando noi parliamo per riporto, se diciamo cose che non toccano la nostra esistenza.
Chiediamo al Signore di essere noi stessi i primi discepoli della sua Parola. Risuoni soprattutto questa Parola di Dio essenziale, profetica, libera, dopo che è stata lungamente cercata nella preghiera, nello studio e nel sacrificio.
Vorrei aggiungere una cosa che mi sta molto a cuore: ricordiamoci che la Parola di Dio non si colloca sul prolungamento dei ragionamenti umani, della prudenza umana, della logica umana; la Parola di Dio è «altra», è diversa, è uno stacco, non è la pròtesi della nostra prudenza carnale. La Parola di Dio è altra, è diversa, sconvolge, turba e rasserena.
Noi a volte cerchiamo delle cerniere, cerchiamo di attutire la forza d'urto della Parola di Dio, per incastrarla un po' alle giunture della prudenza carnale, della prudenza umana. A volte facciamo dei discorsi che sono assurdi per noi credenti, dei discorsi che potrebbero fare i filosofi del mondo, i profeti del mondo, discorsi che sono veramente il prolungamento della logica umana.
Il Vangelo senza sfumare le finali.
Il diverso, il novum, molte volte non lo esprimiamo perché abbiamo paura, abbiamo paura che ci prendano per matti, abbiamo paura di passare per ridicoli. I dotti, quelli che la sanno lunga, quelli che ci trattano con sufficienza, ci fanno paura. Per cui noi, proprio per essere contigui con la loro mentalità, facciamo delle riduzioni in scala, «sfumiamo le finali», come ci insegnavano in seminario per il canto gregoriano.
Noi sfumiamo le finali ai paradossi del Vangelo. Anche dove la Parola del Signore è radicalmente nuova, qualche volta diciamo che questo appartiene al linguaggio paradossale di Gesù.
Attenzione. La Parola di Dio, dopo che l'abbiamo ricercata nella preghiera perché non sia la parola nostra, dopo che l'abbiamo ricercata nello studio approfondito, responsabile, cosciente, dopo che l'abbiamo ricercata nel sacrificio, dobbiamo avere il coraggio di presentarla tutta intera e di dire i paradossi del Vangelo così come suonano, senza sfumature di comodo. “Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra. Io vi dico: Amate i vostri nemici. Fate del bene a quelli che vi odiano. Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?”.
È scritto: «Amate i vostri nemici». Come si può discutere della pace o della guerra, della lotta e della difesa violenta o non violenta? Che mortificazione, carissimi fratelli, vedere che noi «profeti e figli di profeti» attenuiamo la forza prorompente del Vangelo, facciamo degli accomodamenti, delle edulcorazioni di comodo sulla Parola di Dio.
La Parola di Dio dobbiamo sentirla vibrare prima sulla nostra carne, dobbiamo metterci sotto accusa noi per primi, dobbiamo lasciarci soggiogare e afferrare noi per primi dalla Parola del Signore: allora potrà prorompere profetica all'interno delle nostre assemblee.
Poco importa che altre persone ci facciano naufragare nel sorriso della sufficienza. Attenzione: anche al di fuori della Chiesa, in altri giardini fuori dell'orto cristiano, ci sono dei profeti che vanno riscoprendo le straordinarie ricchezze della nostra miniera cristiana, che parlano di non violenza, di non violenza attiva, che parlano di perdono, che parlano di solidarietà. E noi, che siamo i titolari di questa miniera, facciamo delle manipolazioni per sintonizzare la Parola di Dio con la logica del mondo?
Il servizio sacramentale.
Oltre la Parola ci sono i sacramenti, con i quali alimentiamo le speranze del mondo, perché nessuno vicino a noi abbia a patire il freddo. I sacramenti sono gli strumenti del nostro ministero, per essere servi premurosi del popolo del Signore, strumenti preziosi che dobbiamo mantenere nitidi, come la vanga del contadino o la pialla del falegname.
I sacramenti siano celebrati come momenti di amore, come gesti culminanti di un traboccamento di fede, non con l'anima del funzionario che agisce su commissione - qualche volta diamo questa impressione - col medesimo assorto stupore con cui Mosè operava e contemplava le meraviglie di Dio, magnolia Dei, durante le peregrinazioni nel deserto.
Ho detto: i sacramenti siano segno di un traboccamento di amore. Mi vengono in mente certe nostre abitudini, come binare, persino trinare quotidianamente e quatrinare la domenica. A meno che non si sia proprio presi per la gola, in casi disperati, queste abitudini sono veramente il culmine di un traboccamento d'amore? Se è il momento culminante della nostra vita presbiterale, non può diventare un gesto banale, gelido, meccanico, ripetitivo, senza slanci. Come si fa a banalizzare nella ripetizione assurda, giornaliera, i nostri sacramenti quasi concessi su commissione? Dobbiamo rivedere davvero anche le nostre posizioni.
Il servizio della testimonianza.
Infine deve cadenzare i ritmi del nostro servizio la testimonianza della vita, una vita povera. Questa non è la solita predica che fanno i vescovi: è la predica che detta l'ascetica cristiana. Lo sperimentiamo tutti che la gente non crede a tante cose nostre, ma alla povertà sì. Starei per dire: il mondo, i lontani, non credono tanto neanche al nostro celibato, perche pensano che, in fondo, ognuno di noi abbia una sua vita sottobanco. Non ci credono perché sembra impossibile per la loro mentalità: un mondo così assurdamente infognato, con tanti problemi di sesso, immerso in questa logica del godimento e del piacere, non crede che ci possano essere delle persone che impegnano tutta la vita in un servizio puro per Dio e per i fratelli.
Tutti però si accorgono se un prete è povero o se è attaccato al denaro, se un prete vive per la parrocchia o fa tutto per i suoi interessi. La gente crede alla vita povera dei sacerdoti, alla vita povera.
L'estate passata sono stato in Africa, nell'Etiopia meridionale, a predicare un corso di esercizi spirituali alle suore missionarie italiane. Mi sono incontrato davvero con la vita povera della gente. Ero stato già in altre parti nel Terzo Mondo, nell'America Latina, nell'Africa Centrale, però quello che ho visto li mi ha impressionato. Un vescovo intrepido, mons. Armido Gasparini, bolognese, comboniano, di 77 anni, per una settimana mi ha accompagnato in tutte le missioni, facendo fino a 700 km in un giorno: dovunque passava faceva il giro dei mercati per portare qualcosa ai suoi missionari. Alla sera, nelle missioni, c'era un po' di pane, delle banane e “il formaggino, perché ci sei tu stasera».
Ho visto la povertà della gente: 110 dollari l'anno il reddito medio pro capite. Non al mese, alla settimana o al giorno, come da noi. Poco più di 100 dollari l'anno: quanto è costato un minuto di permanenza di uno solo dei marines durante la guerra del Golfo. Poi è proibito ribellarsi, perché si è demagoghi, perché questi raffronti non vanno fatti. È chiaro che non vanno fatti: disturbano la digestione, la buona coscienza.
Testimoni poveri, obbedienti e casti, senza ambiguità.
La povertà del mondo impegna la nostra testimonianza. Non dovremmo rivedere certi nostri moduli? Ecco la testimonianza della povertà, la testimonianza dell'essenziale: la gente deve vedere che noi siamo sobri, che non si corre spasmodicamente all'ultimo tipo di macchina, all'ultimo tipo di computer o di hi-fi... Quello che serve sì, ma con attenzione.
La nostra povertà è anche questo: una vita scarna di retorica, amante della semplicità, lontana dalle lusinghe della carriera, desiderosa soltanto dell'unica affermazione del Cristo Signore del quale noi indossiamo la livrea. Noi siamo i poveri, i servi di Gesù, indossiamo la sua livrea.
E una vita obbediente. Si è servi premurosi del popolo di Dio con una vita obbediente. Che non si esprime con allineamenti supini agli ordini del capo di turno: l'obbedienza non è questo! Obbedienza viene dal latino ob-audire, udire stando di fronte. Di solito non si obbedisce in ginocchio, prosternati per terra, si obbedisce stando di fronte, come ha fatto Maria. Obbedire col gaudio di chi si diverte a seguire le orme lasciate dai passi di Gesù, come fanno i bambini quando sgambettano per mettere i piedi sulle orme lasciate dal padre. Questa è l'obbedienza: camminare sulle orme di Gesù, uomo libero che fu obbediente fino alla morte.
Povertà è anche una vita pura che rifugga dalle ambiguità, dai compromessi, dai sotterfugi; una vita che accetta la rinuncia, anche la rinuncia di una donna, non tanto per esercitare l'ascetica, ma per esprimere una profezia. Povertà è vivere questa vita senza macerazioni, senza i ripensamenti malinconici di chi, furtivamente, si riprende in piccole dosi compensatorie ciò che un giorno ha donato in un empito di generosità.
Non facciamo leva sulla rinuncia: noi non ci siamo sposati non per esercitazioni ascetiche, perché facciamo dei sacrifici, così il Signore ci dà dei meriti maggiori e forse arricchisce di efficacia la nostra azione. Non è per questo. Non è tanto per ascetica, quanto per profezia.
“Cantus firmus» per la polifonia del mondo.
In una pagina stupenda, Dietrich Bonhoeffer parla ad un monaco cattolico paragonando i voti di povertà, di obbedienza e di castità, con il cantus firmus all'interno del concerto del mondo. Chi si intende di musica sa bene che in polifonia cantus firmus è la melodia portante, quella che sostiene il resto. Bonhoeffer vuol dire perciò che i consacrati sono abilitati a cantare la melodia portante nel concerto del mondo; gli altri, gli sposati, coloro che vivono altre esperienze di vita, sono chiamati ad intrecciare intorno a questa le melodie di contorno, che abbelliscono e completano la polifonia. Ma se il cantus firmus cala di tono, ruzzolano tutti gli altri.
Cerchiamo di mantenere saldo il nostro cantus firmus perché nessuno cali di tono intorno a noi. I grandi cantanti, quando viaggiano e non possono disporre dell'orchestra, si portano registrata la cosiddetta base musicale per farsi «accompagnare» nei loro esercizi. Se la base musicale stonasse, per un difetto o per un guasto, stonerebbe anche la modulazione del tenore, per quanto bravo. Con la nostra povertà, con la nostra obbedienza, con la nostra castità, vogliamo indicare al mondo il traguardo verso cui puntare.
Non facciamo spericolati esercizi di ascetica, ma vogliamo dire agli sposi che ci guardano: “La vostra esperienza è la più bella e la più grande che si possa vivere. Io però non mi sono sposato per indicare anche a voi che c'è un amore più grande dell'amore coniugale; per essere segno dell'amore più grande - che è Dio - nel quale confluiranno tutti i torrenti dell'amore umano».
Lo stesso vale per la nostra povertà. Vorremmo poter dire agli uomini: «La ricchezza è buona, non è vero che il denaro è lo sterco del diavolo; però c'è una ricchezza ancora più grande che è il Signore, e io che sono povero e faccio voto di povertà voglio indicartela ed essere segno di libertà interiore per tutti».
E per l'obbedienza, dovremmo dire: «Non c'è cosa più grande della libertà personale, ma c'è un valore ancora più grande: uniformare la nostra volontà alla volontà di Dio. Obbedendo al mio vescovo e facendo voto di obbedienza, non faccio un atto di vassallaggio verso una persona, ma voglio indicare che è una cosa straordinariamente bella aderire alla volontà di un altro vedendovi il segno della volontà di Dio».
La passione di servire.
Essere servi premurosi significa avere una forte passione sacerdotale, avere «il brivido della passione». La nostra premura indica l'insonnia per il Regno, la sollecitudine per la causa del Vangelo, la sofferenza perché il Padrone della parabola, sempre in viaggio, tarda a tornare, la preoccupazione per il rallentamento dei ritmi di servizio.
Una volta iniziai la visita pastorale in una cittadina della mia diocesi parlando di queste cose, e dissi: “Dovremmo vibrare per il Regno di Dio, dovremmo avere il brivido della passione, come diceva Gramsci». Mi andò bene per quella sera, ma il giorno dopo arrivarono le prime lettere di protesta: «Una volta i vescovi citavano i Padri della Chiesa. Dove siamo arrivati? Adesso si cita anche Gramsci”. A me sembrava opportuno riportare quelle parole, pur rivolte a compagni di partito che non vibravano abbastanza di passione, in diverso contesto (come andò a finire lo vedremo un'altra volta). Resta vero che alla nostra premura è legato questo “brivido della passione».
Ancora Dietrich Bonhoeffer, in una bellissima poesia, pone in bocca a Mosè morente e non ancora entrato nella terra promessa una preghiera che mi piacerebbe potessimo tutti pronunciare nell'ultimo momento della nostra vita:
(Signore),
tu che punisci i peccati e perdoni volentieri,
Dio, questo popolo io l'ho amato.
Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi
e aver scorto la sua salvezza: questo mi basta.
Reggimi, prendimi; il mio bastone s'incurva,
preparami la tomba, o fedele Iddio!
Il mio bastone s'incurva: una preghiera che è anche un augurio, perché anche noi, come Mosè, alla fine dei nostri giorni possiamo sentire l'intima soddisfazione di aver servito premurosamente il nostro popolo.
Tonino Bello.
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