Uno dei baldi giovanotti che stettero ivi a fianco del padre nell'ora della desolazione e che ha lasciato nella storia dell'Oratorio un nome assai simpatico, si chiamava Giuseppe Brosio, braccio destro di Don Bosco in frequenti occasioni. Dobbiamo alla sua penna ingenua il racconto che segue.
del 14 dicembre 2011
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Tutti quelli che piacquero a Dio, passarono per molte tribolazioni, mantenendosi fedéli} Guardando a distanza, chi non avrebbe creduto che Don Bosco andasse avanti per un cammino sparso di rose? Eppure la sua vita fu tutta quanta seminata di pungenti spine. Spine in famiglia: la povertà e le opposizioni, che prima gli sbarrarono, poi gli resero aspra la strada del sacerdozio, obbligandolo a dure e umilianti fatiche. Spine in fondare l'Oratorio: da ogni parte gli si gridava la croce addosso, da privati, da parroci, da autorità municipali, politiche, scolastiche. Spine e peggio per causa dei protestanti: con le sue Letture Cattoliche ogni mese il dito su qualche piaga, inde irae. a fasci per mancanza di mezzi: aver sulle braccia tanti giovani e tante opere e non aver mezzi sicuri di sussistenza. Spine dal suo stesso personale: sacrifici per formarselo e diserzioni dolorose. Triboli e spine per via dell'autorità diocesana: malintesi, opposizioni, contrarietà senza fine.
Un calvario la fondazione della Società Salesiana, tanto che a cose fatte Don Bosco disse: «L'opera è compiuta. Ma quante brighe! quanti rompicapi! Se avessi ora a cominciare, non so se avrei più il coraggio di accingermi all'impresa». Un martirio prolungato le sofferenze fisiche. Sostenersi fra tante tribolazioni e giungere con serena sicurezza alla meta è possibile soltanto a chi, secondo l'insegnamento di san Paolo, fissa gli occhi sull'autore e consumatore della fede, Gesù, che, propostosi il gaudio, sostenne la croce, non facendo caso dell'ignominia. si vede in sostanza che questi sono trionfi riserbati alle anime interiori.
Accostiamoci un po’ a Don Bosco per osservarlo da presso in qualche momento più critico della sua vita. Sant'Agostino, dopo aver detto che il Salmista, in mezzo a pene causategli da uomini tristi, si rifugia nella preghiera, orat multa patiens, anche noi, quando fossimo similmente in tribolazione, a fare come lui orazione: ut, communicata tribulatione, coniungamus orationem. È la gran lezione che ci danno i Santi, gli unici veri maestri dopo Gesù nell'arte di ben soffrire.
Al Huysmans che in un suo succinto, ma geniale schizzo su Don Bosco aveva necessità di omettere moltissime cose, non parve soverchio destinare un pagina per la domenica delle Palme del 46. Una giornata realmente di passione per Don Bosco! Cacciato e ricacciato da ogni angolo della città, ma seguito fedelmente da gregge sempre più numeroso, erasi ridotto a fare in un prato perfino ciò che normalmente si compie nelle chiese.
Ma anche là era sonata l'ora dello sfratto. Nessuna dilazione concessa; non un barlume di speranza; tutte le ricerche vane. Le diffidenze sollevategli contro gli facevano chiudere la porta in faccia, dovunque si presentasse. Il cuore si spezzava. Confessati i suoi birichini là nel margine del prato, li condusse in pellegrinaggio al santuario della Madonna di Campagna, distante un paio di chilometri. Che | fervore di canti, di preci, di comunioni! La celebrazione della messa lo corroborò; ma gli si acuiva il | rammarico al vedere la schietta pietà di quei figliuoli, vicini a sbandarsi dopo tanti sacrifici suoi per adunarli e tenerseli uniti. Nel discorsetto li paragonò a uccelli, cui veniva gettato a terra il nido; , pregassero molto la Madonna, che ne avrebbe preparato loro un altro migliore e più sicuro.
Durante il pomeriggio la ricreazione ferveva nel prato; ma Don Bosco aveva il pianto nell'anima. Al cadere del giorno, nulla di nulla; un tentativo estremo per trarsi d'imbarazzo, fallito. Allora la natura volle imperiosamente i suoi diritti; Don Bosco sentì un gran bisogno di piangere. Oppresso dall'afflizione, fu visto appartarsi, raccogliersi tutto in sé e dir alto, lagrimando, la sua preghiera. I più grandicelli che, conoscendone le abitudini, non si davano pace al vederlo così mesto e l'avevano seguito, udirono quella preghiera del dolore e della speranza: - Dio mio, Dio mio, sia fatta la vostra volontà; ma non permettete che a questi poveri figliuoli manchi un rifugio. Il pregare non fu vano; apparve quasi immediato l'effetto. La domenica dopo si potè festeggiare con allegrezza la Pasqua.
Uno dei baldi giovanotti che stettero ivi a fianco del padre nell'ora della desolazione e che ha lasciato nella storia dell'Oratorio un nome assai simpatico, si chiamava Giuseppe Brosio, braccio destro di Don Bosco in frequenti occasioni. Dobbiamo alla sua penna ingenua il racconto che segue.
Una domenica, finite le funzioni, Don Bosco non si vedeva nel cortile fra i ragazzi. L'insolita assenza non poteva passare inosservata. L'affezionatissimo Brosio andò in cerca di lui, finché non lo rinvenne in una camera, molto triste e quasi piangente. Alle sue incalzanti domande Don Bosco, che gli voleva tanto bene, rispose che un tal oratoriano l'aveva oltraggiato in modo da recargli grave dispiacere. Per me, soggiunge, poco importa; mi duole soltanto che l'ingrato corre alla perdizione. Brosio, ferito nel cuore, più non si tenne, ma, con la furia del popolano che va in bestia, si avventava fuori per correre e dare all'insolente una lezione sonora. Don Bosco, mutato aspetto, fece in tempo a fermarlo, dicendo pacatamente: - Tu vuoi punire l'offensore di Don Bosco; hai ragione faremo insieme la vendetta: sei contento? - Sì, rispose con energia il garzone, cieco di collera. Don Bosco soave soave lo piglia per mano, lo conduce in chiesa, lo fa pregare accanto a sé, e rimane a lungo in orazione. Dovette aver pregato anche per il vicino, che in un attimo passò dall'ira all'amore. Usciti che furono, Don Bosco paternamente gli disse: - Vedi, mio caro, la vendetta del cristiano è perdonare e pregare per l'offensore.
Quante occasioni, anche tragiche, si presentarono all'uomo di Dio per mettere in pratica il santo ammonimento! Dal 48 al 54 furono anni di attentati veri e propri alla sua esistenza. Una palla di fucile, a lui diretta mentre faceva il catechismo, gli forò la manica fra il braccio sinistro e il petto. Due sicari, appostati all'oscuro in un canto di Piazza Castello, erano li lì per pugnalarlo, quando accorse gente.
Due volte, chiamato al letto di finti moribondi, mandò a vuoto con la sua presenza di spirito diabolici tentativi di sopprimerlo, avvelenandolo o massacrandolo. Per ben tre volte scansò, vittima designata, la ferocia di un terribile accoltellatore prezzolato. In camera sua minacciato con arma da fuoco, dovette la salvezza all'irrompere di chi, sospettando, stava alle vedette. Sulla strada di Moncalieri un formidabile colpo di randello gli avrebbe fracassato la nuca, se l'aggressore, nell'atto di assestarglielo, non fosse andato, per un suo provvidenziale spintone, a ruzzolare nel borro vicino.
E i quattro mortali pericoli, da cui lo scampò il cane misterioso? I mandanti, malfattori d'alto bordo, appiattati nell'ombra, armavano mani omicide e moltiplicavano gli assalti, perché Don Bosco non intendeva disarmare nella sua lotta implacabile, ma leale pro Ecclesia et Pontifice, mezzo soprattutto delle temute Letture Cattoliche. e si brutti rischi, che avrebbero sgomentato uomini non privi di coraggio, a lui non scemavano nemmeno la calma nelle ordinarie occupazioni, sicché entro casa e poco e da pochi si conoscevano le sue peripezie. Quale spirito superiore lo animasse nell'azzardosa campagna, egli stesso ce l'apprende.
Nel 53, a due signori che, ricevuti cortesemente, erano trascesi a truculente minacce per forzarlo a smettere quella pubblicazione periodica, disse chiaro e tondo: «Facendomi sacerdote, io mi sono consacrato al bene della Chiesa Cattolica e alla salute delle anime, particolarmente della gioventù. Loro non conoscono i preti cattolici; altrimenti non si abbasserebbero a queste minacce. Sappiano che i sacerdoti della Chiesa Cattolica, finché sono in vita, lavorano volentieri per Iddio; che se nel compiere il proprio dovere avessero a soccombere, riguarderebbero la morte come la più grande fortuna e la massima gloria».
Ci tenne pure a dichiarare che egli non avrebbe mai opposto violenze a violenze, perché «la forza del sacerdote sta nella pazienza e nel perdono». Infatti chi dopo simili incontri avesse cercato Don Bosco, l'avrebbe trovato a ringraziare il Signore e la Vergine, a pregare per gli sciagurati persecutori, a pensare dinanzi a Dio come rendere bene per male e a ritemprare l'animo nella comunicazione col suo Signore.
Le aggressioni a mano armata s'intercalavano ad assalti più prosaici, ma assai più numerosi: a quelli dei fornitori e dei creditori. Nel condurre avanti opere di religione e di carità, Don Bosco si vedeva sovente ridotto in durissime strettezze: le quali però non gli toglievano di trarre dalle profondità della fede alimento perenne a una santa allegrezza e pace. Dio è un buon padre, diceva; egli provvede agli uccelli dell'aria e non lascerà certamente di provvedere a noi. Quanto a sé e alla sua missione, ragionava così: - Di queste opere io sono soltanto l'umile strumento; l'artefice è Dio. Spetta all'artefice e non allo strumento provvedere i mezzi di proseguirle e condurle a buon fine. Egli lo farà, quando e come giudicherà meglio; a me tocca solo di mostrarmi docile e pieghevole nelle sue mani.
Tale abitudine a guardare le cose dai tetti in su gli faceva dire nei sermoncini della sera: «Pregate, coloro che possono, facciano la santa comunione secondo la mia intenzione. Vi assicuro che prego anch'io! anzi prego più di voi. Mi trovo in gravi imbarazzi! Ho bisogno di una grazia. Vi dirò poi quale sia». Alcune sere dopo manteneva la parola, raccontando, per esempio, di un ricco signore venuto a portargli la somma sufficiente, e soggiungeva: «La Vergine Santissima oggi, oggi stesso, vedete, ci ha ottenuto un si segnalato beneficio. Ringraziamola di cuore. Intanto continuate a pregare; il Signore non ci abbandonerà. Ma se nella casa entrasse il peccato, poveri noi! Il Signore non ci soccorre più. Attenti dunque a respingere le insidie del demonio e a frequentare i sacramenti».
Sono spizzichi di parlatine che giovani interni scrivevano letteralmente sera per sera e che i nostri archivi custodiscono gelosamente, perché eco fedele della voce paterna, e documento prezioso della verità di quanto egli asseriva pubblicamente nel 76: «Non abbiamo mezzi umani; ma noi siamo soliti alzare gli occhi in su». Se non che, la prova migliore che un uomo ha continuamente il cuore in Dio e Dio nel cuore, sta in quel mutare fortitudinem, quel pigliare sempre nuove forze, dove tutto parrebbe congiurare a prostrarle: stabilità, che è partecipazione intima dell'immutabilità divina. «Durante trentacinque anni io, attesta il Cagherò, non mi ricordo di averlo veduto un sol istante infastidito scoraggiato e inquieto per il sostentamento de' suoi giovanetti».
Alla ferocia delle violenze passeggere, all'assillo delle angustie quotidiane, s'aggiungano fatti dolorosi, che lo colpivano nei sentimenti pi√π cari. Valga per tutti il brutto caso occorsogli nel centenario di san Pietro.
Uno dei grandi amori di Don Bosco fu sempre il Papa. In tempi ostilissimi al Papato egli spiegò per il Romano Pontefice uno zelo operosissimo, messo a dure prove, ma conosciuto pienamente dall'una e dall'altra sponda. Toccare Don Bosco nell'amore al Vicario di Gesù Cristo era ferirlo nella pupilla degli occhi. Eppure Dio permise che neanche questa tribolazione gli fosse risparmiata.
Per la solenne ricorrenza mondiale aveva egli dato alle stampe nelle Letture Cattoliche suo fascicolo sul Principe degli Apostoli, operetta che incontrava molto favore; quando, che è che non è, si viene a sapere che il suo libro è stato da taluno deferito alla sacra Congregazione dell'Indice. Un fulmine a ciel sereno! Egli ricevette poi d'ufficio la relazione di un Consultore: una requisitoria grave, severa, financo rude verso la persona dell'autore, quasi che avesse attentato a infirmare l'autorità pontificia con erronee dottrine. Don Bosco molto pregò, molto si consigliò, poi mise in scritto una rispettosa risposta.
La notte prima d'inviarla a Roma, chiamò uno de' suoi per la trascrizione calligrafica; la qual circostanza ci ha permesso di conoscere cosa che altrimenti sarebbe rimasta sepolta nelle tenebre di quelle ore. Nel silenzio notturno il calligrafo udiva commosso dalla camera attigua i sospiri e le parole tronche di Don Bosco: erano accenti d'infocate preghiere. A mezzanotte, aperto dolcemente l'uscio e osservato il lavoro: - Hai visto? domandò. Sì, ho visto com'è trattato Don Bosco. Allora il caro Padre, guardando il Crocifisso: - Eppure, o mio Gesù, esclamò, tu lo sai che ho scritto questo libro con buon fine! Ah! tristis est anima mea usque ad mortem ! Fiat voluntas tua! so come passerò questa notte. 0 mio Gesù, aiutatemi voi! Come Don Bosco abbia passato il resto della notte, Dio solamente lo sa; noi sappiamo che alle cinque, il segretario, rimessosi al tavolino per ultimare la copia, vedeva Don Bosco tutto sereno e tranquillo scendere, secondo il solito, a confessare e a celebrare; dopo di che egli sembrava proprio un altro, tanta giovialità gli brillava in viso.
La difesa partì. Pio IX stesso arrestò la procedura. Intanto, riesaminatosi l'affare, tutto si ridusse a due ritocchi da eseguirsi in una nuova edizione. Grossa tempesta dunque in un bicchier d'acqua; ma per Don Bosco fu un colpo fierissimo. La preghiera umile che ne aveva rinfrancato lo spirito nei giorni della tristezza, si mutò in azione di grazie alla Madonna, tostoché il cielo si rifece sereno.
Ma che è un incubo di quattro mesi rispetto a un'oppressione protrattasi immutabile per lo spazio di ben dieci anni? Disperda il vento ogni amara parola; le polemiche ripugnano troppo anche all'indole di questo lavoro. La storia farà il dover suo; anzi è già in cammino a farlo. L'eroismo della santità di Don Bosco giganteggia in quei due lustri. Per noi, sarebbe una grave lacuna, dove si discorre dell'unione di Don Bosco con Dio nelle tribolazioni, passare sotto silenzio proprio la tribolazione che fu per lui la più sensibile e la più sentita. Noi abbiamo qui da una parte Don Bosco che cerca ogni via per appianare i dissensi, e dall'altra persone che sembrano studiarle tutte per moltiplicare gl'incidenti e inasprire le cose.
Dieci anni di questi dolorosi contrasti sono lunghi e dovrebbero stancare la pazienza di Giobbe. Eppure il nostro buon Padre, sempre mite, ogni volta che fosse costretto a parlare dell'angosciosa vessazione, un desiderio solo, un solo rammarico aveva da esprimere; quello scritto in una sua lettera al cardinal Nina: «Non ho mai domandato, non mai domanderò se non pace e tranquillità, a fine di lavorare nel sacro ministero in favore delle anime esposte a tanti pericoli». Per Don Bosco non c'erano che anime; il resto, buon nome, riputazione, interessi contingenti, non contavan nulla. Abbeverato di amarezze, che faceva egli dunque? Effondersi in preghiera è il conforto del giusto perseguitato, dice il Salmo; unire alla pazienza nella tribolazione l'assiduità nell'orazione è, secondo l'Apostolo, la pratica dei Santi.
Negli Atti processuali, c'imbattiamo in tre righe, nelle quali quel periodo infausto è definito «il crogiuolo che purificò l'oro della sua virtù da ogni scoria mondana, rendendolo eminente soprattutto nello spirito di fede e nell'unione con Dio». Riguardo agli autori delle tribolazioni, «io so», depone Don Rua, «che non si contentava di perdonarli, ma pregava e ci faceva pregare per loro».
Per una cosa Don Bosco non pregò mai, per la guarigione dalle infermità che lo travagliavano, pur lasciando che pregassero gli altri a esercizio di carità. Le sofferenze fisiche accettate con si perfetta conformità al volere di Dio sono atti di grande amor divino e penitenze volontarie; ma bisogna vedere fino a che grado! Non furono né pochi né lievi i malanni, a cui Don Bosco, andò soggetto in tutto il tempo del "suo vivere. Non è davvero iperbole il dire anche di lui che la sua carne non ebbe mai sollievo. Sputi sanguigni, cominciati sul principio del suo sacerdozio e rinnovantisi periodicamente. Dal 43, mal d'occhi con bruciore e in ultimo perdita completa di quello destro. Dal 46, enfiagione alle gambe e ai piedi, cresciutagli di anno in anno, obbligandolo all'uso di calze elastiche, perché la carne afflosciata, come vide chi gli rendeva il pietoso ufficio di aiutarlo a scalzarsi, scendeva a coprirgli l'orlo delle scarpe! Dio sa come facesse a resistere in piedi ore e ore! Egli chiamò questa gonfiezza la sua croce quotidiana. Forti dolori al capo, si da parergli che il cranio gli si fosse dilatato; atroci nevralgie, che gli torturavano per intere settimane le gengive; ostinate insonnie; digestioni a volte assai laboriose; palpitazione di cuore fino a sembrare che una costa avesse ceduto all'impulso.
Negli ultimi quindici anni, febbri intermittenti con eruzioni cutanee; poi sull'osso sacro un'escrescenza di carne viva, grossa come una noce, immaginiamoci con quanta sua pena sedendo o posando in letto. Di questa tribolazione, per motivi facili a intendersi, non fiatò mai con chicchessia, neppure col medico, che mediante un piccolo taglio vi avrebbe tosto rimediato, come fu fatto nell'ultima sua malattia. Ai familiari, accortisi d'un suo disagio a star seduto, si contentò di dire: - Sto meglio in piedi o passeggiando. Mi dà fastidio il sedermi.
Un'altra di queste croci, della quale si ebbe vaga notizia, ma senza che mai se ne conoscesse l'entità, fu rivelata dopo la sua morte. La portava fin dal 45. Essendo in quell'anno scoppiata al Cottolengo l'epidemia petecchiale, Don Bosco, che vi faceva frequenti visite di carità, contrasse il morbo, conservandone poi sempre le tracce. Il curatore della salma vide cosa da far pietà: una spècie di èrpete diffusa su tutta la cute massime nelle spalle. Più orribile cilicio non l'avrebbe potuto straziare!
Nel quinquennio estremo, indebolimento della spina dorsale, per cui lo vedevamo andar curvo penosamente sotto il peso di tante croci, sorretto con filiale pietà da braccia vigorose.
Una celebrità medica francese nell'80, visitatolo infermo a Marsiglia, disse che il corpo di Don Bosco era un abito logoro, portato di e notte, non più suscettivo di rammendamenti e da riporsi per conservarlo come stava. Un altro medico, il suo medico curante, lasciò scritto che «dopo il 1880 circa, l'organismo di Don Bosco era quasi ridotto ad un gabinetto patologico ambulante».
Orbene, con tutta questa serqua di mali, mai un lamento, mai il menomo indizio d'impazienza; anzi, lavorare al tavolino, confessare a lungo, predicare, viaggiare, come chi gode perfetta salute; più ancora, sempre di buon umore, sempre giulivo nell'aspetto e incoraggiante nel parlare. Invitato a pregare il Signore, perché lo liberasse da un incomodo rispose: - Se sapessi che una sola giaculatoria bastasse a farmi guarire, non la direi. Don Bosco, "guardando i suoi mali in Colui che glieli mandava, "li trovava tanto più amabili, quanto maggiore ne era il numero e il travaglio.
Questo solo fatto ci discopre tale un abisso d'interiorità, che quasi non ci si crederebbe, se non si sapesse quanto sia ammirabile Dio ne' suoi Santi.10 Esso ci porge il destro di richiamare una ben fondata dottrina del Taulero Dice il Doctor sublimis: «Di tutte le preghiere fatte da Gesù nella sua vita mortale, la più alta ed eccellente è quella innalzata al Padre, quando disse: Padre mio, si faccia non la mia, ma la tua volontà la più glorificatrice del Padre e a Lui più accetta; preghiera la più giovevole agli uomini e la più terribile ai demoni.
Mercè questa rassegnazione della volontà umana di Gesù, noi tutti, volendo, ci salviamo. Ecco perché la maggiore e più perfetta letizia dei veri umili sta nel fare esattissimamente la volontà di Dio». Ed ecco dunque una preghiera che Don Bosco seppe fare a perfezione durante il corso della tanto tribolata sua esistenza.
 
Eugenio Ceria
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