Capitolo 11

Il pastorello diligente - Umiltà di Giovanni e sua mortificazione nel cibo - Suo esercizio di preghiera.

Capitolo 11

da Memorie Biografiche

del 03 ottobre 2006

Prima di procedere nel nostro racconto egli è d'uopo accennare al luogo, ove accaddero le scene che stiamo per esporre. Chi fa la strada che da Buttigliera mette alla borgata dei Becchi, frazione di quella di Morialdo, vede alla sua destra una collina, su di essa un'umile casetta e ai piedi fino alla strada un prato ombreggiato da varii alberi. Quella casetta era l'abitazione di Margherita, e in quel prato i suoi figli, prima Giuseppe e poi Giovanni, conducevano al pascolo e custodivano una vaccherella.

“L'oziosità è maestra di molti vizii”, era l'avviso che, ripetuto all'orecchio di questi giovani, li persuadeva a fuggir l'offesa di Dio e a spiegare un'attività continua, sicchè per loro era divenuto necessario un non mai interrotto lavoro. Ed era cura di quella sollecita genitrice di tenerli sempre occupati in cose compatibili colla età loro.

Margherita aveva adunque affidato a Giovannino l’ufficio di pastore, ed egli l'aveva preso con singolare diligenza; e però ogni giorno vedevasi tenere con una mano la corda legata alle corna della mucca, perchè non andasse a recar danno al campo dei vicini. Così ci narrava Giovanni Filippello, suo coetaneo, il quale affermava, che fin da quella prima età Giovannino faceva trasparire dalle sue azioni come in lui vi fosse qualche cosa di non ordinario. “Io andava al pascolo con Giovanni Bosco, che allora aveva circa sette anni: egli si attirava l'ammirazione di chi lo guardava, poichè il vederlo per una parte così modesto in volto ed umile, col capo leggermente chino, e per altra parte così allegro e faceto, rapiva i cuori. Io spesso gli diceva: - Tu, Giovanni, non mancherai di riuscire a bene. - Egli mi rispondeva con semplicità: - Lo spero”.

Un altro suo compagno in quei luoghi di pascolo, certo Secondo Matta, servitorello in una delle masserie circostanti, e della sua stessa età, ogni mattino scendeva dalla collina traendosi dietro la vacca del padrone. Per la colazione era provvisto di un pezzo di pane nero. Giovanni invece teneva fra le mani, sbocconcellandolo, un pane bianchissimo che mamma Margherita non lasciava mai mancare a' suoi cari figliuoli. Un bel giorno Giovanni disse a Matta: - Mi fai un piacere?

- Ben volentieri, rispose il compagno.

- Vuoi che facciamo lo scambio del pane?

- E perchè?

- Perchè il tuo pane deve essere più buono del mio, e mi piace di più. - Matta, nella sua infantile semplicità, credette che Giovanni reputasse realmente più gustoso il suo pan nero, e facendogli gola il pane bianco dell'amico, volentieri accondiscese a quella permuta. Da quel giorno, per ben due primavere di séguito, tutte le volte che al mattino s'incontravano in quel prato facevano lo scambio del pane. Matta però, divenuto uomo e riflettendo su questo fatto, lo raccontava soventi volte a suo nipote D. Secondo Marchisio Salesiano, osservando che il movente di Giovanni a far quello scambio non poteva essere altro che lo spirito di mortificazione, poichè il suo pan nero non era certamente una ghiottoneria.

Quella specie di solitudine era per Giovanni occasione di pregare. Aveva imparato da sua madre; la quale, oltre le orazioni prescritte dall'usanza, cui recitava in ginocchio col massimo raccoglimento, lungo la giornata, in mezzo alle più svariate occupazioni, continuava a labbreggiare parole di affetto verso Dio. Quanti conobbero Giovanni fanciullo, ci attestano questo suo amore alla preghiera e la sua grande divozione verso Maria SS. Il santo Rosario gli dovea essere famigliare, imperocchè dai primi tempi dell'Oratorio fino agli ultimi anni di sua esistenza, volle che impreteribilmente fosse recitato dai giovani tutti i giorni: non ammise mai che ci potesse esser causa che dispensasse una comunità dalla recita di questo. Era per lui pratica di pietà necessaria per ben vivere, quanto il pane quotidiano per mantenersi in forze e non morire. Oltre a ciò, tutte le volte che la campana di Morialdo suonava l'Angelus Domini, ei toglievasi immantinente il cappello e piegava il ginocchio per salutare la sua Madre celeste. Giovanni Filippello aggiungeva tale essere stato il suo trasporto per la pietà, che sovente udivasi coll'argentina sua voce far risuonare il colle di laudi sacre.

La preghiera unita al lavoro mantiene la purità dell'anima; sicchè puossi argomentare che Giovanni conservasse immacolata quella virtù che rende gli uomini simili agli angioli. Non fa quindi meraviglia che Marianna Occhiena affermasse molte volte e con persuasione vivissima a Giuseppe Buzzetti, che di quando in quando la Madonna SS. apparisse a suo nipote, mentre era solo nel prato in pastura, e gli rivolgesse la parola. Non abbiamo argomenti per provare un simile favore celeste, ma notiamo come questa diceria ben dimostra in quale stima fosse tenuta la sua fanciullezza da chi lo conosceva così da vicino.

Mentre sulla collina dei Becchi si svolgevano queste semplici scene, una straordinaria funzione, in un giorno feriale del 1822, attirava in parrocchia i Castelnovesi. Il Vicario foraneo D. Giuseppe Sismondo, con tutto il suo clero radunato innanzi all'altar maggiore, essendo presenti il sindaco ed un consigliere municipale come testi, giuravano fedeltà al Re Carlo Felice, salito in trono nell'anno antecedente, e a' suoi successori. Quest'ordine sovrano riguardava tutto il clero del suo regno. Il Papa ne aveva accordata la chiesta licenza, benchè fosse un'ingiuria dubitare della fedeltà dei sacerdoti al loro Sovrano. E fu allora che Mons. Fransoni, Vescovo di Fossano, esclamò con ragione: Incidimus in tempora mala; prevedeva l'avvenire e conosceva il mal animo dei cortigiani. Questi infatti aveano messo la diffidenza nell'animo del Re verso di Mons. Chiaverotti, Arcivescovo di Torino, benchè non si venisse mai ad aperta rottura. Monsignore era troppo rispettoso verso il suo Sovrano, e Carlo Felice, ossequente all'autorità ecclesiastica, aveva animo profondamente cristiano: in moltissime circostanze fu benemerito della Chiesa e in più altre seppe moderare le pretese de’ suoi ministri, che non erano come lui delicati nel rispettarne i diritti. Contuttociò non fu costante nel mantenerne alcuni: la triplice immunità ecclesiastica era stata ristabilita nel 1814, ma, venuta in uggia ai novatori, poco durò nel suo pieno esercizio. Quindi, dietro istanza del Re, Roma nel 1823 diè licenza agli ecclesiastici di presentarsi, citati, come testimoni, innanzi ai tribunali laici, così nelle cause civili come nelle criminali; con certe limitazioni però che mettevano in salvo il decoro del prete. Ma il carattere sacerdotale, l'ufficio di pastore, di confessore, di consigliere, di confidente naturale del popolo, non meritava forse egli un privilegio di pochi, pel bene che a tutti ne veniva coll'esimere il prete da ogni nota odiosa? I ministri vollero ancora nel 1824 sottomettere alla revisione civile le pastorali dei Vescovi, e pretendevano di modificarne le frasi che loro non garbavano, arbitrandosi di opporre un veto, se il Vescovo non si sottometteva. Il Re diede ragione ai Vescovi che a lui fecero ricorso; i ministri cedettero nei casi particolari, ma non mutarono gli ordini dati agli stampatori di non imprimere senza l'approvazione.

Lo stesso suo antecessore e fratello Vittorio Emanuele I, Sovrano pio, giusto e di cuore, rispettoso e obbediente verso la Chiesa, che aveva ristabiliti gli Ordini religiosi, ebbe intorno tali ministri che, come il Presidente Conte Peiretti, Ambasciatore a Roma, solevano dire: - Tutto quanto è oggetto di speranza in Roma, deve essere di timore a noi e dobbiamo astenerci dal concederlo. - Le tradizioni regaliste non erano spente nella Corte, e i Consiglieri della Corona si adoperavano a porre nell'animo del Sovrano il dubbio che certi privilegi del clero più non fossero compatibili colla mutata condizione dei tempi. E lo stesso Vittorio Emanuele nelle istruzioni date per iscritto al Conte Barbaroux, Inviato presso la S. Sede, gli aveva inculcato che diffidasse del Papa in quanto principe temporale. E si fidava delle altre Potenze d'Europa, mentre in Torino nei palazzi degli Ambasciatori di Francia e di Spagna e dell'Inviato di Baviera si raccoglievano le segrete riunioni dei settarii, che fecero scoppiare quella rivoluzione del 1821, dalla quale intimorito volontariamente abdicava al trono in favore di Carlo Felice!

Tutto ciò era effetto delle massime insegnate nell'Università di Torino e che si compendiavano in questo motto: - O il Papa acconsente a ciò che noi vogliamo, o ciò che vogliamo faremo egualmente! - Massima che in buona sostanza spianava la strada a tutti i nemici della Chiesa. Il Conte La Margherita dichiarava poi essere stata una fortuna per lui aver studiato da sè il diritto ecclesiastico in autori non condannati dalla Chiesa, avendo presa la laurea in legge prima della restaurazione, quando non vi era in Torino la cattedra di diritto canonico.

Di questi ministri adunque, di questi dottori aggregati, quanto non era migliore un umile fanciullo, che altro non sapeva che il suo catechismo. “Sono più intelligente dei vegliardi, perchè osservo i tuoi comandamenti”: così poteva dir Giovanni col Salmista. In fatti quelli prepararono rovine senza numero alla società, mentre il giovane pastorello ne preparava ampia ristorazione. Egli, che fu poi sempre così intrepido, fedele nel servir a Dio ed alla S. Chiesa, avrebbe eziandio potuto con verità far sue le parole dell'Ecclesiastico: “Quando io era tuttor giovanetto, prima d'inciampar in errori, feci professione di cercare la sapienza colla mia orazione. Io la domandai dinanzi al tempio, come fino all'estremo punto la cercherò; ed ella gettò il suo fiore come l'uva primaticcia. Il mio cuore trovò in essa il suo gaudio. Il mio piè battè la strada diritta, andai in cerca di lei fin dalla giovinezza. Chinai un poco le mie orecchie (con animo docile a' suoi ammaestramenti) e l'ascoltai. E molta sapienza accolsi nella mia mente e molto in essa mi avanzai. A Lui che mi dà la sapienza, io darò gloria. Perocchè io mi sono risoluto di metterla in pratica! Ebbi zelo del bene e non avronne rossore. Per lei ha combattuto l'anima mia e mi tengo costante nel seguitarla”.

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