Capitolo 13

Il canto nelle sacre solennità - Primi strumenti musicali - Nuove scuole, nuovo metodo e nuove composizioni - Pazienza di D. Bosco - I cantori alla Consolata e il maestro Bodoira - I1 canto gregoriano.

Capitolo 13

da Memorie Biografiche

del 06 novembre 2006

 Nel capitolo precedente abbiamo descritto come D. Bosco si affaticasse, nel preparare quanto oc­correva per entusiasmare i ragazzi nelle grandi solennità. Abbiamo accennato al canto e qui ne parleremo più diffusamente per far sempre meglio risaltare lo zelo costante di D. Bosco. Egli era appassionatissimo per le funzioni di chiesa, perciò continuava la sua scuola di canto, alla quale sul finire del 1847 e nel 1848 dava una, nuova e gagliarda spinta, aumentando il numero degli allievi. Ma quanto grandi difficoltà dovette superare! Egli senza maestro aveva imparato da sè a suonare il pianoforte, e non potendo permettersi in casa sua il lusso di un così costoso strumento, talora si esercitava su quello di qualche amico sacerdote. Per ritenere in tono i suoi discepoli ed anche per accompagnare le lodi alla Madonna col suono, nel luglio del 1847 comprava per dodici lire una fisarmonica. Per la sua, cappella - tettoia provvedeva il 5 novembre 1847 eziandio un organuccio, che gli era costato la somma favolosa di trentacinque lire. Pensate quali note armoniose doveva emettere. Si suonava col manubrio e i pezzi musicali del suo cilindro portavano l'”Ave maris stella”, le Litanie della Madonna, il “Magnificat” con qualche altro inno della Chiesa. Forse per anni ed anni era stato trasferito da una cappella campestre all'altra nei giorni di solennità. Ma se poteva servire per le feste ordinarie, diveniva inutile allorchè era conveniente variare la musica. Quindi la necessità che D. Bosco trovasse un pianoforte per la sua scuola di canto. Il Teol. Giovanni Vola fu quegli che provvide a quel bisogno donando un cembalo, o meglio una vecchia spinetta che aveva in casa. “ Mi costa trenta lire, sapete! ” aveva detto mentre la consegnava al giovani venuti per trasportarla all'Oratorio.

D. Bosco raccolse allora una cinquantina di ragazzi che avevano voce più bella, intelligenza più aperta, e orecchio più fino. Ad alcuni aveva fatto imparare gli esercizi degli intervalli e delle scale; pochi altri, i quali appartenevano a quella antica scuola della quale altrove abbiamo discorso, si erano già avvezzati per la molta pratica a certo suo nuovo metodo, adattato unicamente ad essi ed allo stile musicale di D. Bosco; la massima parte però non aveva mai cantato ed era al tutto ignara dei primi elementi di questa nobilissima arte.

Perciò D. Bosco, che voleva a qualunque costo celebrare le feste coi canti dei suoi giovanetti, non si scoraggiò alla vista del lungo tempo che occorreva perchè essi imparassero ad orecchio e ritenessero a memoria i motivi musicali. Conformandosi alla loro ignoranza ed al bisogno, e non trovando facili musiche, a quelle, come abbiamo già detto, da lui composte negli anni trascorsi, aggiunse una sua nuova Messa, un “Tantum ergo”, ed altri salmi pel vespro. Ricavava sovente le sue armonie, con qualche modificazione, dalle varie laudi sacre che i giovani conoscevano perfettamente, aggiungendo qualche nota per l'introduzione e per il finale. V'intrometteva tratti di canto gregoriano, tolti ora dall'antifonario ed ora dal graduale, che reputasse più maestosi e devoti facendovi talora leggere variazioni od accordi. Qualche semplice motivo era eziandio trovato dal suo genio, specie negli a solo.

Questo suo lavoro, benchè sembri così esiguo da non doverne tener conto, pure, lo diciamo con franchezza, era il principio lontano di riforme nella musica sacra da lui ardentemente desiderate. In fatti un gran numero di maestri poco istruiti e poco amanti dello studio, seguendo l'andazzo dei tempi, abborracciavano i Kyrie, i Gloria, i Credo, le altre parti cantabili della Messa, unendo insieme cori e a soli di opere teatrali. Così facevano per i vespri; e si udiva sul motivo della “Stella confidente” cantarsi il “Tantum erg”o e il “Genitori”. Parole sacre e musica profana. D. Bosco non poteva soffrire questa specie di sacrilegio.

Egli adunque, seduto alla spinetta ed avendo innanzi schierati i suoi cantori novizi, tante volte batteva i suoi motivi sui tasti, li cantava egli stesso, li faceva ripetere dal suo coro, che finalmente riusciva a farli imprimere nella loro memoria. La scuola però procedeva con stento, perchè talora un certo numero degli allievi, essendo operai, erano impediti dall'intervenire.

Venuta la vigilia d'una festa, distribuiva le parti che ciascuno doveva eseguire e qui a nuove prove era messa la longanimità di D. Bosco. Il domani alcuno dei cantori non compariva all'ora stabilita, punto da invidia o da gelosia, offeso per non essergli toccata quella parte che desiderava, o per congeneri motivi. D. Bosco rimaneva allora negli imbrogli e doveva egli stesso eseguire la parte di chi era rimasto a casa, o accomodarsi come meglio poteva con altri cantori. Era quella una specie d'ingratitudine, perchè ai cantori ed a quelli eziandio che vestivano da chierici per servire la santa Messa, al mattino di una festa D. Bosco faceva, qualche regaluccio o concedeva una speciale colazione.

La domenica seguente quei giovanetti permalosi ritornavano all'Oratorio come se nulla fosse stato. E D. Bosco si guardava bene dal far loro rimproveri, dissimulando in quel, momento l'offesa per non irritarli, e non essere con ciò causa, che si allontanassero dall'Oratorio. Egli per primo capo metteva sempre il fine di non porre impedimento alla salute delle anime. “ Colla pazienza si accomodano tante cose! ” diceva. Tuttavia, per ovviare a questi inconvenienti, faceva, imparare le parti a solo contemporaneamente a più giovanetti, cosicchè mancando il migliore dei cantori, questi poteva essere supplito da altri; e i capricci avevano un freno, potendosi vedere soppiantati da un rivale negli immaginari onori, e così un dispetto non poteva ottenere lo sfogo desiderato. A suo tempo però, benchè tardivo, D. Bosco non mancava di porgere un ammonimento fruttuoso a chi aveva bisogno di modificare la propria indole, esortandolo a cantare col solo pensiero di far cosa grata a Dio.

Questa musica fu un'attrattiva di più per legare i fanciulli all'Oratorio festivo e per attirarne sempre dei nuovi. Anche la gente estranea e i sacerdoti che venivano in Valdocco rimanevano meravigliati di quel nuovo coro infantile, il quale corrispondeva così bene alle cure del maestro, e domandavano e facevano premura di averlo a cantare nelle loro chiese.

Era però necessario che D. Bosco lo guidasse, poichè nessun maestro del mondo vi sarebbe riuscito: “ Io solo - diceva D. Bosco ridendo - era capace a dirigere quell'orchestra ”.

Infatti la sua partitura era indecifrabile. Alcuni motivi erano, scritti politamente colle sue note, di altri era notata solamente la prima frase; una sgraffa, una lettera, un numero indicava una ripresa, ovvero un ritornello. Non mancava, qualche nota di canto fermo. Le indicazioni della chiave degli accidenti e del tempo erano rimaste nella penna e nella mente di D. Bosco.

Fu invitato una volta coi suoi giovani a cantare una, Messa nel santuario della Consolata, ed egli vi si portò all'ora convenuta con pochi cantori, recando con sè il cartolare di una Messa da lui composta. Organista di quella chiesa era, il celebre maestro Bodoira. D. Bosco gli chiese con un misterioso sorriso, se avrebbe potuto accompagnare il canto, essendo, la Messa affatto nuova. “ Qualche cosa farò ”, rispose alquanto, risentito Bodoira, il quale era valente nell'interpretare a prima vista qualunque musica anche delle più difficili. E non volle dare neppure uno sguardo a quello spartito che D. Bosco gli presentava. Scocca l'ora della Messa, apre il fascicolo contenente la musica, dà uno sguardo, crolla il capo e tenta di suonare. Tutti i cantori sono fuori di tono. - Ma chi ci capisce? Qual chiave è questa? Io ne ho abbastanza, esclama, e preso il cappello, scende in chiesa, e se ne va per i fatti suoi. Don, Bosco che aveva preveduto questa ritirata, siede all'organo e con maestria accompagna la Messa sino al fine senza che i giovani sgarrassero una sola nota. La bellezza delle voci, il loro contegno devoto, e i volti che esprimevano fede ed innocenza attraevano i cuori del popolo. Venuti i giovani in sagrestia ebbero molti elogi pel loro canto, come pure fu lodato il suonatore dell'organo credendo quei religiosi che fosse il maestro Bodoira. E questa lode riuscì tutta ad onore di D. Bosco, che aveva accompagnato così bene, e tanto più sincera quanto meno era sospetta. Ci fu narrato questo racconto da un distinto dottore in belle lettere, che fu allievo dell'Oratorio nei primi tempi.

D. Bosco intanto, perchè aveva l'anima e la fantasia piena di armonie celestiali e uno squisito senso musicale, faceziando apprezzava, per quel che valevano, i suoi capi d'opera; i quali tuttavia per la carità, dalla quale erano ispirati, per l'umile sentire di sè che animava l'autore, ben potevano essere fregiati coll'iscrizione: “ In cospectu angelorum psallam tibi ”. Scherzando e con mezzi insufficienti, come in tutte le altre sue imprese, fondava la scuola di musica, che saviamente condotta non solo doveva essere di lustro e decoro al divin culto, ma riuscire eziandio un buon mezzo di educazione tanto morale, quanto intellettuale per i suoi allievi. E il culto della musica doveva riuscire in perpetuo uno dei distintivi delle sue Case, da lui giudicato come elemento necessario della loro vita.

E fin d'allora, per dimostrare il pregio nel quale lo teneva, alla festa di Santa Cecilia invitava a pranzo e faceva sedere alla sua tavola i primi cinque o sei giovanetti cantori di migliore abilità e condotta, pratica che amò continuare per molti anni.

Animati i cantori, e con loro provveduto all'attuale necessità, dopo pochi mesi egli organizzava una scuola preparatoria e destinava a maestro il giovane Bellia Giacomo. Non solo D. Bosco voleva far cantare, ma insegnare a cantori. L'arredo della scuola non poteva competere con rivali. Per leggio serviva una sedia, posta sopra di un tavolino appoggiato al muro, e su questa si collocavano i cartelloni dei primi esercizi di musica che egli stesso aveva scritto a stampatello. Il Teol. Nasi e D. Chiatellino ebbero poi eziandio a fare, quando potevano, alcune ripetizioni, direi di perfezionamento, a quelli che D. Bosco designava come di migliori speranze.

Intanto in città si era sparsa la notizia di queste lezioni. Essendo la prima volta che avevano luogo pubbliche scuole di musica e così numerose, e la prima volta che il canto era insegnato in classe a molti allievi contemporaneamente, vi fu un concorso stragrande di curiosi. Lasciò scritto D. Bosco: “ I famosi maestri d'armonia Rossi Luigi, Blanchi Giuseppe, Cerutti Giuseppe e altri venivano per più settimane, quasi ogni sera, ad ascoltare le mie lezioni. Ciò era in contraddizione col proverbio che dice non essere l'allievo sopra il maestro, mentre io non sapeva un milionesimo di quanto sapevano quelle celebrità; tuttavia la faceva da maestro in mezzo di loro. Essi per altro non venivano da me per ricevere insegnamenti, ma per osservare come fosse il nuovo metodo, direi simultaneo, che è quello stesso oggidì praticato nelle nostre Case. Nei tempi passati ogni allievo che avesse desiderato imparar la musica vocale doveva cercarsi un maestro che gli desse lezioni separate. Quando tali allievi erano sufficientemente istruiti, si univano, formavano i cori, e sotto abile professore d'orchestra si esercitavano a cantare pel teatro o per la chiesa ”.

Quei valenti professori ammiravano dunque il silenzio, l'ordine e l'attenzione degli allievi, le varie industrie colle quali D. Bosco riusciva nell'insegnare a molti insieme una musica che, se non era classica, aveva però le sue difficoltà, e come sapesse far modulare le voci nel passaggio da tono a tono; come, calcolandone l'estensione, li addestrasse a cantar da soprano senza che i giovani si stancassero e senza nocumento della loro sanità. E in ciò, essi stessi affermarono di aver imparato più cose da D. Bosco, e ne seguirono l'esempio e il metodo. Egli intanto dimostrava non essere inferiore al suo compito e che sarebbe riuscito o per sè solo, o coll'aiuto altri al di là di quello che potevasi prevedere. Infatti quella scuola iniziale, quella povera spinetta dovevano dipoi produrre musici di assai notevole abilità, non pochi organisti di vaglia, centinaia di scuole che levarono bella fama di sè; e l'autorità comunale di Torino assegnò a D. Bosco un premio di mille franchi per l'ardore col quale promoveva la musica vocale ed strumentale. Da questa e altre occasioni D. Bosco traeva argomento di raccomandare ai giovani radunati il rispetto, la riconoscenza e l'obbedienza a coloro che presiedevano alla città, e le sue parole producevano buoni effetti.

Ma egli di tutto ciò non ancora soddisfatto, vagheggiava grandi masse di voci, non a modo di concerto musicale, ma come spontanea espressione della preghiera e degli inni del popolo fedele. Voleva il canto liturgico, ma genuino e non eseguito alla grossa.

 - Così, egli diceva, i fedeli troveranno in chiesa quelle attrattive di cui tante belle cose ci lasciarono scritte gli antichi, e segnatamente S. Agostino. Più tardi ripeteva le cento volte che la sua più grande consolazione era l'udire una Messa in canto gregoriano nella chiesa di Maria Ausiliatrice, cantata da tutti i giovani, cioè da circa mille voci in due cori. Per esso ciò toccava il non plus ultra del sublime.

Perciò fin dal 1848 al sabato sera, non tenendosi in questo giorno le solite scuole, divideva i giovani in due classi. La prima classe era occupata ed esercitata a leggere i salmi del vespro specialmente, sicchè i giovanetti più non cadessero in errore di pronuncia e di senso. La seconda classe era composta di quelli, che sapendo già leggere correntemente i salmi, imparavano il canto corale delle antifone per la domenica seguente. Va notato che gli allievi erano tutti poveri artigiani.

Quando poi egli ebbe un bel numero di giovanetti ricoverati, nei primi mesi dell'anno scolastico faceva loro imparare il metodo del canto fermo. Tutti i nuovi entrati in tempo di vacanza erano applicati a studiare le note ed i solfeggi; gli altri, che già questo canto conoscevano, i salmi, le antifone, le messe. Era eziandio suo desiderio e mira che i giovani ritornando al proprio paese fossero di aiuto al parroco nel cantare alle sacre funzioni. Tanto più che egli vedeva come a poco a poco il rispetto umano e l'ignoranza, avrebbero disertate le cantorie parrocchiali. Voleva che i giovani fossero introdotti nella scuola di musica vocale, solo quando conoscessero il canto gregoriano. Di quanto abbiamo esposto in questo capitolo abbiamo testimoni D. Rua Michele, Mons. Giovanni Cagliero e mille altri.

 

 

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