Soci defunti nel 1876.
del 07 dicembre 2006
Il farci a parlare dei soci defunti nel 1876 non crediamo che sia in queste Memorie un uscire dal solco. Infatti essi chi più chi meno vissero tutti in relazione con Don Bosco, sicchè non è possibile parlare di alcuno senza imbattersi nel Servo di Dio; inoltre i dati che abbiamo potuto raccogliere della loro vita ci forniscono un materiale assai prezioso per formarci un giudizio esatto sullo spirito, che allora circolava fra i membri della Congregazione e che era poi in buona sostanza spirito di Don Bosco: giacchè noli bisogna dimenticare che in quel tempo Don Bosco non aveva ancora ceduto il suo mantello a nessun Eliseo, e si è visto abbastanza qui sopra com'egli nella sua crescente famiglia continuasse a essere il grande animatore e come tutti da lui direttamente o indirettamente togliessero ispirazione e impulso. Ecco perchè non ci sembra tempo perso l'indugiarci un tantino a discorrere di tre chierici e due preti salesiani chiamati da Dio all'eternità nel corso di quest'anno.
I chierici provenivano tutti tre dai nostri collegi, dove avevano compiuto il loro ginnasio fino alla quinta classe inclusa. Il primo, Giacomo Piacentino, nativo di Rochetta Tanaro, studiò a Lanzo e vestì l'abito nel '70, a diciotto anni di età. In quei primordi Don Bosco pigliava chierici già maturi, e capaci per mandarli poco dopo la vestizione nelle case, affidandoli ai Direttori locali, perchè, mentre li occupavano in qualche cosa, li aiutassero a fare il noviziato e gli studi. Egli però non li perdeva di vista, ma faceva in modo che si sentissero sempre sotto il suo salutare influsso. Così Piacentino fu mandato quasi subito a Borgo, in un primo anno come assistente e nel secondo come maestro della terza elementare; indi, richiamato all'Oratorio, vi rimase fino agli ultimi suoi giorni assistente degli artigiani. Alla sua ingegnosa attività si dovette se nel '76 gli artigiani furono in grado di gareggiare da soli con gli studenti nelle rappresentazioni drammatiche, cosa non mai tentata per l'addietro. Quando già i suoi studi teologici erano abbastanza inoltrati e s'avvicinava il tempo delle sacre ordinazioni, parenti e amici gli mossero ripetuti assalti per trarlo fuori della Congregazione, facendogli balenare allo sguardo un più comodo avvenire; ma egli resistette energicamente, anzi, per iscansare ogni pericolo, dopo la professione religiosa, non aveva più voluto recarsi al paese. Nel maggio del '76 lo colse un malessere generale, che minacciava di prostrarne le forze. I Superiori lo inviarono ad Alassio nella speranza che l'aria mite della riviera giovasse a rimetterlo in salute; ma nel luglio seguente, purificato dalle sofferenze, se ne volò al Paradiso. La memoria del suo zelo indefesso per il bene degli artigiani gli sopravvisse a lungo nell'Oratorio.
Della città e del collegio di Alassio fu un altro chierico per nome Antonio Vallega, spentosi a Noli in Liguria presso i parenti tre mesi prima di Piacentino. A sette anni era guarito da una gravissima infermità per intercessione di Maria Immacolata, la qual grazia contribuì a renderlo pio e tutto dedito alle cose del Signore. Riusciva splendidamente negli studi; agli esami di licenza dati nel regio Ginnasio Monviso di Torino, riportò la palma su tutti i numerosi candidati interni ed esterni. Ascritto alla Congregazione, attese con ardore al proprio avanzamento nella perfezione e nel sapere. In un libretto, che Don Barberis conservò, segnava al termine di ogni mese mancanze e propositi. Ivi, fatta la professione dopo l'approvazione delle Regole, scrisse queste parole: “ Co' voti ho reso l'anima e il corpo tempio vivo dello Spirito Santo. Adunque voglio che questo tempio sia sempre puro e mondo ”. Nel gennaio del '75 gli si rincrudì un malore, che soffriva già prima di ascriversi alla Congregazione, e che lo portò irrimediabilmente al sepolcro. Ancora la sera che ne precedette la morte, ringraziava dinanzi a Don Cerruti il Signore d'averlo chiamato alla Congregazione e pregò vivamente il Direttore di dirlo a Don Bosco e di aggiungergli che egli era sempre ai suoi ordini per andare alle Missioni, se fosse piaciuto a Dio di mantenerlo in vita.
L'8 settembre partì per l'eternità il “ prezioso ” chierico Giacomo Vigliocco: tale lo qualificò Don Bosco, notificandone a Don Cagliero la perdita. Era di Barone, villaggio della diocesi d'Ivrea. Possedette fin da ragazzo un raro spirito d'orazione; in casa e nel collegio di Caluso, dove cominciò il corso classico, fu sorpreso talora sia di giorno che di notte appartato e assorto in preghiera. Aspirava al sacerdozio. Udendo un suo maestro a parlare dell'Oratorio, ne fu talmente invaghito, che volle venire a terminarvi il ginnasio. Era nei sedici anni. Di statura più che mezzana, pallidetto in volto, con aria semplice e tagliato piuttosto alla buona, vestito dimessamente ma pulito, parve a quel Direttore degli studi che fosse per principiare il corso ginnasiale; onde, senza nemmeno interrogarlo, lo condusse nella sezione inferiore della prima classe. Egli non fiatò, ma se ne stette là tranquillamente tutto il giorno; solo l'indomani dal còmpito fu scoperto lo sbaglio. Svegliato d'ingegno, primeggiò nella quinta. La sua pietà gli aperse tosto le porte alle Compagnie di S. Luigi e del Santissimo Sacramento, e poi lo fece aggregare a quella dell'Immacolata Concezione, riserbata agli ottimi. Giunta l'ora di decidere sulla vocazione, non istette in forse.
A persone distinte e influenti, che si presentarono a contrariarlo, disse che nelle cose della vocazione si ascolta soltanto la voce della coscienza e la parola del proprio direttore spirituale. Novizio, si mise interamente nelle mani del Maestro, il quale, dovendone dare relazione scritta a Don Bosco, non esitò a proclamarlo “il buon esempio del noviziato” e “un vero S. Luigi ”.
Uno de' suoi primi pensieri fu quello d'imparar a meditare. Lesse, interrogò e alla fine si attenne a questo metodo. Sul principio, nel porsi alla presenza di Dio, si figurava che Gesù Crocifisso gli stesse dinanzi e che dalla croce amorosamente lo osservasse. Nel corso della meditazione dava di tratto in tratto sguardi della mente al Crocifisso, immaginandosi di riceverne incoraggiamenti a considerar bene la verità che meditava. Infine pregava Gesù, che lasciasse cadere su di lui qualche goccia del suo preziosissimo sangue, come pegno di perdono e di grazia. Chiudeva la meditazione col formare buoni proponimenti. Da quel pensiero continuo a Gesù Crocifisso durante la meditazione si sentiva sospinto a scrutare ben bene il suo cuore e a prendere forti risoluzioni.
Conobbe a pieno il valore dell'obbedienza. Un compagno gli manifestò le proprie antipatie verso un superiore immediato; Vigliocco prese a svolgergli l'insegnamento di S. Alfonso essere per lo più una gran fortuna l'avere un superiore che ci sembri pieno di difetti, potendosi così vedere se siamo veri obbedienti o no, se cioè obbediamo all'uomo perchè ci piace, o a Dio, di cui quegli fa le veci. In fatto di obbedienza non c'erano per lui cose piccole; avvenendogli di mancare in coserelle di nessuna conseguenza, se ne accusava al superiore. Conobbe anche la preziosità del tempo. Non amava discorrere di cose inutili. Diceva suo diletto e sua ricreazione lo studio, al quale si applicava con tanta intensità da non accorgersi di quello che si facesse attorno a lui. Don Bosco. che aveva bisogno di un insegnate buono e bravo per i Figli di Maria, pose sopra di lui gli occhi, nè s'ingannò nella scelta.
Gli piaceva assai e fece sua la massima del Beato, che fa molto chi fa poco, ma fa quel che deve fare, mentre fa poco chi fa molto, ma non fa quel che deve fare.
Quello che maggiormente lo attrasse alla Congregazione e ve lo affezionò, fu il vedere come fosse suo oggetto primario occuparsi della gioventù povera e abbandonata. Egli ardeva d'istruire nella religione e condurre al bene i più tapini. Per due quaresime consecutive, finita la scuola, correva quotidianamente a fare il catechismo nell'Oratorio di S. Luigi presso Porta Nuova. Vi premetteva una preparazione molto accurata. I giovani gli volevano così bene, che i suoi oratoriani erano fra i più assidui nella frequenza e fra i più disciplinati e silenziosi durante la lezione. Ogni domenica dell'anno poi, non contento di affaticarsi in chiesa, dopo, quando gli altri catechisti uscivano a prendere un po' di sollievo,. radunava i più volonterosi e insegnava loro a servire la Messa. Don Guanella, che dirigeva i Figli di Maria e l'Oratorio di san Luigi e quindi ebbe a cooperatore il chierico Vigliocco, in una sua relazione sul tempo passato con Don Bosco, scritta dopo la morte del Beato, dice di lui che “era un virtuosissimo giovane ”.
Il suo ardore di catechizzare crebbe, allorchè Don Bosco incominciò a parlare di Missioni e di Missionari: bramoso di andar missionario, si pensava di fare nell'oratorio festivo il suo tirocinio. Presentò a Don Bosco formale domanda di partecipare alla prima spedizione. Nella sua lettera che porta la data del 2 febbraio 1875, scriveva: “Ben conosco la pochezza mia e il nonnulla in cui potrò aiutare; ma se Dio mi assiste, oh, qualche cosa farò anch'io! Dacchè sono l'ultimo dei suoi figliuoli, voglio almeno essere il primo a testimoniargliene il grande mio desiderio. La volontà di. far del bene al prossimo, Reverendissimo Padre, è in me straordinaria, nè mi spaventano disagi e fatiche, e ad una Sua voce son pronto ad andare anche in capo al mondo ”.
Ma altro disponeva di lui la Divina Provvidenza. La sua sanità che deperiva sensibilmente, destò serie inquietudini. Alleggerito della scuola, fu mandato a villeggiare sui colli di Soperga; indi per desiderio de' suoi andò all'aria nativa. Là raccoglieva i ragazzi del paese e dei dintorni per insegnar loro la dottrina cristiana, nè smise di farlo, finchè il male. non lo condannò a tenere il letto. Don Bosco che lo amava teneramente, non potendo visitarlo in persona, mandò a lui Don Rua. Spirò la mattina della Natività di Maria Santissima. Il suo parroco, domandandogli qualche giorno innanzi se la morte gli facesse paura, n'ebbe in risposta: “ Oh, io spero che non temerò la morte quando mi si avvicini, nè mi farà paura, perchè in tutti i mesi ho sempre fatto l'esercizio della buona morte ”. Era entrato appena nell'anno ventesimo della sua età.
Dei due preti rapiti alla Congregazione nel'76 uno, Don Giuseppe Giulitto, crebbe nell'Oratorio, dove entrò nel '66 a dodici anni compiuti. Abbiamo dì lui una succinta biografia, riduzione forse di un discorso funebre, pubblicata da Don Giovanni Bonetti nelle Letture Cattoliche e preceduta da una prefazioncella del chierico Carlo Cays, il quale fa in questi termini la presentazione dell'estinto: “ Molti ancora di quelli che lo ebbero a compagno e maestro ricordano l'affabile suo tratto, il gioviale carattere, l'ameno conversare, e nel medesimo tempo l'edificante condotta, la purezza dei costumi, l'ardore della pietà, lo zelo per la salute delle anime ”.
Egli veniva da Solero, comune del circondario di Alessandria. L'aveva raccomandato a Don Bosco la marchesa Emilia Imperiali di Solero. Compiè in quattro soli anni il ginnasio, lasciandosi docilmente guidare dal Servo di Dio. Rifulse nel giovinetto una purità angelica. Si facevano anche a lui i -ponti d'oro, se avesse voluto proseguire i suoi studi nel seminario; ma egli non si seppe rassegnare a staccarsi; da Don Bosco.
Si allontanò materialmente un anno dopo dal padre dell'anima sua, che lo mandò insegnante al collegio di Borgo S. Martino. Era ivi da pochi giorni, quando, entrato in familiarità col chierico. Luigi Nai, lo pregò di volerglisi fare ammonitore segreto, avvertendolo di qualunque difetto o mancamento scorgesse nella sua condotta. Don Nai, che ci riferisce oggi questa edificante particolarità, rammenta pure con che buona grazia il più giovane suo compagno ricevette la prima, ammonizione. Il dovere di assistere gli alunni in ricreazione esigeva che tutti al mattino, preso lestamente il caffè, si affrettassero a uscire nel cortile. Il chierico Giulitto, non ancora avvezzo a tale manovra, vi si attardava alquanto. All'osservazione fattagliene, si mostrò riconoscentissimo nè' mai più rimase là un istante oltre il necessario. Di un'altra cosa Don Nai si rammenta molto bene. Lettore assiduo del Rodriguez, l'aveva sulla punta delle dita; onde in frequenti occasioni o per dirimere controversie o per chiarire punti di ascetica o per avvalorare un suo modo di vedere o per raddrizzare idee storte, faceva immancabilmente ricorso a un suo Ipse dixit, che era: - Il Rodriguez dice così, il Rodriguez dice cosà. ” Anche Don Bonetti vi accenna là dove arreca due fatti che confermano la testimonianza sopra alle gata. Un tale si lagnava con lui di un uffizio, che alla sua poca mortificazione riusciva gravoso; Giulitto gli rispose: - Va', leggi il trattato primo della seconda parte del Rodriguez, e quello che ora ti pesa, ti si farà leggero come una paglia. - Un altro riluttava alquanto a obbedire; gli consigliò di leggere per alcuni giorni il trattato quinto della parte terza e: - In capo a otto giorni, gli soggiunse, confido che sarai il più obbediente della casa.
Giunto alla nuova residenza, per prima cosa si fissò un orario, assegnando a ogni parte della giornata la sua occupazione, sì da non dover perdere un briciolo di tempo. Per
nessun pretesto si dispensava dalla meditazione o dalla lettura spirituale. Dalla sua profonda pietà verso Gesù Sacramentato gli veniva una giovialità di modi e una serenità di volto, che lo rendevano a tutti carissimo; anche il medico che lo curò nell'ultima sua malattia, ne era incantato.
Nel settembre del '75, mentr'egli non se l'aspettava, Don Bosco gli disse di prepararsi agli ordini minori, per ricevere quindi a brevi intervalli i maggiori. Il chierico aveva appena ventidue anni; ma Don Bosco, bisognoso com'era di preti, tutte le volte che poteva, rompeva gl'indugi. L'improvviso annunzio lo turbò. Don Bosco, che lo conosceva a fondo, gli fece animo, chiese le opportune dispense e poi lo raccomandò a monsignor Ferrè, Vescovo di Casale, sempre tanto buono col Servo di Dio. L'ordinando aveva ricevuto in dicembre il suddiaconato, quand'ecco manifestarglisi una gran debolezza di petto, seguìta prima da tosse ostinata e poi da emottisi. Fu un fulmine a ciel sereno! Mandato a passar l'inverno nel collegio di Alassio, vi si rinfrancò, tanto che potè tornare a Borgo per prepararsi al presbiterato. Celebrò la prima Messa nella festa della Santissima Trinità. Fra i suoi manoscritti si rinvenne un fogliettino, in cui sotto il titolo Memento della mia prima Messa, si leggeva: “ 1° Signore, che io sia un sacerdote quale mi volete voi, secondo il vostro cuore. - 2° Che io vi ami come e quanto voi volete. - 3° Che non mi abbia a perdere eternamente. - 40 Che nessun'anima abbia da andare perduta per colpa mia; anzi possa io salvarne molte ”Ma purtroppo le belle speranze concepite da lui e sopra di lui ben presto andarono in fumo. Un mese appena era trascorso dai fervori dell'ordinazione sacerdotale, quando, nella medesima cappella che aveva echeggiato delle melodie di cento voci osannanti intorno all'altare del neolevita, risonava il lugubre canto del Requiem e del Dies irae dinanzi alla sua bara. Acerbo fu il lutto dei confratelli vicini e lontani. Il ricordo de' suoi santi esempi non si cancellò dalla memoria di quanti lo conobbero: i pochissimi superstiti ne parlano tuttora con sincera e tenera ammirazione.
Di poche settimane l'aveva preceduto nella tomba il sacerdote Cesare Chiala, già abbastanza noto ai lettori di queste Memorie. Un giorno Don Bosco disse di lui ad alcuni preti salesiani: “ E’ una perla preziosa per tutti i riguardi ” (1). Venne a farsi salesiano in età matura; ma conosceva Don Bosco da lunga data. Si fa menzione di lui in un autografo del Servo di Dio, dove sono registrati i nomi e l'età dei cento giovanotti, che nel '5o egli condusse da Torino a fare gli esercizi spirituali nel piccolo seminario di Giaveno; ivi infatti verso la metà del foglio c'imbattiamo in “Chiala Cesare 16 [anni] ”. Questo dimostra che le relazioni col Beato duravano da tempo.
Nacque a Ivrea da famiglia ragguardevole nel 1837. Trasferitosi con i suoi a Torino, avvicinò Don Bosco, quando il randagio oratorio festivo piantava finalmente le sue tende a Valdocco. Avvicinare Don Bosco e amarlo fu una cosa sola; onde se lo scelse per confessore e per guida, nulla facendo d'importante senza udirne il consiglio. A 26 anni era già Direttore delle Regie Poste del Piemonte. Piacendogli molto la maniera usata da Don Bosco nell'intrattenere e istruire i fanciulli, il Chiala e da studente e da impiegato si prestava di buon grado a fare il catechismo. Con il chierico Rua andava le domeniche all'oratorio dell'Angelo Custode in Vanchiglia, dove prese per sè la classe degli spazzacamini. Alto della persona, signorilmente vestito, di modi gentili, era bello vederlo seduto in mezzo a una trentina di quei malmessi valdostani, tutto intento a insegnar loro le cose di Dio. Nel '64 il trasporto della capitale lo costrinse a staccarsi dal suo amatissimo Don Bosco e recarsi a Firenze, donde nel '70 passò in Sicilia a dirigere le Poste della Provincia di Caltanissetta. Ivi subalterni e cittadini furono talmente edificati e ammirati della sua virtuosa condotta e schietta religiosità, che all'annunzio della sua morte gli fecero fare un. solenne funerale, sebbene già da quattro anni avesse lasciato la loro città.
Lasciò quella città, perchè rinunziò all'impiego. Nel '72 risolse di abbandonare il mondo per vivere col padre dell'anima sua. Gli costò non poco superare gli ostacoli domestici; ma alla fine trionfante fece il suo ingresso nell'Oratorio e vi diede principio al suo noviziato come chierico. La madre vedova e il fratello non si potevano capacitare che il loro Cesare volesse sul serio abbracciare una forma di vita così umile e povera.
Spese ottimamente i quattro anni vissuti nella Congregazione. Intrapreso con alacrità lo studio della teologia,. in meno di tre anni fu pronto per le sacre ordinazioni. Sua delizia era sempre l'oratorio festivo dell'Angelo Custode. Don Barberis, allora Direttore di quell'oratorio, scrive: “ Io posso attestare con soddisfazione che non trovai mai altro collaboratore nè più intelligente nè più zelante. ” Infatti aveva l'arte di trasformare addirittura certi discoli, che sembravano muletti indomiti.
Nell'aprile del '75 fu ordinato sacerdote. E qui sentiamo nuovamente Don Barberis: ” La sua virtù già si eminente si fece al tutto eroica... Lo ammirai più volte, quando era sopraccarico di lavoro, nel suo ufficio di prefetto, dopo alcune giornate, che si possono dire tempestose, alla sera, anche dopo le dieci, sforzarsi tutto stanco qual era, di finir la meditazione... Celebrava posatamente e con gran divozione la santa Messa, preceduta sempre da lunga preparazione e susseguita da fervoroso ringraziamento... Era solito dire che la fortuna d'aver in casa il Santissimo Sacramento era il bene che gli riusciva di maggior conforto ”.
Si teneva abitualmente nell'ombra. Pratiche umilianti o spiacevoli, da cui volentieri si rifugge, si affidavano a lui, che vi si sobbarcava con tutta docilità, sbrigandole col suo tatto molto fine. Non ridiremo ora quanto sia stata preziosa l'opera sua a vantaggio degli artigiani. Diresse anche le Letture Cattoliche, nelle quali aveva già aiutato non poco Don Bosco prima. di venire nell'Oratorio, correggendo stampe e traducendo dal francese. Alcuni opuscoli anonimi sono suoi, riveduti sempre accuratamente da Don Bosco. Finchè stette a Torino, alla sera, dopo aver pranzato con la madre, veniva assai di sovente a Valdocco, si ritirava in una stanzetta messa a sua disposizione e lavorava fino a tardissima ora. Talvolta dormiva nell'Oratorio; poi al mattino, fatte con grande edificazione le sue divozioni in mezzo ai giovani, sbocconcellava in compagnia dei chierici un po' di pane asciutto (allora i chierici non prendevano caffè) e se n'andava così al suo ufficio delle Poste. Don Lemoyne scrive: “ Talora accompagnò Don, Bosco ai Becchi per continuare sotto la scorta del suo maestro quelle composizioni; ma anche qui si contentava al mattino di mangiare pane scusso e non voleva altro ”. Il malanno che l'aveva già molestato nel suo ufficio postale, si aggravò talmente nell'estate del '76, che sul finire di giugno lo condusse alla tomba. La sua morte costernò quanti avevano avuto il bene di conoscerlo. Con sincera ” convinzione si andava da tutti ripetendo: - E' morto un santo! - Le sue spoglie mortali riposano a Feletto nel sepolcreto della famiglia.
Nel sogno del Paradiso il Beato Don Bosco vedrà fra breve Don Giulitto e Don Chiala con altri Salesiani al seguito di Domenico Savio.
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