Capitolo 16

Qualche norma ai catechisti per l'insegnamento della Dottrina Cristiana - Studio e spiegazione del Nuovo Testamento: lezioni di eloquenza sacra: il predicatore impreparato - La scuola di sacre cerimonie - Varie conferenze settimanali a tutti gli studenti - Istruzioni intorno alla buona creanza e convenienza di queste - D. Bosco modello di perfetta educazione - Urbanità e carità nel parlare e nell'ammonire - Tacere e riflettere se l'animo è agitato: una ridicola sfuriata - Buona creanza nelle azioni: D. Bosco e il giuoco della cavallina - Delicatezza colla quale D. Bosco avvisa alcuni giovani per qualche atto incivile - Cortesie nell'accogliere in casa i visitatori - Traccia di una commedia che insegna il galateo - Profitto dei giovani nell'attendere alle esortazioni di D. Bosco - Elogio.

Capitolo 16

da Memorie Biografiche

del 30 novembre 2006

 L’uomo saggio si rende amabile con sue parole dice l'Ecclesiastico: ed è perciò che persuade e attira a far la sua volontà quelli che lo ascoltano. Tale era D. Bosco e questa amabilità inculcava al suoi coadiutori, ripetendo a loro per assicurare il buon andamento della Comunità: - Parlate, parlate! - Ed è per questo santo fine che moltiplicava le occasioni di parlare non solo per sè stesso, ma anche per i Superiori della Casa, e per varii santi preti della città, pieni del suo spirito che invitava ad intrattenersi nell'Oratorio. Costoro parlavano in sua vece quando egli era assente o impedito, si facevano eco della sua parola, ricordando le sue massime, e si adoperavano perchè fossero appagati i suoi desiderii.

D. Bosco dunque oltre le prediche, l'esposizione delle vite dei Papi, il discorsetto della sera, le conferenze alle Compagnie, la lettura settimanale dei voti meritati dagli studenti, l'esposizione e spiegazione del regolamento della casa, radunava i suoi alunni per esporre loro argomenti di molta importanza che riguardavano l'educazione religiosa e civile. Sono cose che non bisogna dimenticare, e che qui le esponiamo perchè il dirle altrove non cadrà in taglio.

In primo luogo diremo del catechismo. A quando a quando D. Bosco, per lo spazio di almeno vent'anni dal 1846 al 1866, soleva radunare i suoi chierici e i giovani più adulti e più buoni per insegnar loro il modo di fare con profitto il catechismo ai loro compagni esterni ed anche interni. La sagrestia era il luogo preferito per queste radunanze. Sovente spiegava il Regolamento degli Oratorii festivi. Raccomandava ai maestri che in tempo di catechismo, stessero in piedi per dominare colla persona i ragazzi seduti, per poterli veder tutti, e così ottenere con facilità il silenzio

Insisteva pure che le risposte al catechismo si accompagnassero con qualche brevissima riflessione senza perdersi in spiegazioni che non sarebbero capite. D. Savio Angelo e Villa Giovanni ci narrano il bene che facevano queste radunanze e aggiungevano come egli nelle scuole domenicali e serali impiegasse più ore alla settimana nel raccontare ai giovani con molto gusto e riverenza, i fatti della Sacra Scrittura, citando i Libri Santi, per ragionare colla stessa parola di Dio. Così continuava gli insegnamenti che avevano uditi in chiesa da valenti Teologi del Convitto mandati da D. Cafasso nelle Domeniche.

Anche i giovani interni divisi per classi avevano in chiesa il catechismo domenicale. Ma oltre a ciò, D. Bosco procurava che fosse loro assegnato settimanalmente da studiare a memoria circa un capitolo della Dottrina Cristiana, da recitarsi dagli artigiani nella lezione, che ricevevano alla sera di ogni Domenica; e dagli studenti nelle loro scuole. Questi non erano ammessi all'esame finale delle materie scolastiche se non avevano ottenuta la promozione nell'esame di catechismo, esame dato dagli stessi insegnanti regolari oppure da loro presieduto. E ciò perchè gli scolari si avvezzassero a dare la prima importanza all'insegnamento, religioso sopra l'italiano, il latino, il greco e le altre materie accessorie.

Ai chierici delle scuole di teologia, ed eziandio a quelli dei due corsi di filosofia, aveva ordinato che ogni settimana studiassero dieci versicoli del Nuovo Testamento e li recitassero letteralmente al mattino del giovedì, nel refettorio, in tempo di colazione.

Questa usanza ebbe principio nel 1853. Quando D. Bosco entrò nel refettorio per inaugurarla, tutti i chierici tenevano in mano il volume della volgata latina, e lo avevano aperto, osservando le prime linee del Vangelo di S. Matteo. Liber generationis Iesu Christi filii David. Di qui pareva che necessariamente D. Bosco avrebbe dovuto incominciare, ma egli recitato l'Actiones, prese a dire: - Vangelo di San Matteo, CAPO XVI V. 18 - Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam. Et tibi dabo

claves regni coelorum: et quodcumque ligaveris super terram, erit ligatum et in coelis; ci quodcumque solveris super terram, erit solutum et in coelis.

Descritta quindi con poche parole l'autorità del Romano Pontefice, assegnò per lo studio in quella prima settimana i primi dieci versicoli del Vangelo che aveano tra le mani. Per più anni egli medesimo presiedette a questa recita facendovi una breve spiegazione letterale con pochi, ma veramente magnifici, commenti, concludendo con una massima che eccitava l'amore verso Dio ed era norma di condotta. Questa sua parola dotta ed attraente, piaceva così ai chierici, che lungo la settimana tutti aspettavano che venisse il giovedì.

Verso il 1857 essendo egli sovente trattenuto fino a tarda ora nel confessionale, si fece sostituire dal Ch. Rua Michele; nel 1863 diede questo incarico a D. Ruffino Domenico e poi successivamente a varii altri, ma egli di quando in quando assisteva a queste radunanze e talora le presiedeva.

A questo esercizio, detto volgarmente Testamentino egli talora aggiungeva qualche osservazione sull'importanza e sul modo di annunziare la parola di Dio; raccomandando una semplicità e chiarezza nel dire, atta a fare impressione nei cuori. La salvezza delle anime, ei ripeteva, dover essere l'unico fine del predicatore.

Per questo motivo uscì un giorno in una singolare espressione udita da D. Cerruti Francesco. I chierici davanti a D. Bosco ridevano delle esagerazioni lette nei sacri sermoni dei Secentisti, ed egli loro diceva: - E se in quel secolo fosse stato necessario quello stile e quelle figure per ottenere ascolto dal popolo e per far frutto di anime, che cosa ci sarebbe a ridire? Io trovo che avrebbe fatto male, chi altrimenti si fosse regolato.

Altra volta discorreva della diligente preparazione richiesta, e dell'ordine della materia da esporsi prima di salire il pulpito. E condiva il suo discorso con fatti ameni, che dimostravano la misera figura alla quale si esponeva un Sacerdote trascurato o inetto nel compimento di questo suo stretto dovere.

Noi eravamo presenti allorchè prese a narrare: - Un cappellano era conosciuto per la sua gran bonomia. Per dipingerlo basta accennare al metodo classico, oltre ogni dire, che teneva nel predicare. Saliva il pulpito e cogli occhi chiusi e colle mani posate sul parapetto della cattedra faceva l'esordio. Ogni volta che predicava passava in rassegna il decalogo: - Guardate, incominciava, sarò breve, molto breve: Sappiate adunque che il Vangelo di quest'oggi... (ma là quelle donne! lo so bene che voialtre donne avete la lingua lunga, ma almeno alla predica state zitte)... Dunque il Vangelo di quest'oggi racconta la moltiplicazione dei pani. Guardate perciò di andarvi a confessare perchè questo precetto si può anche ricavare dal Vangelo d'oggi. Incominciate dal far l'esame sul primo comandamento... (Ma eih, tu, sacrestano prendi un po' lo spegnitoio e va a regalare due colpi di canna a quella ragazzaccia là)... e facendo l'esame di coscienza visto il primo comandamento, passate a riflettere sul secondo... (Ma non c’è verso farli star queti quei fanciulli all'altar maggiore? ... ) Continuando il nostro argomento osservate se avete ubbidito al terzo precetto...

E così proseguiva non già spiegando ma recitando i dieci comandamenti. Diceva di esser breve, ed era breve davvero giacchè non istava mai in pulpito più di dieci minuti. Quando la popolazione si aspettava che incominciasse egli già scendeva dal pulpito. Ora che ve ne pare di questo tratto d'eloquenza? quai frutti può recare? sdegno, risa o sonno! E così accade sempre o per un motivo o per l'altro a chi sale in pulpito senza preparazione, con scapito grande delle anime e tremenda sua responsabilità al tribunale di Dio. Si riconosca questo dovere del Sacerdote e si raccoglierà larga messe. - “Appartiene all'uomo, sta scritto nei Proverbi al capo XVI, preparare l'animo suo (collo studio, la meditazione e la preghiera): e al Signore governare la lingua (colla sua grazia) ”.

Si ponno annoverare tra le conferenze la scuola di Sacre Cerimonie ai chierici. D. Bosco stesso la incominciò, e la proseguì per vario tempo il Teol. Bertagna Giov. Batt. Verso il 1857 D. Gherardi vice - curato di Santa Maria si assunse volentieri questo insegnamento, poichè i chierici dell'Oratorio erano stati aggregati al clero della sua parrocchia e nelle feste solenni vi si recavano per servire alle sacre funzioni. Avendo tempo libero insegnava anche a tutti i giovani ricoverati le cerimonie per servire le messe private, benchè vi fossero altri maestri deputati ad esercitarli in questo nobilissimo ufficio. D. Bosco infatti esigeva che ogni suo alunno servisse la Santa Messa e sapesse servirla bene. I chierici amavano D. Bertagna e D. Gherardi per la loro amabilità e per l'esattezza ammirabile del loro, insegnamento e più d'uno degli antichi ci ricordarono come essi corressero loro affettuosamente incontro per baciar la mano quando entravano nell'Oratorio.

A D. Gherardi successe il nostro carissimo compagno, il Sacerdote D. Rocchietti Giuseppe, il quale continuò fino al 1862, allorchè dovette uscire a malincuore dall'Oratorio per la sua malferma salute.

D. Giovanni Cagliero fu allora incaricato delle Sacre Cerimonie e dopo di lui D. Bongiovanni Giuseppe, l'opera dei quali altri poi continuarono.

 D. Bosco aveva anche iniziata una conferenza alla sera di ogni mercoledì per i giovani studenti, perchè progredendo nello studio, non trascurassero gli altri doveri; e non potendo egli continuarla con regolarità si raccomandava a diversi Sacerdoti suoi amici, perchè lo supplissero. Nel 1856 - 57 D. Casassa, venerabile Sacerdote per età e per virtù, Direttore delle Suore di Sant'Anna, trattò del peccato, delle virtù, dei sacramenti, ora nella sala di studio, e più sovente nella cappella di S. Luigi al venerdì, mettendo sempre cotta e stola. La sua conferenza morale riusciva sempre carissima ai giovani e durava una mezz'ora e non più. Oltre a ciò egli predicava alla Domenica a sera fino al 1863, alternandosi col Teol. Borel e col Can. Borsarelli.

Nel 1857-58, affinchè gli studenti cantassero gli inni della Chiesa intendendone bene il senso, invitò il Sacerdote Prof. Matteo Picco a spiegarli ogni giovedì, e a questa spiegazione si portavano anche gli studenti del Cottolengo.

Nel 1859 il Bresciano D. Zattini, aspirante alla Pia Società, ebbe l'incarico della suddetta conferenza e talora il mercoledì e talora la Domenica mattina dopo la seconda Messa, spiegava il salmo e tutte le altre preghiere e risposto dei servienti al Santo Sacrificio, acciocchè s'intendesse bene ciò che si recitava.

Nel 1860, 61, 62, 63 proseguì questa usanza del mercoledì il Teol. Borel in un camerone a doppio braccio, l'uno quello dell'attuale infermeria, l'altro sotto la camera di D. Bosco; ove le due sale facevano angolo, il Teologo si poneva a sedere vestito di cotta e stola e tutti i giovani studenti e i chierici stavano schierati alla sua destra ed alla sua sinistra. Egli esponeva un catechismo ragionato. Per un anno intero parlò della fede in modo così chiaro che tutti capivano. Fides sine operibus mortua est; sine fide impossibile est placere Deo. Riusciva veramente sublime quando descriveva la bellezza di questa virtù teologale, ci disse il Prof. Don Garino che era presente.

A lui per qualche anno succedette nel dettar lezioni morali nella sala di studio D. Bongiovanni e quindi questa usanza cessò.

In ultimo diremo della conferenza o scuola di buona creanza, che si teneva una volta la settimana nella sala di studio, al giovedì mattina, oppure talvolta alla domenica prima del pranzo. Spettava al Prefetto della casa questa incombenza e primo a far questa parte fu D. Alasonatti nel 1855. Era il coronamento della cristiana educazione, perchè i giovanetti, venuti dalle campagne e dalle officine non avevano apprese le maniere per diportarsi garbatamente in società.

Queste norme erano tratte dai libri santi del nuovo e vecchio testamento, i quali parlano del come diportarsi a mensa, del non sedersi quando altri è in piedi, del contegno nel presentarsi ai superiori, nello stare tra i compagni, nel conversare colle persone distinte, nel ricrearsi, in una parola, del come diportarsi in ogni circostanza della vita. L'atteggiamento di una persona è un tacito interprete del cuore e da questo si può congetturare qual sia il suo naturale carattere. Dice lo Spirito Santo nell'Ecclesiastico: “L'uomo si conosce all'aspetto, e da quel che apparisce sul volto si conosce l'uomo assennato. La maniera di vestire, di ridere e di camminare annunziano l'essere dell'uomo”. Perciò D. Bosco voleva che assennati comparissero i suoi alunni e che la compostezza di ogni atto, il garbo, l'ingenuità e l'onesta verecondia loro conciliassero presso la gente stima e benevolenza. Egli talvolta prestavasi a salire la cattedra della sala di studio invece del Prefetto, ma più delle parole il suo esempio fu una continua lezione di galateo. Egli era un modello di uomo bene educato; attento ad ogni suo gesto o parola, non offese mai nè lo sguardo, nè l'udito di alcuno, trattando tutti col massimo rispetto come insegna S. Paolo: Cui honor, honor. Non falliva a nessuno di quei riguardi che si devono usare a chi veniva

a fargli visita. I patrizii che lo osservavano attentamente se ne meravigliavano e più volte furono uditi esclamare: - Ma dove ha imparato simili cortesie? È un perfetto gentiluomo! - D. Albera sentì ripetere mille volte queste frasi anche in Francia, ed era una delle ragioni se si vuole secondarie, ma reale, del desiderio che avevano i gran signori di ospitarlo nei loro palagi. Simili gentilezze le usava egualmente coi poveri e non entrava mai nella loro casa senza scoprirsi il capo. Eziandio cogli alunni era di una cortesia incantevole. - Vorrei affidarti quella tal cosa: che ne dici tu? - Fammi grazia di eseguire una commissione. Permetti che ti dia un avviso? - Puoi aiutarmi in questo lavoro? - In tutte queste sue azioni nulla vi era di affettazione, perchè erano informate dalla carità di Nostro Signore, come si addice ad un prete.

I giovani si specchiavano nei portamenti di D. Bosco, il quale, sia in pubblico come in privato, non cessava di far loro sentire i suoi avvisi e le correzioni opportune. Egli nella buona creanza vedeva il germoglio di molte virtù, quindi il saggio educatore indicava il tempo di parlare e il tempo di tacere. Gli alunni erano avvertiti di guardarsi dal palesare le avversioni, che destano le maniere grossolane, presuntuose, o troppo sostenute o troppo scherzevoli di taluni. Di non raccontar mai al compagno ciò che altri avesse detto malignamente di lui: di far le viste di non avvedersi di un motto satirico lanciato contro di essi. Di non insistere, anche cogli eguali, e con ostinazione nel proprio parere. Di non prodursi mai come esempio dicendo: io avrei fatto diversamente, quando si udisse raccontare un'azione non riprovevole del prossimo. Di non contraddire mai ad alcuno che palesa un proprio sentimento. Di ascoltare senza dar segni di noia, anzi dimostrando interesse, chi ripete un fatto che ha già narrato altre volte, come se fosse una novità, e usare tale riguardo specialmente ai vecchi: di non rimanere sempre muto in una conversazione di amici: di non mai interrompere chi parla, o rispondere senza essere interrogato, e di temperare e moderare sempre la risposta colle parole, mi pare ovvero a me sembra, e non mai dare sentenza in senso assoluto, quando non è in campo una verità della religione. In una questione, quando diversi sono i pareri, di non vociare molti insieme, cercando di soprastare gli uni gli altri, ma sibbene contentarsi di attendere la loro volta per aprir bocca.

Allorchè qualche alunno dimenticava i suoi avvisi, D. Bosco aveva un modo speciale per correggere e per dare una lezione. Se chi parlava con lui pronunciava uno sproposito di grammatica, gli rincresceva che i presenti facessero atto di critica o di scherno, ed egli rispondendo a quel tale faceva entrare nella sua risposta la parola errata, correggendola, senza fare alcuna osservazione sicchè l'uno e gli altri capivano.

Un giorno D. Bosco esponeva qualche suo pensiero ad alcuni fra i chierici anziani circa provvedimenti da prendersi; ma uno appena udita la cosa rispose con poca cortesia: essere quella un'idea in grado superlativo inopportuna e opponeva difficoltà insuperabili. D. Bosco senza scomporsi interpellò dicendogli: - Quid est hyperbole? -  Tutti si misero a ridere, ma D. Bosco, non disse di più. Voleva forse fare intendere a quel tale, che fintanto che si trattasse solo di figure grammaticali e cose letterarie, poteva egli essere giudice competente. Motto enigmatico, ma grazioso per non mortificare chi faceva una poco pensata obbiezione.

Pi√π volte taluno emetteva qualche proposizione errata in fatto di scienze o di storia ed egli con pacatezza faceva segno di non approvare e soggiungeva: - Tu es magister in Israel et haec ignoras? - Ma non diceva parola che potesse recar confusione.

Intanto egli raccomandava che prima di parlare si pensasse due volte a ciò che si voleva dire, rammentando la sentenza dell'Ecclesiastico:  “Il cuore degli stolti è nella loro bocca (cioè parlano senza pensare) e la bocca de' saggi è nel cuor loro (pensano e considerano tutto quello che debbono dire). E dimostrava quanto fosse necessaria tale riflessione, ad ottenere ciò che si desidera, per non dire spropositi, per non tradire segreti, per non crearci dei nemici, per non tirare sopra a noi stessi gravi danni, per non offendere il Signore.

Non ommetteva un'osservazione su certi naturali sbadati, sospettosi, di primo impeto i quali se non sono messi a freno, prorompono facilmente in sfuriate, insultano quelli dai quali credono aver ricevute offese, malignano sulle intenzioni altrui, e sono persuasi di avere tutte le ragioni del mondo. E intanto si alienano gli amici, diventano odiosi alla società, sono la favola di tutti. Quanti se ne incontrano di questi screanzati, i quali non cadrebbero nel ridicolo se ponessero attenzione, ad essere tardi nel parlare, lasciando sbollire la loro fantasia, anzi dissimulando e tacendo sempre.

D. Bosco avvalorava questa sua lezione coi fatti, tra i quali il seguente.

- Io mi trovava un giorno nella sacrestia di S. Francesco d'Assisi, quando venne per dir Messa certo D. Corradi. Dimenticandosi di deporre la piccola mantellina che aveva alle spalle, si vestì degli indumenti sacri ed andò a celebrare. Finito il ringraziamento, prende il cappello per uscir di chiesa e cerca la mantellina, che non trova. Domanda al sacrestano, il quale si mette a ridere e non risponde. Don Corradi s'infuria. - Dove me l'avete nascosta? - Cerca in tutti gli angoli della sacrestia, e poi ritorna dal sacrestano minacciandolo se non gli diceva dove l'avesse nascosta o chi l'avesse presa. Il sacrestano continua a ridere, assicurandolo che non l'aveva toccata, nè aveva visto alcuno a prenderla. Si volge allora a me e agli altri presenti, chiedendo della mantellina, e senza aspettare risposta fa chiamare il Custode della Chiesa, il quale, all'udire tanto rumore, domandò premuroso a D. Corradi che cosa ci fosse di nuovo.

Egli rispose:

- Costoro mi presero… mi nascosero la mantellina, ed ora devo andare a casa e non me la vogliono dare; non può essere altri che il sacrestano capace di fare una simile burla, ed egli ride e si beffa di me.

Il Custode, che si accorse subito di tutto, finse di nulla e pacatamente chiama al sacrestano:

- Oh! è vero che gli hai preso la mantellina? o è forse qualcun altro che gliel'abbia nascosta? Dagliela perchè deve andare a casa.

Protestandosi tutti di non averla toccata, D. Corradi ancor più agitato corre di bel nuovo per ogni angolo e dice: - Pure l'ho deposta qui... e non c'è... in quest'altro luogo neppure... come ha fatto a scomparire?

Intanto viene D. Cafasso e vedendo la sacrestia polverosa e tutta sossopra, ne domanda a D. Corradi la cagione, che dà la solita risposta.

- Ma ditemi, riprese D. Cafasso, delle mantelline ne avete due?

- No, una sola, una sola.

- E che cosa dunque cercate?

- La mantellina.

- Ma se l'avete indosso!

D. Corradi porta la mano dietro alle spalle e tocca e solleva un lembo della mantellina. Rimasto un istante immobile per la confusione, più non disse parola, più non si volse a guardare alcuno, nascose la faccia, infilò diritto l'uscio che metteva fuori e via.

Ma oltre la buona creanza nelle parole, D. Bosco la voleva negli atti. Essendo egli un modello di cristiana dignità nella compostezza della persona, abborriva da ogni scherzo villano, da ogni giuoco che portasse di mettere le mani addosso ai compagni, ed ogni altra specie di famigliarità sconveniente, come sarebbe camminare a braccetto, il tenersi per mano e simili. Egli asseriva essere questi tratti contro il galateo e la buona educazione: e raccomandava agli assistenti che vegliassero, perchè fosse da tutti osservato con esattezza il suo avviso. Ed anche in questo caso aveva il suo aneddoto scherzevole per far intender bene, ciò che desiderava.

- Quando io giovanetto, andava alle scuole di Castelnuovo, ero avverso al giuoco della cavallina, e non solo ricusai sempre di prendervi parte, ma biasimava quei compagni che, prima o dopo la scuola, in simile modo si trastullavano. Ora accadde che un giorno tardando il maestro Don Moglia nel venire a far scuola, io stessi davanti al mio banco aggiustando alcuni libri. Quand'ecco uno dei compagni slanciarsi a un tratto sulle mie spalle, e subito un altro sulle spalle del primo e poi un terzo. Io però non dissi parola, ma afferrate strettamente le gambe dell'ultimo salito, le strinse ai fianchi dei sottoposti in modo, che nessuno si potesse più muovere e poi con tutta facilità uscii di scuola con quello strano fardello. I giovani così portati, sentendosi stretti fortemente e soffocando, chiamavano pietà e misericordia. Io non dando loro retta procedeva trionfante pel paese. Tutti correvano sul mio passaggio stupiti e schiamazzando. I condiscepoli mi seguivano fischiando e battendo le mani. Andai fino sulla piazza della chiesa e poi ritornai indietro. Quei poverelli che erano sulle mie spalle guaivano e supplicavano: - Bosco, lasciaci andare; non saliremo mai più sulle tue spalle: non giuocheremo mai più a cavallina.

Ma io continuava a tacere e con passo franco e tranquillo rientrai in iscuola dove D. Moglia attendeva la scolaresca per incominciare la lezione.

Il maestro, che era stato informato della cosa diede in uno scoppio di risa vedendo quella torre vivente e ambulante e a stento potè dirmi: -Lasciali andare.

Ma quei poveretti erano così indolenziti che non potevano più scendere. Allora ad un per uno andai a posarli sui banchi e fermandomi loro innanzi: - Vi piace, dissi loro, il giuoco della cavallina?

Quella lezione di buona creanza li persuase a lasciarmi in pace.

In mezzo al cortile egli vedeva e notava ogni atto de' suoi alunni e sottovoce dava a ciascuno l'avviso conveniente. A questo diceva: -Sta diritto sulla persona, non curvarti in quel modo: sembra che tu abbi la gobba. - Ad altri: - Non infossare la testa fra le spalle, che fai la figura di una civetta. - Quelle braccia non muoverle così goffamente: pare che tu non sappia cosa farne. - Leva le mani di saccoccia: è un segno sconveniente di padronanza.

Sovente correggeva uno sbadato con un gesto senza che altri se ne avvedesse, per non mortificarlo. Per esempio se avesse sputato per terra alla presenza di persone di riguardo, o sul pavimento della camera, egli faceva atto di avere un simile bisogno e si portava il fazzoletto alla bocca. Lo stesso faceva se uno tossiva, sternutava, o sbadigliava sguaiatamente. Se scorgeva che qualcuno dopo aver mangiato non si era pulita la bocca, egli facevasi passare sulle labbra la sua bianca pezzuola con un gesto significativo del capo. A chi aveva macchia sul vestito con un sorriso glie la indicava, mettendovi sopra il dito; e ciò bastava.

Il Canonico Sorasio ci narrò che andato D. Bosco a Caramagna per la vestizione clericale del giovane Fusero, si intratteneva coi preti della parrocchia, in sacrestia. Fusero intanto teneva il gomito sul banco dei sacri paramenti e sulla mano appoggiava la testa. D. Bosco allora si rivolse a lui pian piano, prese il suo braccio e lo rimosse in modo così cortese che il Canonico, allora secolare, ammirò tanta delicatezza e non potè mai dimenticarla.

Fra queste e altre continue lezioni, che D. Bosco dava di galateo, Reano Giuseppe ne ricorda una di non leggera importanza. Il 28 aprile 1858 egli raccomandava agli alunni di salutare, levandosi il berretto, quei forestieri distinti e specialmente i sacerdoti, che avessero incontrati nell'Oratorio; e di usare buone e cortesi maniere con tutti e specialmente con quelle persone, che domandano di parlare al Superiore, accompagnandole alla stanza del medesimo a capo scoperto, e rispondendo con garbo alle loro interrogazioni. Quindi descriveva ciò che ebbe a provare egli medesimo in occasione di una visita fatta il 18 febbraio di quello stesso anno. Andando in una casa ricevette accoglienze così fredde che ne restò non offeso, ma alquanto mortificato. Egli pensò allora a ciò che debbono sentirsi nell'animo i benefattori, se venendo nell'Oratorio fossero ricevuti in simil guisa ed alle conseguenze che ne potrebbero venire. E faceva osservare: - Quando si va in una casa per intrattenersi col padrone, se si presentasse anche un solo fanciullo ad aprire la porta, se questi con buone maniere vi dicesse: - I padroni non ci sono in casa, mi rincresce molto che abbia fatto invano i suoi passi; potrà ritornare alla tale ora, - chi è ricevuto con queste o altre simili gentili espressioni, ne rimane soavemente colpito e acquista stima e tiene buona memoria di tale famiglia.

Qui noi aggiungeremo che in questi anni D. Bosco aveva disposta una commedia in tre atti, per esporre come in compendio le mancanze contro il galateo. Non ci restò che una traccia trovata fra le sue carte. L'argomento è questo. Da un paesello di montagna un certo Silvio manda a Parigi due suoi figliuoli, perchè si guadagnino il pane l'uno facendo lo spazzacamino, l'altro il saltimbanco. Alcun tempo prima Silvio erasi comprato un abito usato e nel ripararlo aveva trovato cucito nella fodera alcune cedole al portatore per l'annua rendita di 20.000 franchi. Essendo galantuomo, annunziò all'autorità la sua scoperta che venne pubblicata sui giornali in tutte le forme volute dalla legge. Nessuno essendosi presentato a reclamare il tesoro con sufficienti dati di riconoscimento, il Magistrato lasciò a Silvio la sua fortuna. Questi allora va da un suo compaesano avvocato, stabilito

in città, uomo probo e suo coetaneo, e gli domanda consiglio sul modo di impiegare quel capitale! L'avvocato gli suggerisce di far ricerca dei figli, di provvederli di un educatore e maestro, acciocchè imparino i rudimenti della grammatica, si correggano dei rozzi loro modi, e divengano giovanetti di buon tratto; nello stesso tempo gli fa comprare un podere. L'avvocato, un medico, il maestro, l'educatore, un servo e un mezzaiolo di campagna e i due figli ritrovati dopo strane avventure, sono i personaggi della commedia. I due giovanetti rivestiti civilmente nel corso dell'azione, compariscono ora seduti alla lezione del maestro, ora nel giardino in ricreazione, ora a pranzo col padre e gli amici di famiglia, ora nella sala dove alla sera si radunano a conversazione i notabili del paese. Uno è goloso e si busca una indigestione, l'altro è più moderato e più docile, ma ambedue sono la quintessenza della rozzezza. Grattarsi il cranio, cacciarsi le mani nei capelli, prendere in mano le scarpe, il ficcarsi le dita nel naso, tenere il cappello in testa, non usare il moccichino, asciugarsi il sudore nella manica, camminare strisciando i piedi e cento altre gentilezze di simil genere si succedono rapidamente. La scena del pranzo fa morir dalle risa. Ma i savi consigli del maestro si succedono ad ogni villanata, ora in prosa, ora in versi con qualche proverbio. Gli alunni si indispettiscono, brontolano fra di loro e coi servi, ma facilmente si acquetano alle rimostranze del padre, alle osservazioni degli amici, alle buone maniere del maestro, che darà principio alla loro istruzione religiosa. Promettono adunque di apprendere le buone creanze, di farsi molti amici, trattando rispettosamente quanti a loro si avvicineranno, e ringraziano il Signore di aver mutato la loro condizione. Un invito a modesto festino chiude l'azione, della quale si deve proprio dire che castigat ridendo mores.

La scuola di galateo, formò una preziosa regola di condotta civile per quelli che ne approfittarono. Un distinto avvocato nostro antico allievo ed altri con lui, ci attestarono che usciti dall'Oratorio, loro bastò il ricordo delle norme di buona creanza ascoltate nella scuola di D. Bosco, per saper vivere onoratamente in società ed essere stimate persone cortesi e compite.

Ed ora concludiamo interrogando.

D. Bosco che cosa poteva fare di più per l'educazione dei suoi figliuoli? A lui ben può applicarsi l'elogio di S. Giovanni Grisostomo: Omni certe pictori, omni certe statuario, coeterisque huiusmodi, omnibus excellentiorem hunc duco, qui juvenum animos fingere non ignoret.

 

 

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