I Francesi in Torino - Afflizione di D. Bosco - Primi fatti d'arme - Montebello, Palestro, Magenta - I feriti Austriaci nel Convitto Ecclesiastico - D. Bosco coi Turcos a Collegno - Congiure e rivoluzioni nei Ducati e nello Stato Pontificio - Le feste nell'Oratorio: Dimostrazioni di riconoscenza a D. Bosco ed ai maestri Scuole e laboratorii cristiani.
del 30 novembre 2006
 I torinesi avevano temuto per un istante di veder comparire gli Austriaci fra le loro mura; perciò si abbandonarono ad un delirio di gioia, e con plausi e fiori accolsero i battaglioni francesi.
E D. Bosco si mostrava pensieroso ed accorato all'annunzio dei continui reggimenti che entravano in Italia per marciare contro l'Austria; e sovente fu udito esclamare: - Sono tutti uomini che vengono contro il Papa. Si tratta di incominciare il suo spodestamento e con questa guerra togliergli ogni aiuto straniero e nazionale.
Gli Austriaci intanto che già stavano per piombare sovra Ivrea, il 9 maggio, saputo l'arrivo dei Francesi, cominciarono un movimento retrogrado, concentrandosi tra la Sesia, il Ticino e il Po verso Stradella e Piacenza, in attesa delle mosse degli alleati. Il 19 maggio Giulay abbandonava Vercelli e trasportava il suo quartier generale a Mortara.
Il 12 l'Imperatore Napoleone era giunto a Genova e due giorni dopo arrivava ad Alessandria come duce supremo degli eserciti. Nel proclama alle truppe egli aveva detto: Noi non andiamo in Italia a fomentare disordini, nè a rovesciare il potere del S. Padre, che noi abbiamo riposto sul trono, ma a toglierlo da quella pressione staniera che grava su tutta la penisola.
Il 20 maggio vi fu un primo scontro d'importanza a Montebello tra Voghera e Casteggio, e i Gallo - Sardi perduti 700 uomini costrinsero gli Austriaci a ritirarsi. I vinti ripassarono il Po e si recarono a Pavia, lasciando sul terreno 7000 dei loro. Contemporaneamente Garibaldi partiva da Biella con sei battaglioni di volontarii e facendo un largo giro sopra Novara in potere degli Austriaci, marciava fino ad Arona. Di qui disceso a Castelletto, passava il Ticino nella notte dal 22 al 24 maggio, e recavasi a Varese. Il 24 sostenuto un felice combattimento col generale Urban accorso da Milano, lo faceva sloggiare da Como e da Visconti Venosta Regio Commissario veniva gridato Re e Signore di quelle terre Vittorio Emanuele.
Urban però ripresa Varese, ritornava a Como per la riscossa, quando ricevette ordine di congiungersi col grosso dell'esercito.
Si pronosticava che la guerra sarebbe stata sanguinosa oltre ogni previsione e Vittorio Emanuele vedendosi ad ogni istante in pericolo di morte, il 25 maggio scriveva al Papa, promettendo e supplicando perchè lo sciogliesse dalle censure; e Pio IX lo scioglieva, ricordandogli però che l'assoluzione per esser valida non poteva andar disgiunta dal proponimento di riparare nel miglior modo possibile ai danni recati alla Chiesa e dalla volontà di astenersene per l'avvenire.
Il 30 maggio gli avamposti Austriaci trincerati tra Vercelli e Bobbio sono assaliti a Palestro e costretti a sgombrare. L'esercito Piemontese dimostrava grande bravura. Tre delle loro brigate scacciarono il nemico da Vinzaglio, da Confienza e occupavano Casalino. Il giorno dopo gli Austriaci tentavano di riprendere queste posizioni, ma non riuscivano. Al fine del combattimento le loro perdite erano di 1600 uomini e di 600 circa quella degli alleati.
Tutto l'esercito francese era ormai concentrato tra Vercelli e Novara; una divisione avanzavasi fino a Trecate e l'altra a Galliate sulla riva destra del Ticino. Giulay accortosi allora che si minacciava Milano, da Vigevano e da Garlasco faceva immantinente passare tutto il suo esercito alla sinistra del Ticino e lo concentrava a Magenta. Gli alleati su due ponti passavano lo stesso fiume e il 4 giugno si veniva a battaglia. Lungo e terribile fu lo scontro, ma la vittoria arrise agli alleati. L'Austria aveva perduto tra morti e feriti 10.000 soldati e 7000 prigionieri; i francesi 4.000 tra morti e feriti e 1000 prigionieri.
Il giorno 5 gli Austriaci incominciarono la ritirata sul Mincio abbandonarono Milano, e nel quadrilatero si apparecchiarono a fare una vigorosa resistenza. Ivi si raccoglievano 150.000 soldati dei quali l'Imperatore Francesco Giuseppe era venuto a prendere il supremo comando.
L'8 giugno la retroguardia Austriaca era sconfitta dai francesi a Melegnano presso l'Adda: tra una parte e l'altra erano uccisi 2.200 uomini; e Garibaldi occupava Bergamo e respingeva da Seriate un battaglione nemico. In questo giorno Vittorio Emanuele e Napoleone entravano trionfalmente in Milano. Nel Piemonte per richiesta del Ministero si cantò in tutte le chiese l'inno di ringraziamento; e nella Metropolitana il principe luogotenente Eugenio di Savoia. Carignano convenne coi membri e gli ufficiali del governo.
Intanto i feriti, che avevano potuto sopportare il viaggio, erano stati ricoverati in parecchie città subalpine. In Torino ne erano pieni gli ospedali e a nessuno mancarono i soccorsi dell'arte e della religione e lo zelo delle figlie della carità.
Al Convitto Ecclesiastico erano stati condotti Austriaci feriti e prigionieri. D. Bosco andato a visitare D. Cafasso, al quale il Governo aveva lasciate alcune stanze, s'intratteneva con essi dicendo qualche parola di compatimento e di conforto religioso. Incontravali nel cortile colla testa fasciata, o colle braccia al collo o una gamba di legno, raccolti all'ombra del caseggiato. Erano ungheresi, polacchi, tirolesi e quasi tutti sapevano tanto di latino in maniera, di poter tenere un po' di conversazione.
Coi soldati francesi però ebbe D. Bosco maggiori attinenze e l'Oratorio divenne qual luogo di convegno per quelli stanziati in Torino e specialmente per gli invalidi. Uno degli alunni più adulti che parlava discretamente la loro lingua, cominciò a contrarre relazione con alcuni di essi, loro parlò di D. Bosco e li condusse a fargli visita. Don Bosco accolse quei militari con grande amorevolezza, s'intrattenne con loro in piacevoli discorsi, li invitò a venire all'Oratorio con libertà, anzi lasciò loro l'incarico di menarvi quanti compagni il bramassero.
- Voi potete venire, disse loro, per scrivere ai vostri parenti, e qui troverete carta, penne, inchiostro e i necessari francobolli; potete venire per leggere libri francesi, di cui abbonda la nostra biblioteca, e se taluni bramassero d'imparare la lingua italiana o l'aritmetica, io destinerò loro un apposito maestro. Siccome poi, soggiunse D. Bosco, noi siamo tuttavia in tempo pasquale, e potrebbe darsi
che non tutti abbiate finora avuto comodità di adempire al precetto della Santa Chiesa, così vi avverto che in questa nostra cappella voi troverete confessori che conoscono la vostra lingua, e che si presteranno sempre volentieri a vantaggio dell'anima vostra.
Questa graziosa accoglienza e queste parole riempirono di entusiasmo quei cari figli della Francia; onde ritornati in caserma raccontarono la cosa ai loro commilitoni, e destarono in molti il vivo desiderio di recarsi ancor essi all'Oratorio. Il fatto si è che in capo a pochi giorni nelle ore libere si vedeva come una processione di soldati francesi a scendere in Valdocco, e a venirsi a trattenere con D. Bosco e co' suoi suoi allievi siccome fratelli. Più centinaia di loro si accostarono eziandio ai Sacramenti e con un contegno così edificante, da ben dimostrare che appartenevano a famiglie di molta pietà e religione. D. Bosco, oltremodo contento, di tratto in tratto ne invitava alcuni a pranzo con lui; ed era allora un grazioso spettacolo il vedere i calzoni rossi risaltare presso le sottane nere, e chierici, Sacerdoti, e soldati fraternizzare insieme, gareggiando gli uni a parlare francese e gli altri a masticare italiano. Qualche uffiziale vi si intratteneva con tanta domestichezza che pareva come uno di casa.
Dopo alcun tempo erano in sì gran numero quelli i quali conoscevano D. Bosco di persona, che difficilmente egli usciva in Torino senza che si vedesse accompagnato o di tratto in tratto fermato da qualche soldato francese. Un giorno, diceva D. Turchi, incontratone un drappello per Torino, che lo salutarono con un Viva l'Italia, li avvicinò, ebbe per loro buone parole e li invitò a recarsi al suo Oratorie. Accettarono l'invito e D. Bosco fece recare ad essi un rinfresco con tanta cordialità, che ne restarono ammirati. Altra volta doveva egli recarsi a visitare un malato a Collegno, paese distante quattro miglia da Torino. Quando fu sulla via di Rivoli, ecco a farglisi incontro una dozzina di turcos, parte convalescenti, parte solo feriti al braccio od alla mano. Andando essi al passeggio, domandarono a Don Bosco di accompagnarvelo per qualche tratto di via, ed egli vi aderì molto volentieri. Di discorso in discorso e all'ombra degli annosi olmi che fiancheggiano lo stradale, la via parve sì breve, che la gioconda brigata quasi senza avvedersene giunse sino a Collegno. Colà pervenuti, i turco, volevano ritornare indietro, ma D. Bosco disse loro: - Giacchè come invalidi avete il permesso dei vostri superiori, attendetemi un poco; io farò presto, e ritorneremo a Torino insieme; - ed eglino si fermarono. Ma contro, la sua aspettazione D. Bosco non potè sbrigarsi così tosto come sperava, e quando uscì dalla casa dell'infermo l'orologio segnava mezzogiorno. Venuto a' suoi compagni di viaggio: - Mi rincresce, disse loro, di avervi fatto aspettare sì a lungo: ora come vedete è mezzogiorno: voi avrete certamente appetito, e i convalescenti avranno bisogno di ristoro, e non conviene che ci rimettiamo in via collo stomaco vuoto: venite dunque con me, e andremo a fare come dite voi non une ribote, ma una modesta allegria. - Ciò detto, li menò in un albergo, pagò loro un pranzo, mangiò con essi, facendo loro passare uno dei giorni più lieti. Dire la contentezza di quei turcos è cosa impossibile. Ritornati in città raccontarono la cosa al loro superiore, il quale ne fu così tocco di ammirazione, che al domani venne all'Oratorio a ringraziare D. Bosco, con parole improntate della più viva riconoscenza, e con gentilezza veramente francese. Nello stesso tempo D. Bosco mandava il ch. Celestino Durando a raccogliere oblazioni presso molti sacerdoti e altri
distinti signori, per poter comprare un gran numero di libri istruttivi e dilettevoli scritti in lingua francese. Li portava egli stesso ai soldati o li faceva recapitare alle suore di carità, che servivano negli ospedali; come pure libri di religione in tedesco spargeva fra i soldati austriaci, raccolti e custoditi nel Convitto Ecclesiastico.
Per tutte queste ed altre ragioni i soldati della Francia, residenti in quel tempo tra noi, presero tanto affetto all'Oratorio, che quando ricevettero ordine di partire da Torino vennero a riverire D. Bosco e i loro maestri, mostrando colla pi√π profonda gratitudine una grande commozione. Parecchi di loro continuarono a lungo un carteggio epistolare con D. Bosco e con alcuni della casa, specialmente con D. Michele Rua, stato loro maestro d'aritmetica.
Intanto i liberali degli altri Stati d'Italia si agitavano secondando le istruzioni occulte di Napoleone III e di Cavour. Triste presagio degli avvenimenti preparati era stata il 22 maggio la morte per veleno del Re Ferdinando di Napoli. Il 9 giugno dopo un mese di agitazioni popolari e di incertezze la Duchessa di Parma, udite le vittorie degli alleati abbandonava i suoi dominii ove erano tosto innalzate le insegne Piemontesi. L'11 il Duca di Modena visto la ribellione di Massa e Carrara, tosto occupate dai soldati sardi, saputo che una divisione francese, dalla Toscana si avvicinava alla volta de' suoi Stati, se ne andò; e dopo un voto di unione al Piemonte, Re Vittorio vi spediva suo commissario per l'Emilia Carlo Luigi Farini. La divisione francese era comandata dal principe Napoleone, nimicissimo del Papa, mandato apposta per far stare a segna i fautori dell'ordine. Il 12 la rivoluzione scoppiò a Bologna, essendosi ritirati i mille austriaci ivi di guarnigione. Il Marchese Pepoli cugino di Napoleone III era capo del partito unionista. Armata la plebe, stabilitosi un Governo provvisorio, s'intimò al legato pontificio di partirsene.
Eziandio le legazioni di Ravenna e Ferrara abbandonate dalle truppe dell'Austria, eransi ribellate e tosto il ministero Piemontese mandava commissario in Bologna Massimo d'Azeglio.
A Perugia il partito dell'Unione col Piemonte, a capo del quale era Maria Bonaparte Contessa Valentini, cugina di Napoleone III, aiutato da una squadra armata venuta dalla Toscana scacciava il delegato e sottraeva la città dal dominio del Papa.
Ma il 20 giugno un reggimento papale di Svizzeri non ostante la difesa accanita degli insorti la ricuperò al legittimo Sovrano. In altre città dell'Umbria e delle Marche i settari avevano cercato commuovere le plebi, ma dopo questo fatto ogni casa ritornò alla calma.
Da qualche giorno anche in Lombardia era cessato pel momento il fragore delle armi, e in Valdocco si pregava per il Papa, pel Re, per l'esercito e per la pace. Ma quivi si alternavano anche le gioie e le feste delle quali l'affetto e la gratitudine erano il movente. Tale fu sempre il carattere dell'Oratorio. La divozione colla frequenza dei Sacramenti ne erano il principio ed il compimento. Si spandevano gli alunni fuori di chiesa e riempivano i cortili di canti, suoni, applausi e grida di contentezza. La poesia soprattutto adoperavasi a rendere più cari questi giorni che erano molto frequenti. Gli onomastici dei superiori, le onoranze ai priori nelle festività dei Santi Patroni, il titolare delle camerate, le gite che avevano per iscopo una solennità in qualche parrocchia, erano circostanze da accendere l'estro dei cultori delle muse. Noi raccogliemmo e conservammo più centinaia di quelle poesie essendo cara cosa ciò che rammenta gli antichi compagni. Alcune sono alquanto rozze, molte veramente belle, in tutte però c’è il cuore che parla.
Ma la pi√π solenne di queste feste, direi civili, era sempre quella dell'onomastico di D. Bosco. Per lui un seggio bene adorno a guisa di trono, cortile splendidamente illuminato, omaggio di graziosi doni, inno ogni anno diverso per argomento poetico e per musica, e composizioni di vario genere e in varie lingue. Dello slancio dei giovani in questo giorno avremo campo a parlarne ampiamente narrando i fatti degli anni successivi.
Alle feste che si facevano per D. Bosco si unirono poi le feste, che ciascheduna classe di studenti o di artigiani facevano ai proprii maestri in occasione degli onomastici. Ogni maestro rappresentava D. Bosco in mezzo ai giovani, che gli erano stati affidati, quindi non è a dire quanto giulive fossero queste parziali festicciuole. Un mazzo di fiori, un piccolo dono comperato per sottoscrizioni e che servisse di memoria, alcuni dolci, poesie e prose erano mezzi per legare sempre più i cuori. La scuola e il laboratorio in quel giorno, erano adornati con qualche addobbo, che copriva la cattedra o il banco. D. Bosco alcune volte interveniva, ma non come per regola ordinaria. La Comunione generale della classe era il principio della festa. Alla sera, una mezza vacanza e una piccola passeggiata col maestro, coronava la contentezza di tutti. La mezza vacanza, la passeggiata, la merenda e le sottoscrizioni furono però più tardi abolite per gli abusi che si erano introdotti. Il maestro quel giorno aveva occasione di rendersi padrone di qualche cuore che teneasi chiuso, di riavvicinare qualche alunno che si era alienato da lui, di incoraggiare un negligente che erasi lasciato perdere di animo promettendogli il suo aiuto speciale, di perdonare qualche mancanza a chi temeva, che questa avrebbe avuti risultati spiacevoli per lui al fine dell'anno. L'espansione degli alunni in questo giorno essendo più viva, facilmente si manifestavano e si dileguavano certe ombre, certe suscettibilità, certe gelosie, ed anche qualche disordine, che altrimenti sarebbe stato nascosto con danno dell'ordine e talora delle anime. Il fine pel quale D. Bosco permetteva queste dimostrazioni d'affetto e di riconoscenza era sempre la vita eterna. Tale fine si manifestava nelle espressioni dei giovani, nelle loro composizioni, e nelle loro promesse, tale nelle risposte del maestro ai loro indirizzi. Il maestro non mancava mai di raccomandare una buona confessione, e chiedere con affetto ai giovani che si mettessero in grazia di Dio, qualora non ci fossero. Diceva chiaramente, che se qualcuno avesse per disgrazia taciuto qualche peccato per rossore, andasse a confessarlo in quel giorno, perchè Gesù benedetto fosse da tutti consolato; e che per il maestro il pensare che un solo dei suoi allievi potesse in quel momento aver sopra il capo l'ira di Dio, era cosa da turbare ogni gioia più cara. I giovani intendevano come questo fosse il più bel regalo pel maestro e il bene che producevano allora le parole di chi li amava, Dio solo lo sa. Da ciò che si poteva conoscere era grandissimo eziandio per le vocazioni. I giovani restavano come elettrizzati e più d'uno, preso il maestro da parte, prima che tramontasse il sole: - Sono contento, sa, ma proprio contento.
La scuola a quei tempi era come un piccolo santuario, poichè, come adesso, la statua di Maria santissima era collocata sopra un altarino in faccia al Crocifisso e non le mancavano candele e fiori. Tutti i sabati al finire della lezione della sera si recitavano innanzi a lei le litanie, nel mese di maggio tutti i giorni le si faceva una piccola preghiera in comune, tutte le feste della Madonna erano annunziate dal maestro nella vigilia, con un'esortazione ad accostarsi ai Sacramenti. Allo stesso modo si annunziavano le feste principali dell'anno, perchè era notorio come D. Bosco non concepisse essere buona una festa, senza la confessione e la comunione. Non era una predica, sibbene un semplice annunzio di pochissime parole.
Da ciò che si è detto si può arguire come fiorisse l'ordine e quindi lo studio in tali scuole o in tali laboratorii, poichè anche i laboratorii avevano quelle costumanze. Per conseguenza dove regna la carità regnando la felicità, ne veniva che al fin dell'anno scolastico, benchè i giovani anelassero a ritornare coi parenti, tuttavia era per loro causa di pena distaccarsi dal proprio maestro.
 
 
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