Molestie giornalistiche.
del 07 dicembre 2006
Sebbene, guardate da noi a distanza, le noie dei giornali sembrino in genere cose di poca entità, realmente tuttavia a chi toccò di doverle subire non fu punto così. Anche questa sorte di tribolazione afflisse Don Bosco fin verso il termine della sua vita. E' vero che non ne rimase mai menomamente scalfita la sua riputazione e che anzi si avverò sempre il proverbio che chi sputa in alto gli ricasca sulla faccia; ma certo, e come prete e come padre di tanta e tale famiglia, dalla maldicenza stampata egli si sentiva ferito nel fondo dell'anima.
Andando per ordine cronologico, rivedremo prima le bucce a un periodicuccio umoristico, che si pubblicava a Torino ogni martedì, giovedì e venerdì. Intitolato Il Ficcanaso, bene o male, ma piuttosto male che bene esercitava il mestier suo d'impicciarsi nelle faccende altrui. Com'è naturale per simile genia d'intriganti, gli toccavano non rari infortuni sul lavoro, cioè a dire sequestri, processi, soppressioni; ma. questi casi alla fin fine si risolvevano in segnalati vantaggi, perchè gli procacciavan notorietà e gli acuivano intorno la curiosità del pubblico. Purtroppo era volterriano lo spirito, di cui si faceva bello; ma quarti buttano gli scrupoli dietro le spalle, quando si tratta di fogli umoristici, come se la voglia di ridacchiare giustifichi il darsi a sì detestabili letture!
E difatto questo fogliaccio vantava una tiratura da disgradare altre pubblicazioni periodiche di vero merito, e l'esserne portato in giro con nome, cognome e tutto il resto, era come un tempo il venir tirato per città a coda di cavallo.
Nel '76 questo giornalaccio in una delle solite peripezie dovette sospendere le pubblicazioni; ma le ripigliò ben presto nel giorno sacro a San Giuseppe. Or ecco che, appena risorto, diede a intendere abbastanza chiaramente che nel rinnovato programma, entrava il proposito di bersagliare Don Bosco; infatti nel breve giro di pochi mesi lo prese di mira tre volte. A modo suo spiattellò ai lettori la malvagia intenzione; poichè finse di avergli mandato dopo la sua rinascita un “cordiale saluto ” e d'averne avuto in cortese risposta che a fine di “corrispondere degnamente alla sua gentilezza ”, egli si proponeva di divenirne per il futuro “collaboratore straordinario  e “ compagno d'armi ”. Poi annunziava che la collaborazione sarebbe cominciata col narrare “ una lunga storia dell'eredità Succi ”; donde sarcasticamente si riprometteva che egli “ con soavità di stile ” e “ con squisita dolcezza” sacerdotale avrebbe parlato di molti pezzi grossi, avvocati, procuratori, amministratori, tutti immischiati in non sapremmo quale losca faccenda. A nome del pubblico il direttore ringraziava “ commosso di tanto favore ” e aspettava ansiosamente “ la storia di quella eredità ”.
Insinuazione maligna e null'altro; ma che afflisse amaramente il cuore caritatevole di Don Bosco. L'avvocato Luigi Succi, rapito da morte improvvisa nei primi giorni dell'anno innanzi, aveva lasciato il Servo di Dio in un brutto impiccio. Presso una Banca Don Bosco gli aveva prestato garanzia per il ritiro di lire quarantamila, e l'aveva fatto ben volentieri, sia perchè lo sapeva assai facoltoso, sebbene in quel momento non gli bastasse il numerario che aveva alla mano, sia perchè gli si sentiva obbligato a motivo di molti suoi benefizi. Giustizia voleva che gli eredi soddisfacessero essi all'impegno del defunto; ma, annaspando cavilli, si tirarono in dietro. Don Bosco dunque si vide in obbligo di far onore alla sua firma. Quanto poi e come l'avidità altrui siasi armeggiata intorno a quell'eredità, non importa a noi di sapere; basti dire qui che l'intenzione di colpire obliquamente Don Bosco nella riputazione, quasi avesse tenuto il sacco a grosse ruberie, non andò oltre quella subdola, ma inafferrabile insinuazione generica, sufficiente per altro ad accattargli discredito presso tanti lettori, che non erano in grado di conoscere tutto il retroscena nè di appurar il vero.
Il foglio torinese tornò a ingerirsi nelle faccende di Don Bosco un mese e mezzo dopo. Nel frattempo un clamoroso provvedimento fiscale l'avrebbe ridotto al silenzio, se non fosse ricomparso con altro titolo. Dal suo primo numero di Maggio si denominò La Lanterna del Ficcanaso; quanto al resto, nulla di mutato. In quei giorni Don Bosco trovavasi a Roma. Nel numero 2 dell'anno 1, 6-7 maggio, lo attaccò in due articoli, da cui estrarremo il succo del contenuto, buttando la scorza villana e blasfema del linguaggio. Il primo articolo s'intitolava: “Don Bosco a Roma ”. Vi si faceva una confusione di quelle, in cui cadono i giornalisti profani, quando scrivono di cose ecclesiastiche. Nel giornalismo non si era avuto sentore della sospensione di Don Bosco, tanta era stata la riserbatezza del Servo di Dio. Ora si spacciava la peregrina notizia che Don Bosco era stato allora sospeso addirittura a divinis e che per questo era corso a Roma. Per tre motivi, a detta del giornale, Monsignor Arcivescovo l'avrebbe sospeso dalla celebrazione della Messa: io Perchè aveva troppe aderenze a Roma; 20 perchè, valendosi di questo vantaggio, cercava di sottrarsi all'autorità del suo Pastore; 39 perchè turbava le coscienze dei fedeli per estorquerne eredità. E l'articolista rappresentava Don Bosco a Roma lavorante “ di schiena e di braccia ” per liberarsi dalla pena canonica inflittagli dal suo Ordinario diocesano ed ironicamente conchiudeva: “ Stavolta Monsignor Arcivescovo ha fatto una cosa a dovere e glie ne va data laude... Vedremo chi sarà più potente, se Don Bosco o monsignor Gastaldi ”. Quanto veleno!
Il secondo articolo intitolato “ Fanatismo loiolesco ” ha una parte centrale, che risponde perfettamente al vero; noi la riprodurremo tal quale è, omettendo la cornice dei commenti che, travisando i fatti, dicono villanie a Don Bosco e traggono in inganno gl'ignari lettori. Vi si narra dunque: “Tempo fa, tre messeri si presentano alla tipografia di San Francesco e chiedono di far pubblicare un opuscolo. Tutti sanno che la tipografia cammina per conto di Don Bosco. Questi accetta la commissione, fa i suoi patti, ritira il manoscritto. Tre giorni dopo i committenti si recano a vedere a qual punto fosse il libercolo. - Signori miei, loro dice Don Bosco, io domando mille scuse, uccidetemi se lo volete, ma ho abbruciato il manoscritto: e questa inspirazione mi venne da Dominedio. - E perchè? gli si chiese. - Perchè quello scritto non parlava troppo bene del nostro amatissimo arcivescovo -”. Altro che “opuscolo ” o “ libercolo ”! Un manoscritto di mille pagine almeno. Altro che “non parlar troppo bene ”! Vi si tesseva una biografia tale dell'Arcivescovo, che il volume avrebbe fornito un esemplare perfetto di libello infamatorio. Alla fine l'estensore dell'articolo confessava di non comprendere come mai i tre autori del distrutto manoscritto non avessero ricorso ai tribunali. La spiegazione era molto semplice: Don Bosco ne aveva placata l'auri sacra fames.
Un terzo assalto e con due attacchi simultanei venne dato da quelle colonne pochi giorni dopo nel numero del 9-10 maggio: attacchi mascherati entrambi, ma l'uno in un senso e l'altro in un altro. Il primo attacco non rivelerebbe l'obbiettivo reale, se non fosse del titolo che lo discopre, e il titolo dice così: “ Cose di Bra, ossia Un allievo di Don Bosco ”. L'allievo sarebbe un “ Don P., parroco a Bra ”; la fattispecie una captazione d'eredità. Ma Don Bosco non aveva nessun suo allievo parroco a Bra; se pure non si volle dare alla parola
 “ allievo ” una scelleratissima significazione: discepolo e seguace nell' arte di captare eredità.
Il secondo attacco muove apparentemente contro Don Bosco, ma in realtà puntando contro l'Arcivescovo. Si rifrigge con nuove empietà la gran notizia della sospensione a divinis; se ne ricantano i supposti motivi; di nuovo ci si aggiunge che moventi della grave misura fossero segreta gelosia del punitore e spietata concorrenza del punito in dare la caccia alle eredità. In fondo in fondo, come si vede, è sempre la medesima calunnia, la cui enormezza stessa la rendeva incredibile a chi conosceva il calunniato. Ma la calunnia conturba anche il saggio, come dice la Scrittura, quando pure non giunga sempre ad abbattere la forza del suo cuore. Grave motivo di afflizione era poi al Servo di Dio il vedere come con queste arti diaboliche si cercasse di renderlo inviso agli occhi di quel popolo, in mezzo a cui egli doveva esercitare il suo apostolato.
E fra il popolo aveva pure larga diffusione un altro giornalucolo umoristico, che già conosciamo dal volume precedente, il Fischietto, fattosi di nuovo a schizzar veleno contro Don Bosco e contro l'Arcivescovo nel suo numero 62 del 2 maggio. Un “ Fra Giocondo ”, nè frate nè giocondo, intingendo la penna nell'inchiostro dei volterriani ritardatari, e bestemmiando come un Turco, vorrebbe oracolare sulle misteriose origini dello “ screzio fra questi due grandi personaggi, oramai noto a tutti ” e di “ antica data ”. Facciamo grazia ai lettori degli spropositi sulla sospensione e delle insinuazioni simili a quelle vedute poc'anzi. Una novità si offre qui in pascolo ai lettori: Don Bosco penserebbe sul serio a levar le tende dalle rive della Dora per andarle a piantare sulla riviera ligure. Tanto si argomentava dalla festa celebratasi il 18 maggio a Sampierdarena in onore di Don Bosco reduce da Roma. Il Cittadino di Genova, dandone la notizia, accennava a “una specie di accademia di amor figliale, tenuta con soave solennità in un'ampia sala del nuovo e bellissimo caseggiato sorto come per incanto mercè il concorso generoso di vari benefattori ”. Su quello stelloncino di cronaca locale si ricamava l'informazione che Don Bosco, perseguitato a Torino, avesse pensato di cercare più tranquillo soggiorno in Liguria. Ma se questa partenza poteva far comodo ai nemici della Chiesa, che sembravano lavorare in combutta per iscalzarne il credito e forzarlo a cambiar aria, non entrava punto nei disegni della divina Provvidenza.
Una briga d'altra natura infastidì Don Bosco attraverso i giornali. L'inaugurazione della ferrovia di Lanzo, facendo parlare di lui più che egli non avrebbe voluto, gli arrecò quel disturbo. Bisogna ricordare il momento politico, caratterizzato dal recente passaggio del governo dalle mani dei conservatori a quelle dei democratici. I giornali di partito s'impadronirono dell'avvenimento lancese per rappresentarlo ognuno secondo il colore delle proprie tendenze. Ma la parte ivi rappresentata da Don Bosco fu guardata generalmente con simpatia tanto dagli organi di sinistra e di destra, quanto dai così detti indipendenti, che, come l'Unità Cattolica, professavano di non voler essere nè destri nè sinistri. La questione del settore parlamentare si faceva poi ogni dì più scottante, perchè si buccinava di prossime elezioni politiche. La concordia generale in presentare sotto luce favorevole il gesto di Don Bosco era segno che anche in quella congiuntura egli aveva tenuto fede al suo grande principio:  In politica, io non sono di nessuno. Tuttavia proprio da questo unanime consenso doveva scappar fuori una dissonanza.
E’ bene leggere prima gli encomi. L'Unità Cattolica dell'8 agosto riferiva: “ Al Collegio convitto dei Padri Salesiani era stato preparato sotto il portico elegantemente addobbato un bel rinfresco di vini bianchi e di vermouth per tutta l'immensa comitiva. La banda dei giovanetti di Don Bosco accompagnava una bella cantata d'occasione eseguita pure dagli allievi dei Salesiani, riscuotendo i più vivi applausi. I tre Ministri e il Prefetto visitarono il Collegio e ne fecero i più sentiti elogi”. L'Emporio Popolare, di principii cattolici anch'esso, il 7 agosto aveva detto: “ Debbo dire che lo stabilimento di Don Bosco ha avuto l'ammirazione di tutti e i più vivi e sentiti complimenti da tutti e tre i Ministri e dal Prefetto della Provincia. Bisogna dire che li merita sotto ogni rapporto, imperocchè è un'istituzione magnifica e perfetta ”. La Nuova Torino, foglio industriale, non certo clericale, nello stesso giorno pubblicava: “ Si fece una passeggiata fino al Collegio di Don Bosco. Quivi si trovava questo sacerdote, che accolse i visitatori cavalièrement e s'intrattenne a parlare a lungo coi Ministri Nicotera e Zanardelli ”. Perfino la Gazzetta del Popolo il 7 agosto scrisse: “ Al Collegio convitto era stato apparecchiato per cura del Municipio un bel rinfresco di vini bianchi e vermouth a profusione. Gli allievi del Convitto fecero una simpatica cantata e riscossero sinceri applausi ”. Nonostante le reticenze, non certo fortuite, questo poco era molto, data la pretofobia del foglio torinese che allora portava quel titolo.
La stonatura che dicevamo, trasse origine da un organo ministeriale, il Bersagliere di Roma, che più degli altri confratelli abbondò in commenti laudativi. Il passo discusso era questo, che si leggeva nel numero del 9 agosto: “ S'entra nel magnifico Collegio di Don Bosco, del miracoloso Don Bosco, che ha l'abilità di mantenere nei suoi varii istituti novemila fanciulli! E i fanciulli salutano con battimani e viva i Ministri. E Don Bosco è là in persona e stringe la mano a Zanardelli, a Nicotera, a Depretis. Sotto l'ampio colonnato che fronteggia una bella corona di monti cinerei il Don Bosco fa venire il vermouth ghiacciato. Eccellente! I fanciulli cantano, il concerto dei fanciulli stessi suona, e drappelli di questi fanciulli fanno gli esercizi militari. Non c'è prete che tenga. Qui l'educazione è maschia e il fanciullo si fa di macigno! In un momento dato, Don Bosco è il re della festa e siede in mezzo a Nicotera, a Zanardelli, al Presidente del Consiglio. Il più meravigliato di tutti è l'onorevole Zanardelli; si vede che non crede agli occhi suoi. Ma è così. Il miracoloso sacerdote che al vederlo pare un servo di sagrestia, accompagna sino al piazzale il Presidente del Consiglio. I due personaggi si stringono la mano, si fanno i complimenti con inchini e con parole di cordialità ”.
A questo punto saltò fuori la politica a guastar l'armonia. Una corrispondenza romana dell'Unità Cattolica, scritta in quel giorno stesso e pubblicata nel numero dell'11 diceva: “ Il [Nicotera] recossi nelle provincie settentrionali, che dicevansi la cittadella dei destri, ad accalappiare i minchioni, col fare il santusse con Don Bosco ed al Cottolengo, e il monarchico con Vittorio Emanuele... Bisogna leggere il Bersagliere di stamane, che è l'organo del barone napoletano, per trovarvi l'eco della divozione del proprio padrone; egli ce lo descrive che scende dal treno inaugurale di Lanzo e assiste alla sua benedizione, e poi si allinea col pio corteggio dietro il chierichetto portante la croce astile, egli che ieri solamente ha proibite tutte le processioni religiose, e quindi si sprofondò in complimenti a Don Bosco, il miracoloso sacerdote, e via via un mondo di simili sguaiatezze, che metterebbero nausea ad uno stomaco di bronzo ”.
Passò una settimana, ed ecco sul medesimo giornale comparire il 17 agosto un articolo, in cui lo scrivente, professandosi “ figlio affezionatissimo del sig. D. Bosco ”, si diceva “ assai mortificato dei mal composti elogi ” prodigatigli dal giornale romano; laonde nel timore che altri ne ricevesse “ una sinistra impressione sul conto dell'amatissimo suo benefattore ”, dichiarava “ esagerato ” quello scritto, contenendo esso “ poco di esatto ” e “ molto di falso ”. Indi scagionava Don Bosco dalla possibile accusa d'aver sprecato i denari “ in profani addobbi, in rinfreschi di vini per le Eccellenze Loro e comitiva ”. Ben altro uso egli avrebbe fatto delle “ dodicimila lire spese dal Municipio pel famoso déjeuner! ”. Infine conchiudeva: “ Se poi il signor D. Bosco nella sua squisita gentilezza abbia stretto la mano ai signori Ministri, io non so, perchè non mi trovavo presente; ma se così fu, sarebbe almeno desiderabile che le Loro Eccellenze gli si mostrassero non meno cortesi, e quindi gli porgessero potente la mano ad impartire a un numero ognor più grande di fanciulli quella saggia educazione, che non può mancare di essere maschia, perchè sinceramente cattolica ”. Fin qui la malaugurata corrispondenza romana.
Non è chi non vegga quanto d'inopportuno vi fosse in questa povera pubblicazione; ma peggiore dell'articolo fu il cappello premessovi dal redattore del giornale: “ Assai di buon grado pubblichiamo la seguente lettera che ci scrive un Salesiano, relativa agli elogi del Bersagliere sul conto di Don Bosco, a cui noi avremmo augurato pel giorno 6 di agosto una di quelle momentanee malattie, che in simili circostanze colgono sempre molto opportunamente i diplomatici, compresi anche i Nunzii Pontifici ”. Il direttore del giornale teologo Margotti che si trovava fuori di Torino, appena ritornato corse a far le scuse a Don Bosco, protestandogli che nulla sapeva prima che quelle righe venissero stampate. Perciò nel numero del 23 agosto, profittando di un'occasione, inserì la seguente noterella: “ L'Unità Cattolica è sempre piena d'affetto e di venerazione per Don Bosco, e sa che in ogni suo operare lo muove. solo la gloria di Dio, l'amore alla Chiesa ed al Papa e il desiderio di guadagnar anime a Gesù Cristo. Noi ci riputeremo fortunatissimi ogni qualvolta potremo favorire col nostro giornale le sue veramente apostoliche fatiche ”.
Conviene per altro notare che il disgraziato articolo, sebbene firmato “ Un Salesiano ”, era stato scritto, a quanto pare, da Don Giuseppe Persi, ospite dell'Oratorio come predicatore, ma non salesiano. Per dire tutto aggiungeremo che quello stringere la mano ai Ministri, messo ripetutamente in rilievo dall'organo ministeriale, urtò i nervi a qualcuno. Ma nessuna legge divina od umana vietava a Don Bosco dì fare quel che fece. In fin dei conti si trattava colà di Ministri del legittimo Sovrano; Zanardelli poi rappresentava il Principe Amedeo, che sarebbe dovuto intervenire, ma non intervenne, realmente impedito da una malattia diplomatica, secondochè appare dalla stampa di opposizione. Nè si può onestamente asserire che quella festa abbia avuto alcunchè di antireligioso. D'altro canto poteva Don Bosco rifiutarsi di aprire il suo collegio, con pericolo di gravissimi danni? E accettato l'invito, non doveva fare accoglienze. che fossero convenienti? A malattie diplomatiche egli non sarebbe mai ricorso, per non lasciare nelle peste i suoi giovani Salesiani, esposti a un incontro, nel quale soltanto la sua prudenza avrebbe saputo tener fronte a interrogazioni imprevedute, imbarazzanti e compromettenti.
Di quello sconclusionato articolo Don Bosco si mostrò assai scontento, e ne aveva ben donde. A chi ignorasse com'egli non fosse mai entrato in polemiche su giornali, poteva facilmente venir da pensare che lo scrittore avesse fatto la cosa per suo ordine e sotto la sua ispirazione, mentr'egli vi era assolutamente estraneo. Del polemizzare sui giornali egli ribadì allora un suo principio: - E’ questa la maniera di perpetuare i fastidi; si finisce sempre col malcontento di tutt'e due le parti; si fanno diventar grosse cose in se stesse piccolissime, e si palesa a tutto il mondo quello che dovrebbe restar segreto.
- Anzi in quel caso volle abbondare in precauzioni; poichè, per tagliar corto con le chiacchiere, non permise nemmeno che si desse alle stampe la poesia composta per l'occasione da Don Lemoyne e musicata dal Dogliani. Troppa diceva essere già stata la pubblicità sui fatti di Lanzo, troppe interpretazioni essersene date dai giornali; allora pertanto che si cominciava a tacere, non essere affatto conveniente tornar a gettare esca nel fuoco; tanto più che lo stampare la poesia poteva confermare la falsa opinione che quel ricevimento avesse avuto da parte sua carattere ufficiale e intendimenti politici.
Anche l'empio Secolo di Milano si occupò di Don Bosco in quest'anno. Erasi sparsa la voce che egli disegnasse di aprire un collegio sulle amene pendici di Cassine, comune del circondario di Alessandria. Ma la cosa non andava a genio a qualche anonimo settario, che sfogò il proprio malumore sulle colonne del giornale milanese. La popolazione cassinese invece, profondamente indignata, rispose per le rime all'importuno, trasmettendo al giornale una protesta con una fila lunghissima di sottoscrizioni. Poi volle dar pure a Don Bosco una prova tangibile dei propri sentimenti; a tal fine gli spedì un indirizzo, firmato da 1184 persone e accompagnato da una lettera del medico locale. Don Bosco fece visitare il fabbricato che si aveva intenzione di vendergli; ma due difficoltà vi si riscontrarono, perchè i Salesiani potessero andarvi. L'area del terreno latistante, essendo troppo limitata, non concedeva spazio sufficiente per i cortili interni; poi si prevedevano complicazioni per l'acquisto della casa che si sarebbe dovuta trasformare in collegio. Perciò dopo uno scambio infruttuoso di corrispondenza tutto fu messo in tacere.
Non garbava neppure a tutti che i Salesiani prendessero stanza nei Castelli Romani; quindi su due fogli liberali di Roma, La Libertà e La Capitale, videro la luce due corrispondenze da Albano che nella seconda metà di ottobre lanciavano il grido d'allarme, arzigogolando intorno al motivo di moda in Roma dopo il '70, intorno cioè a Bianchi e a Neri, come vi si distinguevano le due aristocrazie, secondochè accettavano i fatti compiuti o si tenevano in disparte. Il cardinal Di Pietro sulle prime ne rimase male; presto nondimeno si rasserenò, quando vide che era stato solo fuoco di paglia. E’ probabile che venisse dall'alto una parola efficace: il ricordo di Lanzo era ancora abbastanza recente. Nè andò guarì che si avverarono i pronostici di persona amica: “ I fanatici non diranno che V. S. è bianca, ed i Bianchi non troveranno nera la umanità e beneficenza cristiana ”
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