Come D. Bosco tenesse rigorosamente in freno tutti i suoi sensi - Mortificazione nel parlare, nell'ascoltare, nel lavorare - Magnifico elogio di Don Bosco scritto da Mons. Cagliero - Penitenze straordinarie e segrete di D. Bosco - Non le permette a' suoi alunni - Sue dolorose e continue malattie.
del 24 novembre 2006
Il contegno di D. Bosco rivelava sempre la sua grande modestia e mortificazione. Lo vedevi, diritto sulla persona, anche quando era inginocchiato. Seduto, non poneva mai una gamba a cavalcioni sull'altra; non appoggiava mai la schiena alla spalliera della sedia o del sofà: se non scriveva, teneva le mani giunte sul petto colle dita incrociate. Non fu visto mai cercare una posizione più comoda, o coricato sopra un sofà, se non quando vi fosse obbligato da grave malore. Sedendo il suo contegno era così dignitoso, che imponeva rispetto. Fu sorpreso le mille volte di giorno e di notte; fu anche spiato dalla fessura della porta mentre lavorava da solo, o meditava; e si dovette sempre ammirare la sua modestia, che maggiore non avrebbe potuto essere. Altrettale era il suo aspetto quando stava in piedi o passeggiava. Non appoggiavasi mai al braccio di un altro, eziandio nella più tarda età, se non quelle volte che, mancandogli le forze, minacciava di cadere. E così sostenevasi, ma solo per brevi istanti. Una sol volta in molti anni, dopo aver rifiutato il braccio che gli era offerto da chi lo vedeva strascinare penosamente i piedi, lo chiese e vi si appoggiò, perchè altrimenti sarebbe stramazzato sul selciato della strada. Però finchè potè , conserte le braccia dietro alle spalle, tenevasi da per sè  in equilibrio.
Che questi suoi atti fossero ispirati dalla virt√π della temperanza, ne sono prova le raccomandazioni a' suoi giovani di non trascurare le piccole mortificazioni cagionate dallo stare composti e modesti pregando, sedendo, studiando, passeggiando, e dal suo fermo proposito, praticato per tutta la vita e non mai trasgredito, di non concedere sollievo a' suoi sensi.
Confessava i giovani seduto sopra una semplice scranna, disagiato, sempre senza appoggio e colle braccia sospese per tenere coperta la sua faccia e quella del penitente col fazzoletto bianco. D'inverno tollerava quelle lunghe ore nell'ambiente gelato del coro o della sagrestia, e d'estate il fiato di tanti giovani che lo circondavano gli impediva quasi il respiro. Aggiungendosi alla moltitudine degli interni quella degli esterni non è a stupire che fosse tormentato da certi insetti che abbondavano. Ma egli sopportavali con indifferenza, senza fare atto di provare molestie.
Quando più tardi andava in riviera, in confessionale, veniva punzecchiato nella faccia e nelle mani dalle zanzare, e mentre i penitenti se ne liberavano col fazzoletto, D. Bosco lasciava che mordessero a loro piacimento; e poi scendendo a cena e scorgendo le sue mani coperte di punture, diceva scherzando ai Superiori della casa: - Vedete come le zanzare vogliono bene a D. Bosco! - Per questa causa un mattino uscì di camera col volto tutto gonfio e sanguinolento. Quanti lo incontravano lo compativano; ma quella faccia era sempre ilare.
Egli era pazientissimo nel sopportare i disagi delle stagioni, ed esortava i suoi figli ad accettarli dalle mani di Dio come fonte di meriti. Soffriva un freddo intenso ai piedi, eppure non volle mai usare dello sgabelletto calorifero.
Da tutti si notava costantemente la sua mortificazione nel parlare. Sempre moderato, conversava con calma, adagio e con dolce gravità. Evitava ogni parola inutile; aborriva dai discorsi profani, dai modi troppo vivaci, dalle espressioni risentite e concitate. Parlava poco, dando importanza ad ogni parola, la quale non cadeva mai invano, perchè istruiva sempre ed edificava. Se talora diceva qualche cosa di ameno o di arguto, per sollevare sè  o gli altri, ciò si permetteva con molta parsimonia e sempre condita con qualche pensiero al tutto spirituale. Teneva così a freno la lingua, che non mai scendeva a mordacità, ironie, nè  a facezie più o meno disdicevoli in bocca di un sacerdote. Non poteva soffrire le offese alla carità, e una delle sue più ripetute raccomandazioni era appunto quella di fuggire qualunque sgarbo nel gestire e nel parlare. Non permetteva che si facessero mormorazioni, e senza che gli interlocutori se ne avvedessero, destramente divertiva il discorso sovra altri argomenti. Discorreva anche a lungo nei casi di convenienza; ma quando non eravi particolare bisogno sapeva osservare il silenzio, specialmente per attendere alle sue occupazioni.
Temperantissimo si mostrava colle persone che, o per mal animo, o per errore, lo contrariavano o trattavanlo ingiustamente. In questi casi, quanto più erano aspre ed insolenti le espressioni dell'avversario, altrettanto più soavi e più mansuete erano quelle di D. Bosco. “Ricordo, dichiara Mons. Cagliero, che venuto un cotale a parlargli sulla scala con fare iroso e parole sconvenienti, vinto dalle sue risposte affabili e dai suoi modi cortesi, si calmò e gliene domandò scusa alla stessa presenza di noi giovani”. Talora, non potendo persuadere il suo oppositore, taceva affatto.
Questa sua temperanza animavalo eziandio quando riceveva lettere ingiuriose. Era solito a non rispondere o più ordinariamente ancora a rispondere con dolcezza. Quante volte contraccambiò gli insulti con benefizii!
A chi non sapeva tenersi abbastanza calmo nel rispondere, dava questo ricordo: - Non scrivere parole offensive: Scripta manent.
- Ve lo raccomando caldamente, - diceva con frequenza a' suoi; -evitate nel vostro parlare i modi aspri e mordaci: sappiatevi compatire gli uni e gli altri da buoni fratelli.
Un sacerdote stava per pubblicare un suo libro sull'istruzione e sull'educazione e a lui chiedeva norme e consigli. - Ti raccomando, - gli rispose, - una cosa in particolare: non offendere la carità. - E la sua temperanza è rispecchiata dai suoi scritti, dove tutto è calmo e limpido senza ombra d'acrimonia.
Frenava il naturale appetito di vedere e sapere cose che non gli appartenevano. Benchè avesse un gusto squisito per giudicare delle opere d'arte, non lasciavasi sedurre dalla curiosità di visitare monumenti, palazzi, pinacoteche, musei. In qualunque luogo si trovasse, gli occhi per lo più li aveva rivolti a terra, sicchè non iscorgeva le persone, anche quando lo salutavano. Era per lui mortificazione assai penosa il rinunziare alla lettura di libri che eccitavano il suo desiderio di scienze, letteratura o storia. Pure, per attendere alle opere di carità che la Divina Provvidenza gli aveva affidate, se ne asteneva quasi sempre, a meno che non gli fossero necessarie. Di rado leggeva o si faceva leggere giornali, e solamente in quelle occasioni che davano notizie di qualche fatto glorioso o doloroso per la Chiesa Cattolica, o che riguardavano direttamente le sue Istituzioni. Chiedeva però di quando in quando che alcuno gli riferisse le notizie principali del giorno, specie nei momenti dei maggiori trambusti politici, per dare ad altri un indirizzo nel giudicare certi fatti pubblici e per non esserne affatto ignaro nelle conversazioni, in cui per sua condizione doveva trovarsi. Tuttavia si vedeva apertamente che non aveva bramosia di sapere. Non ammetteva poi giornale che non fosse sinceramente cattolico; e raccomandava, insistendo, a' suoi allievi che si guardassero dalla vana curiosità di leggere libri o giornali che non fossero utili al proprio stato.
Non fiutava tabacco, quantunque ne avesse bisogno pel male d'occhi e pel continuo mal di capo; mali causati dal sangue che si portava alla testa in conseguenza delle sue assidue e gravi occupazioni. Consigliato dal medico a prenderne, ne conservava qualche po' in una scatola microscopica di carta pesta regalatagli da amici, nella quale a stento entravano due dita; ma o si dimenticava di aprirla, o ne prendeva di raro alcuni grani. Il più sovente si contentava di avvicinarla al naso per sentirne l'odore e risvegliarsi, sollecitando lo starnuto. Servivasene nelle conversazioni e nei viaggi per farsi degli amici, come egli diceva, offrendone, quando la convenienza lo indicava, a compagni viaggiatori e aprendosi così la strada ad intavolar discorso; specialmente per dire qualche buona parola ad alcuni che erano di poca religione. Perciò talora la scatola gli servì di esca per pescare anime a Dio. Qualche rarissima volta ne offriva ad alcuno de' suoi giovani, cui diceva: - Prendi; questo caccia via tutti i cattivi pensieri. - Ed era così poco il consumo di quel tabacco, che il Teologo Pechenino il quale glielo forniva, riempivagli quella tabacchiera una sol volta all'anno. Se poi qualcun altro gliene offriva, egli scherzando ne intingeva il dito mignolo e ne fiutava il pollice. E intanto raccomandava a' suoi alunni di non usare tabacco senza il prescritto del medico e vietava assolutamente a tutti l'uso del fumare, sino a porre quest'abito come impedimento per essere ricevuto nell'Oratorio e nella Congregazione.
Non odorava mai fiori. Se un ragazzo gliene offriva qualcuno, lo accettava e gradiva; e sorridendo avvicinavalo al naso contraendo le narici, e alitandovi sopra invece di aspirarne la fragranza; quindi esclamava: - Oh che prezioso odore, che gradevole profumo ha questo bel fiore! - Lo stesso atto faceva ricevendo in dono, da persone benevole, un mazzo di fiori, per compiacere chi glielo offeriva; e lo mandava tosto in chiesa all'altare della Madonna.
Amante della mondezza, nel lavarsi non usava saponette, e soleva raccomandare ai chierici, ai sacerdoti ed ai coadiutori di non usare profumi, buoni solo per la vanità.
Così pure non prendeva bagni, neppure nel più caldo dell'estate, e raramente vi si rassegnò solo per ordine dei medici. Si privava delle passeggiate di semplice svago, mentre gli erano raccomandate tutti i giorni per il grande giovamento che ne avrebbe ricavato la sua malferma salute. Ma egli fedele alle risoluzioni prese nell'ordinazione del presbiterato, se usciva di casa era per visitare un infermo, per recarsi a qualche ospedale, per trovare soccorsi a' suoi figli. Oppure usciva per cercare un nascondiglio dove dar corso alla corrispondenza ed alla composizione delle opere che andava pubblicando; effetto che difficilmente avrebbe potuto ottenere nell'Oratorio, assediato com'era dalle udienze. Ed uscendo si faceva accompagnare da alcuno de' suoi coadiutori o giovanetti, conversando di cose utili od istruttive.
Viaggiando, la sua mente non riposava mai; correggeva bozze di stampa, leggeva e postillava lettere per le risposte, pregava, o meditava.
“Un giorno, narrava D. Rua, io doveva accompagnarlo nel convoglio da Troffarello a Villastellone. Mentre ci avvicinavamo alla stazione, il fischio del vapore ci avvisò della sua partenza. D. Bosco, senza per nulla scomporsi, trasse di tasca un grosso quaderno, si mise in cammino a piedi e colla matita in mano non alzò più gli occhi da quei fogli fino all'arrivo a Villastellone. Là giunti mi disse: - Proprio vero che tutte le disgrazie non vengono per nuocere; se noi avessimo raggiunto il convoglio, non avrei potuto correggere tutto questo volumetto. Così sono riuscito a finirlo e di quest'oggi potrò mandarlo alle stampe. - Così soleva far sempre ne' suoi viaggi; e quando la vista più non glielo permise, entrava con maggior frequenza in discorsi edificanti.
Si sarebbe detto un conforto qualche scampagnata nella quale accompagnava i suoi giovanetti, oppure le passeggiate che faceva con essi nei primi anni dell'Oratorio sulle colline circostanti a Castelnuovo. Ma se per gli altri riuscivano un sollievo, per lui diventavano una fonte di serie preoccupazioni, fatiche e grandi sollecitudini, dovendo pensare a tutto ed a tutti. Ma approdavano ad una vera missione tanto per gli alunni, come per i paesi in mezzo ai quali passava.
Si privò sempre di ogni sorta di divertimenti, e non prese mai parte a feste pubbliche di pura ricreazione, spettacoli anche onesti, riviste militari, illuminazioni, ingressi di principi in città, ancorchè più volte fosse invitato e sollecitato ad intervenire. Mortificatissimo come era negli occhi, mentre permetteva i fuochi artificiali per divertire i giovani, egli se era in cortile non vi badava, se in camera non usciva sul balcone. Pregato di venir ad assistervi, si scusava dicendo che le sue pupille non reggevano a quelli sprazzi di luce troppo viva, e che gli dolevano. Ci ricordiamo che una sera nella quale tutto l'interno dell'Oratorio era artisticamente illuminato, egli stette per più di un'ora vicino alla finestra acciocchè i giovani lo vedessero, ma volgendo sempre le spalle e il fianco a quel lato ove più intrecciate e varie erano le fiammelle. Qualche volta lungo l'anno interveniva alle rappresentazioni drammatiche dell'Oratorio; ma egli a ciò s'induceva per istruire e rallegrare i suoi giovani, per dare loro una soddisfazione, per animarli allo studio, per dimostrar loro che la pietà non è nemica dell'onesta allegria, per tener compagnia e fare onore alle persone di riguardo che invitava; ma non prendeasi spasso. Si compiaceva, applaudiva, ma noi notavamo che il suo sguardo tranquillo non fissava la scena e gli attori. Del resto, quando non era richiesta la sua presenza, preferiva ritirarsi nella solitudine della sua cameretta.
Era ammirabile il pieno dominio sulle passioni e la padronanza sopra il suo cuore, moderando gli affetti di simpatia, di sensibilità, come pure di collera e di avversione, in guisa da assoggettarli sempre alla retta ragione, agli insegnamenti della fede, e dirigerli alla maggior gloria di Dio. Quanti lo conobbero da vicino, dovettero ammirarlo. Infatti una vita così straordinaria e grave riusciva a lui così spontanea, che avrebbe provato una gran pena a fare altrimenti. Erano abiti che egli possedeva in grado eroico.
Ora un cenno alle sue occupazioni. Non fu mai visto un momento ozioso. Parlando egli della fatica e del lavoro e rispondendo a chi domandavagli come potesse resistere, diceva: - Iddio mi ha fatta la grazia che il lavoro e la fatica invece d'essermi di peso, mi riuscissero sempre di ricreazione e di sollievo. - Nel 1885 per l'importanza e la moltitudine delle lettere che richiedevano una risposta di suo pugno, stava chiuso in camera da mane a sera per più settimane. Fu interrogato: - È possibile che lei non rimanga annoiato, da questa stucchevole occupazione, senza uscire a respirare un po' d'aria più salubre? - Vedi, rispose: io ciò faccio col maggior gusto del mondo. Non vi è cosa che più mi piaccia di questa.
E così rispondeva in tempi diversi, se era compatito ora per le confessioni interminabili, ora per le predicazioni, per le lotterie, per le stampe, per altre sue svariate preoccupazioni: - Non vi è cosa che più mi piaccia di questa.
“Nel patire, scrisse D. Bonetti, provava una grandissima gioia, che apparivagli ancora sul viso, e perciò non tralasciava mai dall'intraprendere, nè  desisteva da un lavoro per disgustoso e faticoso che fosse, dando a divedere che provava maggior pena nel tralasciarlo che nel proseguirlo”.
Scriveva Mons. Cagliero: “Io e tutti i miei confratelli siamo persuasi che il nostro caro padre, quantunque gelosamente occultasse all'esterno le sue mortificazioni, astinenze e penitenze, sino a sembrarci la sua virtù ordinaria e comune a qualunque sacerdote esemplare, e non atterrisse nessuno, anzi infondesse in altri coraggio e speranza di poterlo imitare, tuttavia riunendo insieme la sua cagionevole salute, gli incomodi nascosti, il distacco dai beni della terra, la durissima povertà, specialmente nei primi venticinque anni del suo Oratorio, la scarsezza di cibo, la privazione di spassi, sollievi, divertimenti e di ogni agiatezza, e sopratutto le fatiche continue di mente e di corpo; possiamo affermare con tutta verità che D. Bosco abbia menata una vita così mortificata e penitente, quale non conducono che le anime giunte alla più alta perfezione e santità. E tutte queste mortificazioni in lui erano così facili e naturali, che ci persuasero il servo di Dio aver posseduta la virtù della temperanza in grado eroico”.
Giusta questa affermazione di Mons. Cagliero, e noi abbiamo argomento per essere persuasi che D. Bosco praticasse eziandio penitenze straordinarie. Abbiamo incominciato a congetturarle quando un giorno ci disse, che per ottenere dal Signore qualche grazia segnalatissima e necessaria aveva dovuto ricorrere a mezzi proporzionati e che aveva conseguito il suo fine. Non volle però direi, per quanto lo pregassimo, quali fossero questi mezzi. Non è da tacersi come egli, così composto in ogni atto della sua persona, alzasse di quando in quando leggermente le spalle, come se avesse ai fianchi qualche oggetto che gli recasse molestia o dolore. Un piccolo cilicio pungente, che non avesse da far sospettare l'uso al quale era destinato, ci voleva poca arte a formarlo; e D. Bosco aveva un'epidermide molto delicata. E questa nostra opinione, non l'abbiamo smessa per trenta e più anni continui. Carlo Gastini, rifacendogli il letto, un mattino trovò sparsi sopra il materasso, e coperti dal lenzuolo, alcuni pezzi di ferro, che certamente erano stati dimenticati da D. Bosco nella fretta di alzarsi per andare in chiesa. Il giovane non pensò più in là e, posti i ferri sul tavolino, non ne fece parola a Don Bosco. L'indomani più non vide quei rottami e più non comparvero nei varii mesi nei quali continuò a porre in assetto quella stanza. D. Bosco non gliene fece motto, e solo dopo molti anni Gastini riflettè  su quegli strani ordigni, e capì a quale uso avessero dovuto servire. “Furono altra volta, narra Mons. Cagliero, trovati su quel letto alcuni ciottoli e pezzi di legno”. Aveva dunque trovato D. Bosco il modo di tormentare di notte il suo già affranto corpo, e rendersi penoso quel poco sonno.
Dubitando però che qualcuno potesse aver scoperto quel segreto, messosi più attentamente sull'avviso, egli stesso ben di sovente ricomponeva il suo letto, scopava e assestava la sua camera, e spolverava le povere masserizie. Giuseppe Brosio lo sorprese un giorno in questa faccenda e D. Bosco gli trasse una bellissima morale riguardo ad una camera ben ordinata; ma Brosio osservò eziandio con sorpresa che solo in simili circostanze sovente la porta era chiusa a chiave.
Le maggiori austerità però sembra che le riservasse per quando andava a passare qualche giorno presso i suoi più insigni benefattori, ove la vastità degli edifizii e la lontananza della camera assegnatagli da quelle della famiglia de' suoi ospiti gli dava maggior sicurezza contro le investigazioni indiscrete. Egli accettava talora l'invito di una veneranda e nobile matrona, e si recava alla sua villeggiatura, sempre tranquillo e sempre gioviale. Ora una persona della famiglia a notte avanzata, forse nel 1879, attraversando la sala nella quale metteva la porta della camera ove era D. Bosco, udì per entro un rumore sordo, monotono e prolungato come di colpi. Sospettò, ma non ne fece parola ad alcuno: si mise in vedetta, e constatò ripetersi quel fenomeno ogni volta D. Bosco era ospitato, e si convinse, che imitando D. Bosco S. Vincenzo de' Paoli, ottenesse dal Signore moltissime grazie. Avendo dopo alcuni anni confidata la cosa ad alcuni altri signori, soliti ad accogliere D. Bosco, seppe che essi pure avevano fatta la medesima osservazione, ed erano persuasi che il servo di Dio si desse la disciplina. Tuttavia, prudenti e cortesi, nessuno fece mai a lui cenno di questa scoperta. Ed egli teneva gelosamente celate certe sue penitenze, sia per umiltà, sia perchè non era questo l'esempio che voleva lasciare a' suoi Congregati. Non erano pratiche che solesse raccomandare, e cogli stessi suoi penitenti era tutto bontà e compassione.
La stessa mentovata persona soleva giovarsi di lui per il sacramento della Confessione e gli chiese un giorno permesso di potersi infliggere qualche penitenza corporale, come avevano fatto certi santi di cui aveva letto la biografia. Era dessa di una costituzione molto delicata e cagionevole. D. Bosco non approvò ciò che gli domandava, e alle sue insistenze per conoscere il modo onde ricopiare in sè  i patimenti di Nostro Signore Gesù Cristo, rispose: - Oh vedi! Mezzi non mancano. Il caldo, il freddo, le malattie, le cose, le persone, gli avvenimenti... Ce ne sono dei mezzi per vivere mortificati!
Eziandio a' suoi giovani vietava che si dessero ad austerità troppo rigorose, osservando come il demonio stesso talvolta suggerisca per i suoi fini tali straordinarie penitenze. Quando qualcuno di questi suoi alunni o penitenti gli domandavano licenza di fare digiuni prolungati, oppure dormire sul nudo terreno, o praticare altre mortificazioni penose, egli soleva commutarle in mortificazioni degli occhi, della lingua, della volontà e in esercizii di carità. E tutt'al più permetteva che lasciassero la merenda o una parte della colazione. Del resto andava ripetendo: - Miei cari giovani! Non vi raccomando penitenze e discipline, ma lavoro, lavoro, lavoro!
E questa sua mortificazione, continua, laboriosa, tranquilla, appare non solo eroica ma quasi sovrumana, riflettendo che egli era soggetto ad infermità che lo tormentarono per tutto il tempo del suo vivere senza concedergli tregua, e che egli sopportò con una fortezza da santo. Fin dal principio del suo apostolato gli accadeva di sputar sangue, malanno che di quando in quando si rinnovava, per cui i medici gli avevano prescritto di fare immancabilmente tutti i giorni una passeggiata, perchè diversamente la sua vita non sarebbe durata lunga. Dal 1843 incominciò ad avere male agli occhi con bruciore, causato dalle lunghe veglie e dal continuo leggere, scrivere e correggere stampe, e questo male crebbe lentamente fino al punto da rendergli spento l'occhio destro.
Nel 1846 gli si diffuse nelle gambe una leggera enfiagione che si accrebbe di molto nel 1853, producendogli dolori ed estendendosi ai piedi; e gli si andò sempre crescendo di anno in anno, sicchè negli ultimi tempi stentava a camminare, e fu costretto a far uso di calze elastiche. Inabile a scalzarsi da sè , era mestieri che qualcuno gli rendesse questo servizio. Chi si prestava a questo atto di figliale carità, si meravigliò come la carne gli si piegava sopra l'orlo delle scarpe, e non sapeva come egli potesse resistere a stare in piedi tante ore. Questa gonfiezza dolorosa D. Bosco era solito chiamarla bellamente: la sua croce quotidiana.
Simultaneamente era bene spesso tormentato da forti mal di capo, in guisa da parergli che il suo cranio si fosse dilatato, come egli stesso qualche volta manifestò a D Rua; e Don Berto constatò tale sollevamento. Anche atroci dolori al denti gli duravano, molte volte, più settimane, e ostinate insonnie non gli concedevano riposo.
Aggiungi una palpitazione di cuore, che gli rendeva difficile il respiro e parve perfino che una delle sue coste avesse ceduto a quell'impulso.
Negli ultimi quindici anni della sua vita agli antichi si aggiunsero malori nuovi. Tratto tratto era visitato dalle febbri miliari con frequenti eruzioni cutanee. Sull'osso sacro gli si era formata un'escrescenza di carne viva della grossezza di una noce, sulla quale sedendo o posando in letto il corpo ne risentiva grande pena. Di questa tribolazione non fece mai parola con alcuno, nè  cercò punto di liberarsene manifestandola al medico, che avrebbe potuto rimediarvi facilmente con un piccolo taglio; ma egli non volle per amore della modestia cristiana. Coloro che gli stavano attorno da anni ed anni si accorgevano che pareva soffrisse stando seduto, e avendolo interrogato, egli si contentò di rispondere: - Sto meglio in piedi o passeggiando. Lo star seduto mi reca molestia. Eppure continuò ad usare una semplice scranna di legno. Infine negli ultimi cinque anni l'indebolimento della spina dorsale lo costrinse a curvarsi sotto il peso delle sue croci.
Con tanti incommodi, pei quali un altro nelle sue condizioni si sarebbe dato infermo o si sarebbe astenuto da qualsiasi lavoro, egli non rallentò mai il suo solito passo da gigante nell'intraprendere e compiere le sue meravigliose imprese. Crescendo le difficoltà e le malattie, egli aumentava il coraggio, dicendo: - D. Bosco fa quello che può! - E potè  tanto che le opere del suo zelo si estesero per tutta la terra.
E tutto ciò senza mai lamentarsi delle sue tribolazioni, senza mai dar indizio della menoma impazienza, a segno che sempre di buon umore e faceto, pareva godesse ottima salute. Col suo aspetto abitualmente giulivo e sorridente, e colle sue amene ed edificanti conversazioni infondeva coraggio ed allegria in quanti a lui si avvicinavano, e tutti rimandava consolati.
Quantunque ritenesse la vita per un dono di Dio ed amasse di vivere lungo tempo per lavorare alla sua maggior gloria, tuttavia pensava sempre con piacere al giorno della morte che gli avrebbe aperto le porte del cielo. Per questo suo desiderio non pregò mai per la propria guarigione, lasciando che pregassero gli altri per esercizio di carità. I medici che venivano regolarmente a visitare gli ammalati, specialmente il dottor Gribaudo suo compagno di scuola, quando sapevano che era molto oppresso e pareva venir meno, lo esortavano ad aversi qualche riguardo. Egli ben di rado dava importanza al loro consiglio o si atteneva ad alcuna delle cose ordinate, e rispondeva: Ma, se sto bene: io non ho bisogno di tanti riguardi! Ed entrava in argomenti di medicina, sicchè i dottori dicevano che quando si trovavano con D. Bosco dovevano sempre subire un esame.
Nelle malattie dichiarate non si consegnava mai nelle mani dei medici, se non era costretto da chi gli comandava; e allora stava alle loro prescrizioni, ma dimostravasi indifferente al miglioramento, o al peggioramento. Anche allora però, se un motivo di carità o di religione obbligavalo ad un lavoro o ad un viaggio, si cimentava coraggiosamente, fosse pur anco contro il parere dei dottori, ben lieto di lasciar la vita per la Chiesa e per le anime.
In queste pagine abbiamo recato le testimonianze di varii nostri confratelli, anticipando di pi√π anni la loro comparsa sulla scena dei nostri racconti. Ma era necessario che i lettori avessero sott'occhio, ad ogni istante e in ogni circostanza che saremo per esporre, la vita costantemente mortificata del nostro ammirabile fondatore.
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