La battaglia di Solferino - D. Bosco predice imminente il trattato di pace - Ristampa della Storia d'Italia - Lettera del Sindaco di Torino che ne accetta una copia in dono - Letture Cattoliche: LA VITA DE' SOMMI PONTEFICI S. PONZIANO, S. ANTERO E S. FABIANO - Un figlio prodigo ricondotto da D. Bosco alla casa paterna - Suoi consigli ad un giovanetto sul modo prudente di leggere certi libri
del 29 novembre 2006
I chierici dell'Oratorio avevano finito il corso annuale dei loro studii. Dal 1859 in poi esistono nei nostri archivii i voti dei loro esami subiti nella sala del Seminario di Torino e da questi registri risulta come essi si dedicassero con diligenza allo studio della filosofia e della teologia. Il 23 giugno alla sera si festeggiò D. Bosco, e all'indomani S. Giovanni Battista; ma sul tramontar di quel giorno le prime notizie di una spaventosa battaglia mutarono la gioia in dolore.
Il 23 gli Austriaci, ripigliata l'offensiva, erano passati sulla riva destra del Mincio e per centri di loro azione avevano fortificato Solferino e S. Martino. Nello stesso tempo gli alleati traversavano il Chiese. Il 24 si attaccava la battaglia. Per quattordici ore 274.000 uomini combattevano senza posa. La sorte delle armi piegava in favore dei Franco - Sardi rimasti in possesso delle contestate alture, quando una orribile bufera di vento, tenebre paurose, pioggia torrenziale, grandine con rimbombo di tuoni e scoppio di folgore, faceva tacere il frastuono di settecento cannoni e poneva fine alla pugna. I campi, narra Cesare Cant√π, erano seminati di quasi 40.000 soldati o morti o feriti, fra i quali 13.000 Austriaci, e di 1500 ufficiali con tre marescialli.
Nell'Oratorio temperarono l'impressione dolorosa di tante morti, le preghiere e le comunioni colle quali Don Bosco volle suffragate le anime del Purgatorio, e la festa in onore di S. Luigi Gonzaga solennemente celebrata il 29 giugno. Era priore il Sig. Delponte Giovenale. Un inno a lui dedicato, ed in onore al santo Patrono della giovent√π, fa palese quale distinto poeta fosse il Ch. Bongiovanni Giuseppe.
Le famiglie intanto o piangevano i loro cari morti in battaglia o trepidavano sulla sorte dei sopravvissuti. La guerra pareva dovesse ancor durare. Le truppe alleate avevano passato il Mincio ed erano accampate in vista di formidabili fortezze, che non si potevano vincere senza lunghi assedii. Presso a Verona tutti prevedevano un'altra battaglia, sanguinosa come quella di Solferino. Le navi francesi erano entrate nell'Adriatico unendosi ad Antivari colla flotta sarda. Il 10 luglio era fissato per dare l'assalto a Venezia. In mezzo a tanta generale trepidazione D. Bosco prediceva la pace. Così ci scriveva la Contessina Suor Filomena Cravosio.
“ Nell'anno 1859 mentre ferveva la guerra in Lombardia, una sera la mia povera madre, che aveva nell'esercito un figlio ed anche un fratello già ferito, col cuore affranto dal dolore e collo spavento del temuto avvenire dipinto sul volto, mi pregò di accompagnarla da D. Bosco. Quella volta, cosa straordinaria, D. Bosco ci fece introdurre nel refettorio dove aveva appena finito di cenare co' suoi preti, che lo circondavano ancora. Più lungi seduti chi sul tavolo, chi su rozza panca, alcuni allievi si esercitavano nel canto colle carte di musica in mano. Di tanto in tanto un ragazzetto si avvicinava per dire all'orecchio di D. Bosco una breve paroletta, alla quale D. Bosco rispondeva colla medesima segretezza. Dopo averci salutate con pochissime parole e fatte accomodare vicino a lui, parlò di cose indifferenti, ma di quando in quando dava a mia madre un'occhiata piena di espressione. Quando tutti i preti furono usciti dal refettorio disse a mia madre: - Signora Contessa, io so tutto ciò che ella vuol dirmi, ma faccia cuore (abbassando il tono della voce). Questa notte stessa Napoleone farà la pace e la guerra sarà finita.
” E mia madre: -Ma questo è impossibile! Ella dice così per consolarmi, ma i fatti sono ben diversi.
” All'indomani circa le ore sette del mattino mia madre ed io ci recavamo alla chiesa di S. Dalmazzo per udire la Messa e attraversando la via Garibaldi allora detta Dora Grossa, sentimmo gridare dai venditori dei fogli: - Pace di Villafranca conchiusa stanotte fra l'Imperatore Napoleone, Vittorio Emanuele e l'Imperatore Francesco II d'Austria.
” Dopo la messa fummo nuovamente da D. Bosco, che nel cortile ci venne incontro e disse per il primo: - Ringraziamo il Signore che i patti sono stati accettati. - E ci condusse nella cappella dove pregammo un poco ”.
Che cosa era adunque accaduto? La Contessa Cravosio aveva parlato con D. Bosco la sera del 6 luglio verso le 8. Napoleone III si trovava a Villafranca suo quartier generale; era sbigottito dalla carneficina vista a Solferino e preoccupato per notizie venute dalla Germania, che lo avvisavano essere pronte alcune Potenze a muoversi in aiuto dell'Austria. Questa stessa sera verso le 9, essendo a tavola, faceva chiamare il Generale Fleury e, dategli alcune istruzioni, gli consegnava una lettera colla quale domandava una sospensione d'armi al Sire Austriaco. Il Generale entrava in Verona alle dieci e mezzo. L'Imperatore Francesco Giuseppe era a letto e si andò a svegliarlo. Vestitosi in fretta, il Generale Fleury fu introdotto alla sua presenza. Nel leggere la lettera di Napoleone l'emozione e la sorpresa si dipinsero sopra il suo viso, e ascoltate le spiegazioni a voce espostegli dal Generale, dichiarò che erano giuste, e all'indomani acconsentiva alle proposte. L'11 luglio i due imperatori s'incontravano a Villafranca, convennero nelle condizioni, e la pace era fatta.
Ed ecco le condizioni: “ Cessione della Lombardia all'Imperatore di Francia, che l'avrebbe rimessa al Re di Sardegna: Mantova, Roccaforte e Peschiera restavano all'Austria.
” Conservazione della Venezia sotto il dominio Austriaco, che però entrerebbe in una confederazione di tutti gli Stati italiani sotto la presidenza Onoraria del Papa.
” Non si impedirà il ritorno dei principi spodestati nei loro dominii e si aumenteranno i possessi del Granduca di Toscana.
” Amnistia generale da una parte e dall'altra.
Non una parola delle Legazioni e del Duca di Parma.
Questa convenzione fu poi sancita a Zurigo il 10 novembre 1859 e davasi anche facoltà alle corporazioni religiose lombarde di disporre dei loro beni, quando le leggi dello Stato sotto cui passavano, non ve le mantenessero in possesso. Ma di tutte queste condizioni furono osservate quelle solamente che riguardavano la cessione delle terre lombarde e dell'amnistia. Tutte le altre rimasero lettera morta.
Il 15 luglio il Re e Napoleone III entravano in Torino accolti con grande apparato di feste e l'Imperatore partiva tosto per Parigi accompagnato dal Re fino a Susa.
Ma nè la guerra, nè la pace potevano in nessun modo influire sull'attività di D. Bosco. Nel mese di giugno aveva fatto stampare da Paravia con qualche aggiunta la seconda edizione della sua Storia d'Italia in 2500 copie. Giova ripetere come in questo libro narrasse l'origine del potere temporale dei Papi e ne sostenesse il diritto, e ne dimostrasse i vantaggi: e faceva dono di molti esemplari a personaggi cospicui del clero e del laicato. Fra gli altri il Sindaco di Torino ringraziandolo in questi termini:
CITTA' DI TORINO.
Torino, addì 16 luglio 1859.
 
Il pregievole dono teste fatto dalla V. S. Ill.ma della Storia d'Italia raccontata alla gioventù dai suoi primi abitatori fino ai giorni nostri, la rende meritevole di vera gratitudine per parte di codesta Civica Amministrazione; ed il Sindaco sottoscritto è ben lieto di farsene presso di Lei interprete, nell'atto che Le rassegna anche i più sentiti ringraziamenti per la di Lei cooperazione nell'attuazione di una pubblica Biblioteca Municipale che ridonderà a vantaggio sicuro della popolazione di Torino.
Gradisca gli attestati del predistinto ossequio di chi si pregia di protestarsi
Di V. S. Ill.ma
D. O. servitore
Il Sindaco NOTTA
 
Nella metà di luglio avevanlo occupato, gli esami, le premiazioni, le pagelle dei voti, le pubbliche estrazioni e le private ai singoli alunni che erano chiamati dai parenti alle loro case per le vacanze.
Sul principio del mese, coll'aiuto del giovane Chiala, Don Bosco aveva pubblicato pel mese di luglio il fascicolo anonimo delle Letture Cattoliche che portava il titolo: Antonio e Ferdinando, ossia il trionfo dell'innocenza. Racconta di uno studente, figlio di poveri artigiani, che percorre splendidamente la carriera degli studi, contristato però dalla prepotenza di un suo emulo di famiglia nobile, al quale sono concessi que' premii che a lui erano dovuti. Soccorso da uno sconosciuto benefattore, che poi si scopre essere il Ministro dello Stato, riesce a conseguire la laurea di avvocato, che egli onora col respingere le insidiose promesse di chi voleva farlo istrumento di ingiustizia, il calunniato, è chiuso in carcere, ma infine la verità si fa palese, e gli è conferita una carica importantissima e lucrosa. Il racconto prova che la Divina Provvidenza permette talvolta, che la nostra vita sia oppressa dai tristi, ma quando meno lo crediamo ella viene in nostro aiuto. La virtù è ricompensata anche nella vita presente, cui certamente terrà dietro una eterna mercede nella patria dei beati.
Pel mese d'agosto l'opuscolo preparato era: La Vita dei Sommi Pontefici S. Ponziano, S. Antero, e S. Fabiano per cura del Sac. Bosco Giovanni.(H). Era lavoro tutto suo. Colla storia di questi Papi che versarono il sangue per la fede, descrive la conversione, la vita santa e il martirio di Ponzio senatore romano, il battesimo dell'Imperatore Filippo e di suo figlio e la sommissione di Origene alla Chiesa.
Ultimate le correzioni di questo opuscolo D. Bosco andava a S. Ignazio dove egli avrebbe ritrovata una pecorella smarrita della quale da vari anni andava in traccia.
Un giovanetto di nome Francesco D... d'ingegno svegliato, studente di ginnasio aveva frequentato l'Oratorio di Valdocco. Egli apparteneva ad una famiglia ricca di censo e di virtù. Suo padre e sua madre gli avevano infuso nel cuore il santo timor di Dio e D. Bosco secondava le loro premure raccomandando al giovane un'esatta obbedienza ai suoi genitori. Francesco non aveva segreti per lui. Ritornando a casa dall'Oratorio si dilettava di narrare quanto D. Bosco aveva detto e fatto e ripeteva il suo nome ad ogni istante, sicchè i suoi parenti speravano ogni bene da quella santa amicizia.
Ma Francesco era agitato da una smaniosa curiosità di leggere, sapere e conoscere e avendogli i compagni imprestato qualche romanzo, non immorale, ma tale da scaldargli fuor di misura la fantasia, egli si appassionò talmente in quelle letture, da raffreddarsi nella pietà, nello studio, e da venirgli a noia l'Oratorio.
Il padre accortosi di quel cambiamento ne cercò e ne trovò la causa, rimproverò il figlio, gli tolse quei libri e non trovando in lui la doverosa arrendevolezza, lo minacciò di un severo castigo. Il fanciullo colla mente squilibrata da quelle letture, caparbio e sgomentato fuggì di casa. Dopo essersi aggirato tra le colline di Superga, temendo di essere inseguito si fermò innanzi all'aia di una cascina ove i contadini all'ombra di un grande albero, interrotto il lavoro di battere il grano, merendavano allegramente. Estenuato dal caldo, dalla fame e dalla sete, per un istante li osservò con invidia. L'amor proprio lo ratteneva, la necessità spingevalo, ma fattosi finalmente coraggio si avvicinò e chiese loro una fetta di polenta.
Stupirono i contadini che loro chiedesse l'elemosina un giovanetto che la fisionomia e l'abito palesavano cittadino dì condizione signorile e gli domandarono chi fosse e donde venisse: ma Francesco seppe inventare una favoletta che commosse quei semplici cuori. Disse loro: sè essere orfano di padre e di madre che per sventure commerciali lo avevano, lasciato nell'estrema miseria; e quindi, per togliersi al rossore di porgere la mano in una città dove era conosciuto, aveva deliberato di andare in paesi lontani. Ebbe allora la sua parte di polenta, e uno di quei coltivatori gli disse:
- E come farai da qui innanzi a vivere? Bisognerà che ti metta a lavorare.
- Se mi volete con voi, rispose Francesco, io sono pronto.
- Tu così delicato, maneggiare la zappa e la vanga!
E tutti gli altri diedero in uno scroscio di risa.
- E perchè no? replicò Francesco; provatemi!
- Ebbene; prendi questo correggiato... e avanti.
Francesco deposta la giubba incominciò a battere le spighe. Benchè non fosse assuefatto a fatiche manuali, lavorava con tanto ardore, che quei buoni contadini compassionandolo gli dissero:
- Ebbene sta con noi; polenta e pane non ti mancherà; nel pagliaio ci sarà il tuo posto per dormire. Sei contento?
Francesco qui soffermossi per due settimane, eseguendo quanto gli era comandato, ma importunando i suoi padroni, perchè lo mettessero a servizio in qualche masseria più lontana da Torino. E quella buona famiglia lo mandò presso certi suoi parenti che abitavano a Sciolse. Qui Francesco si assoggettò a qualunque fatica ed umiliazione, con energia risoluta di volontà. Una pazza vergogna ed un timore irragionevole lo trattenevano dal ritornare alla casa paterna Intanto suo padre, antico magistrato, con ansia crudele, faceva ricerca di lui, ma non riusciva a rintracciarlo. Si recò da D. Bosco per avere conforto, e D. Bosco, benchè sorpreso da così strana novella, lo assicurò che la Madonna Santissima avrebbe protetto suo figlio e lo avrebbe ricondotto in famiglia; gli prometteva nello stesso tempo che nell'Oratorio si sarebbe pregato per lui.
Da due anni non si erano più udite novelle di Francesco quando D. Bosco andava per alcuni giorni a Sciolse nel castello del Conte Roasenda, invitato a predicare in quella parrocchia. Il Conte volle condurlo in vettura a visitare una sua grande fattoria coltivata con molta diligenza. Esaminata minutamente ogni cosa, sedettero in un luogo delizioso dal quale si godeva un bel panorama. Mentre il Conte si era alquanto allontanato per osservare una tettoia costrutta allora, gli occhi di Don Bosco furono attirati da un giovane col volto abbronzato dal sole, di forme robuste, coi capelli rasi e un ciuffo che gli scendea sulla fronte, il quale poco distante in un prato più basso stava col tridente ammucchiando il concime trasportato dalle stalle. Più lo fissava e più gli pareva d'averlo visto altre volte, ma non riusciva a precisare le sue reminiscenze. In quell'istante il giovane alzò gli occhi, fece un atto di sorpresa, e continuò il suo lavoro, tenendo la faccia studiosamente rivolta in modo da nasconderla a D. Bosco. D. Bosco allora si mosse per scendere da quella ripa, ma il giovane allontanavasi con passo affrettato. Si fece allora la luce nella mente di D. Bosco, e pensò: - Forse è Francesco. - Intanto il fattore essendosi avvicinato a lui, egli chiese notizie di quel servitore di campagna, ed ebbe per risposta: essere laborioso, obbediente e di buona condotta; averlo a lui raccomandato alcuni suoi parenti, e chiamarsi Giuseppe: ma non aver stimato necessario chiedere informazioni. D. Bosco pensò essersi quel giovane mutato il nome e disse al fattore:
- Fatemi il piacere: interrogatelo con prudenza: cercate di conoscere il cognome della sua famiglia, il tempo che uscì dal suo paese, e poi comunicatemi l'esito delle vostre investigazioni.
Il giovane intanto nascosto tra le viti, aveva osservato come D. Bosco parlasse col fattore; sospettò l'argomento di quel discorso, risolse di fuggire e senz'altro salì alla casa colonica, per vestire i suoi rozzi panni e prendere i pochi danari, frutto de' suoi risparmi.
Il Conte e D. Bosco in vettura, giravano il fianco della collina che da quel lato era incolta, sassosa e ripida; quand'ecco ad uno svolto della via, venir gi√π a rompicollo quel giovane, che aveva sperato di antivenire D. Bosco. Il cavallo si adombra e il Conte balza a terra e lo afferra pel morso: D. Bosco scende subito, e tenta di afferrare Francesco per un braccio, mentre salta sulla via. Ma non riesce a tenerlo per l'impeto della sua corsa e il giovane gridando: - Mi lasci, mi lasci andare! - scivola gi√π dalla ripa, e si dilegua fra gli alberi d'un burrone.
Era passato circa un anno da questo incontro. Don Bosco si trovava a S. Ignazio sopra Lanzo per gli esercizi spirituali. Un giorno, finito il pranzo, usciva sulla spianata davanti alla chiesa, passeggiava circondato da una folla numerosa di signori e specialmente di giovanotti, intrattenendoli in amena conversazione. Giunto al parapetto del muraglione che sosteneva il terrapieno, a caso volse gli occhi al basso e vide seduta la solita turba di povere donne, vecchi, fanciulli accalcati alla porticella della cucina, aspettando che il cuoco distribuisse loro i rilievi del pranzo. Fra questi, con suo stupore, riconobbe subito Francesco, il quale scalzo, senza giubba, teneva in mano la scodella, aspettando la sua porzione di cibo. D. Bosco si ritrasse subito, perchè Francesco non lo vedesse e andato dalla parte opposta del cortile disse a coloro che erano con lui:
- Signori, chiedo il vostro aiuto per compiere una bella impresa.
- Dica, dica, D. Bosco, siamo pronti.
- Dividetevi in due schiere, scendete alla spicciolata, gli uni da questa parte, e gli altri da quell'altra fino alla metà del poggio, come se andaste tranquillamente a passeggio. Quindi forniate di voi una catena in modo, che ciascheduno sia distante dai vicini non più di sei o sette passi e risalite verso il santuario. Un giovane scenderà fuggendo e voi fermatelo e conducetelo a me.
Il suo ordine fu puntualmente eseguito e quando vide che i suoi amici incominciavano a risalire, si affacciò al parapetto e chiamò: -  -Volgersi e slanciarsi giù per la china fu cosa di un istante per il giovane, ma non potè passare la linea di quei signori, i quali afferratolo lo condussero ove D. Bosco lo aspettava, senza che facesse una gran resistenza. D. Bosco lo prese per mano: - Questa volta non mi fuggi più, gli disse. Vieni adunque con Don Bosco e sarai contento. - E lo condusse in sua camera. Quivi fattogli apprestare il pranzo, prese ad interrogarlo amorevolmente.
Seppe da lui come fuggito da Sciolse si fosse internato nelle alpi, ed ora pastore, ora contadino, ora servitore nella casa di un parroco, ed ora girovago, avesse campato la vita in mezzo a strane avventure, ma sempre fortunato nell'incontrarsi con persone morigerate. Sul principio non erasi affacciata alla sua mente l'idea del gran male fatto, ma cessata quella febbre che aveagli offeso il cervello, ne aveva riconosciuta l'enormità. Tuttavia questa, rappresentandogli il padre giustamente sdegnato, lo ributtava invincibilmente dal tornare a lui; e non poteva neppur reggere a tale pensiero. Sovente però gli stringeva il cuore il ricordo di sua madre e della sorella. Aveva anche pregato e pianto non osando però palesare ad alcuno la sua condizione e le sue pene. - Ma ora, egli diceva, passato il primo sgomento, sentirsi fortunato nel trovarsi in sì buone mani.
D. Bosco gli promise allora di riconciliarlo col padre suo, invitandolo a riconciliarsi prima con Dio, cosa che Francesco fece volentieri. Quindi abboccatosi con D. Begliati economo del Convitto di S. Francesco e degli esercitandi a S. Ignazio, gli narrò il fatto; al giovane fu assegnata una camera. Il domani D. Begliati si faceva mandare da Torino quanto era necessario per vestirlo signorilmente. D. Bosco terminati gli esercizii ritornò all'Oratorio con Francesco e si affrettò a portare l'inaspettata notizia ai desolati genitori. Dopo un breve esordio per disporre gli animi, concluse: - Ringraziamo il Signore; Francesco è ritrovato!
Fu un grido generale di gioia in quella casa e poi un chiedere: -Come? Quando? Dove? - D. Bosco narrò brevemente il fatto e poi vedendo il padre rimaner pensieroso, soggiunse: - Riavrete dunque vostro figlio, ma a condizione che non gli si faccia alcun rimprovero. Si dimentichi pienamente il passato e si riceva in casa come se non ne fosse mai partito. Altrimenti soggiunse sorridendo, non ve lo faccio vedere. - Il genitore assentì e D. Bosco invitò tutta la famiglia a recarsi all'Oratorio l'indomani nelle ore mattutine. Non si può dire con quale ansietà fu atteso quel momento. La madre entrò per la prima, colla sorella di
Francesco nella camera di D. Bosco, ma appena visto il figlio che piangeva seduto presso il servo di Dio, sentissi mancar le forze, sedette colla figlia e ruppero ambedue in lagrime. Poco dopo giungeva il padre, con un contegno sostenuto e asciugandosi le lagrime sedette esso pure senza parlare. Francesco non si era mosso. D. Bosco non interruppe quel primo sfogo, e quando li vide pi√π calmi disse:
- Sia benedetta la Madonna che vi restituisce il figlio... E Francesco chiede perdono a suo padre e a sua madre dei dispiaceri che loro ha cagionati... e ciò detto lo prese per mano e lo condusse presso il padre che singhiozzando lo baciò in fronte.
- E ora, signori miei, se lo conducano a casa, concluse D. Bosco, e mi rendo garante che avranno da lui molte consolazioni. E fu così. Riprese gli studi e col grande ingegno che aveva, in pochi anni guadagnò il tempo perduto, si addottorò in legge e salì ad una delle più eminenti cariche dello Stato.
D. Bosco stesso ci narrò questo fatto, che dimostra quanto siano pericolosi per la gioventù molti libri, i quali benchè non perversi pure esaltano la fantasia, ed eccitano la sensibilità. Ed è perciò che D. Bosco era sì grandemente severo nell'imporre ai suoi alunni che presentassero al giudizio del Superiore i libri che recavano dalle loro case, e che si procuravano lungo l'anno.
Anche a molti giovanetti della borghesia e della nobiltà di Torino ci consta, che dava consiglio di far esaminare ogni libro che loro capitasse nelle mani, da persone probe ed intelligenti, prima di leggerli. Tanto più che nelle stesse scuole sedevano insegnanti poco prudenti ed anche talora irreligiosi, i quali esortavano gli scolari a letture sconvenienti.
Perciò anche dalla città gli studenti recavano o mandavano a lui i loro libri per averne il consentimento o la proibizione. Abbiamo una sua lettera su questo argomento.
 
Ottavio Car.mo,
 
Eccoti i libri di cui ho fatto fare breve rivista. In senso proprio non avvi alcuna cosa proibita: i libri non sono all'indice. Sonvi però alcune cose assai pericolose per la moralità di un giovane; perciò mentre puoi leggerli devi stare attento su te medesimo, e qualora ti accorga avvenire danno al tuo cuore, sospenderne la lettura, o almeno saltare que' brani che relativamente possono essere pericolosi.
Ho fatto aspettare il domestico perchè aveva molta udienza. Dio ti doni sanità e grazia: mille saluti a maman e a tua sorella: prega anche per me che ti sarò sempre nel Signore
Torino, 11 agosto 1859.
Aff.mo amico
Sac. Bosco GIOVANNI.
 
Nobile giovane Bosco Ottavio di Ruffino.
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