D. Bosco è destinato al Rifugio - La Marchesa di Barolo - D. Bosco ottiene dalla Marchesa di poter continuare il suo Oratorio festivo presso al Rifugio - Il Teologo Giovanni Battista Borel.
del 23 ottobre 2006
 Trascorse le ferie, D. Bosco ritornò al Convitto presso il suo impareggiabile maestro ed amico, ma da prima questi nulla gli disse, nè egli credette bene di interrogarlo. Dopo qualche giorno D. Cafasso, presolo in disparte: - Perchè non mi chiedete quale sia la vostra destinazione? gli domandò con accento di bontà.
 - Perchè, rispose D. Bosco, io voglio riconoscere la volontà di Dio nella sua deliberazione, e molto mi preme di nulla mettere del mio: mi mandi in qualunque luogo le piaccia, io parto subito.
 - Orbene, fate fagotto e andate al Rifugio. Colà farete da Direttore del piccolo Ospedale di S. Filomena, e intanto insieme col Teologo Borel lavorerete a vantaggio delle giovanette di quell'Istituto della Marchesa Barolo: Iddio non mancherà, anche nell'opera del Rifugio, di darvi a conoscere in appresso quanto dovrete fare pei poveri fanciulli.
A prima vista sembrava che tale consiglio contrariasse affatto le inclinazioni di D. Bosco e i1 bene del nostro Oratorio, perciocchè la direzione di un ospedale, e il predicare e il confessare in un educatorio di oltre a quattrocento giovinette, quale era il detto Rifugio, pareva che lo dovesse distogliere dall'occuparsi dei giovani; con tutto ciò così non fu, come vedremo.
Ma prima di proseguire il racconto è conveniente che diciamo chi fosse la Vandese Marchesa Giulietta Colbert, sposata coi Marchese Tancredi Falletti di Barolo. Era degna dell'elogio fatto dagli Atti dei santi Apostoli alla Tabita: “Ella era piena di buone opere e di elemosine che faceva”. Volgeva infatti le sue grandi ricchezze a vantaggio della classe operaia e dei miserelli. Generosissima ed oculata soleva ripetere: - Nulla è mai perduto di ciò che vien dato per carità. Diamo senza contare, Dio conterà per noi. - Il luogo delle sue delizie erano le carceri delle donne, ove con licenza delle Autorità, si rinchiudeva per tre o quattro ore ogni mattina. Quivi col soffrire insulti e talora percosse, coll'umiliarsi, istruire, pregare e far pregare, soccorrere largamente, mutava quei serragli ripugnanti di belve in ospizio di creature cristiane, pentite, rassegnate. Mirabili conversioni erano state il frutto della sua virtù e della sua prudenza e sapienza. Avendo ottenuto dal Governo di poter trasportare le prigioniere dalle carceri del Senato, del Correzionale, e delle Torri in un edifizio in posizione salubre, detto casa delle sforzate, loro diede un regolamento redatto e discusso con esse stesse, nel quale le pratiche di pietà, le ore di lavoro, le occupazioni delle singole erano saggiamente distribuite. Alle Suore della Congregazione di S. Giuseppe, originaria della Savoia, che essa aveva introdotte in Torino, affidò l'assistenza di tale carcere, e per esse innalzò a sue spese di un piano intero quella casa, sicchè il luogo di punizione acquistò l'aspetto dì un savio e dolce monastero. A molte delle detenute otteneva la grazia dal Re, e qual buona madre continuava eziandio ad assisterle quando erano uscite di carcere.
Tutto ciò non bastava per la sua anima assetata di operare il bene. Siccome, avutone incarico da Re Carlo Felice, aveva fatto venire in Torino le Dame del Sacro Cuore per l'educazione delle donzelle signorili, ponendo a loro disposizione una sua vasta e magnifica villa poco lontana da Torino, così nel 1834 pensava di beneficare le fanciulle di famiglie non agiate, costruendo un vasto Educatorio poco oltre la Chiesa della Consolata, ove la pensione era assegnata a sole lire quindici al mese. Fondava intanto l'Istituto delle Suore di S. Anna, ne scriveva le regole che furono approvate dall'Arcivescovo, accettava novizie che pose sotto la condotta di Suor Clemenza savoiarda, della Congregazione di S. Giuseppe. Il mirabile riuscimento delle novizie e di quelle che divennero professe dimostrò quanto Suor Clemenza fosse atta a quell'ufficio, e addestrate queste religiose all'insegnamento, il Collegio ebbe vita. Presso a questo piantò un'altra casa per trenta orfanelle, che dal suo nome furono chiamate Giuliette, ciascuna delle quali al termine della sua educazione riceveva nell'uscire dallo stabilimento una dote di cinquecento lire.
Per le ragazze operaie, che imparavano svariate arti nelle botteghe, istituì nei varii centri della città le così dette famiglie, ed ogni famiglia ebbe una madre con alloggio ed assegnamento annuo, incaricata di governare il drappello che le era affidato. Questo veniva al pranzo preparato dalla madre, e intorno a lei si radunava alla sera tornando dal lavori. Qui studiava il catechismo, imparava a leggere e scrivere, si esercitava in qualche cucitura o ricamo, nel far cucina, e in tutte le altre faccende domestiche. Le giovanette, che dovevano essere di costumi illibati, tutte le mattine erano condotte ad ascoltare la santa Messa e nella Domenica ad assistere a tutte le funzioni parrocchiali.
Avendo saputo che nella diocesi di Pinerolo in varie povere parrocchie non vi erano scuole femminili e non di rado i parenti cattolici mandavano le loro fanciulle a maestre protestanti, somministrò a Mons. Charvaz il danaro occorrente per stabilire scuole cattoliche, incaricò le Dame del Sacro Cuore d'istruire le donne che aspiravano a divenir maestre e provvide che queste tutti gli anni si radunassero nel loro monastero per farvi gli esercizi spirituali.
Quando Re Carlo Alberto chiamò da Roma le Adoratrici Perpetue di Gesù Sacramentato assegnando il primo danaro per la fondazione, la Marchesa stabilì subito una conveniente somma pel mantenimento di queste Monache.
Per tutte le Istituzioni che fondava la nobile signora compilava e imponeva regolamenti ed assegnava redditi che ne assicurassero l'esistenza in perpetuo. Fra queste in ordine di tempo primo era stato il Rifugio. In gran numero ricorrevano a lei disgraziate zitelle che avevano d'uopo di una mano pietosa che le rialzasse. Ed essa le une riconciliava coi parenti, altre strappava da obbrobriosa schiavitù, ad altre procurava onesto collocamento. Intanto ideava di costrurre un ricovero per le pentite, capace di oltre a duecento persone; e lo eresse in Valdocco costituendolo sotto il patrocinio di Maria SS. Refugium peccatorum, e chiamando a reggere la Casa le Suore di S. Giuseppe. Ma di quelle ricoverate bramando talune di non uscirne mai più, e di consacrarsi in voto al Signore per tutta la vita, essa costruiva, attiguo al Rifugio, il Monastero di S. Maria Maddalena, atto a contenere circa settanta delle nuove suore e in modo che la chiesa servisse per le due comunità. E qui non è tutto: vicino al monastero fondò una terza casa che accolse le così dette Maddalenine, cioè fanciulle pervertite al disotto dei dodici anni, delle quali affidava l'educazione ad alcune Suore di S. Maria Maddalena. Finalmente in quest'anno 1844, vicino al Rifugio ed alle Maddalene, erigeva l'Ospedale di Santa Filomena, ossia l'Ospedaletto per le bambine storpie ed inferme, del quale si andavano ultimando le costruzioni. Questo gruppo d'Istituti intorno al Rifugio era il campo per allora destinato a D. Bosco. Torna a suo grande onore l'averlo D. Cafasso proposto e l'Arcivescovo riconosciuto come degno ad un ufficio così delicato, che pareva esigesse un sacerdote di età più matura e di grande esperienza. Erano persuasi che in lui il difetto degli anni veniva abbondantemente supplito dalla sua virtù e dalla illibatezza de' suoi costumi.
D. Bosco pertanto, accompagnato dal Teologo Borel si recò a visitare e ad ossequiare la Marchesa, vedova dal 1838 di uno sposo degno di lei, la quale non solo a Torino, ma a molte città del Piemonte aveva fatti provare gli effetti delle sue beneficenze generose. Egli, giusto estimatore delle azioni magnanime, sapeva come, scoppiato il colera nel 1835, la brava Signora, che trovavasi in villeggiatura nelle vicinanze di Moncalieri, si era affrettata a venire in città, assistendo tutti i giorni gli appestati nelle case private e negli ospedali, consolando con sante parole quelli che morivano e promettendo loro, come realmente fece, di aiutare le povere vedove e i loro figli orfani. Gli era stato detto eziandio da D. Cafasso e dal Teol. Borel come ella, di naturale vivacissimo e imperioso, con ogni sforzo cercasse di moderarsi e che nutriva una costante ed efficace aspirazione a perfezionarsi nella virtù. Questo avviso dovevagli servire di norma. La veneranda matrona toccava già i sessant'anni. Presentatosi a lei D. Bosco, riconobbe che essa sotto un portamento maestoso nascondeva una grande umiltà e con un fare che svelava il riserbo, e l'autorità di una patrizia, univa l'affabilità e la dolcezza della madre e della benefattrice e fu soddisfatto di quel primo abboccamento.
Eziandio la dama appena lo vide, lo accettò di molto buon grado. Egli però prima di andare al Rifugio volle muovere qualche difficoltà sulla carica impostagli di Direttore Spirituale, temendo per questa di essere obbligato ad abbandonare i suoi giovanetti; si disse pronto ad andare come predicatore e come confessore, ma giammai come Direttore. Però acquietossi quando gli venne fatto osservare che il Teologo Borel avrebbe egli stesso disimpegnato gli obblighi più scabrosi di questo ufficio. Domandò eziandio di poter essere liberamente visitato da quei giovani che sarebbero venuti a lui per imparare il catechismo, e la Marchesa, per indurlo ad accettare, non solo gli concesse questa permissione, ma acconsentì che radunasse il suo Oratorio festivo presso il nuovo edificio non ancor finito del suo Istituto di S. Filomena. Così egli potè sperare che l'opera che aveva incominciata non sarebbe rimasta sterile.
D. Bosco passò quindi al Rifugio, che allora si poteva dire una delle ultime case della città di Torino, fuori della cinta daziaria ad occidente e poco lungi dalla riva destra della Dora. Di qui andando in su, prima di giungere all'ospedale dei pazzerelli e i quartieri nuovi delle milizie, ultima linea degli edifizi cittadini, stendevasi aperta campagna. Nei dintorni erano prati, orti, terreni ineguali e in parte non coltivati, fossi, burroni e case rustiche, sparse qua e là a gran distanza le une dalle altre. Apparteneva alla circoscrizione della parrocchia dei SS. Apostoli Simone e Giuda dei Borgo Dora. D. Bosco s'intrattenne affettuosamente col Rettore e Direttore Spirituale del Rifugio, lo stesso sacerdote col quale nel Seminario di Chieri erasi consultato sul modo di conservare la sua vocazione, e che più volte era stato suo compagno nella predicazione e nella visita alle carceri.
Il Teologo Giovanni Battista Borel era un ecclesiastico di grande pietà, degno della più alta ammirazione per virtù e sapere. Nulla gli mancava di quanto si richiede per formare un sacerdote secondo il cuore di Dio e i bisogni della Chiesa. Risplendeva soprattutto il suo zelo instancabile per la salute delle anime.
Lasciò scritto di lui un esimio sacerdote torinese la seguente pagina, che D. Bosco conservava presso di sè: “ Vidisti virum velocem in opere suo?. Ecco la prima idea che mi venne in mente quando cominciai a conoscere più da vicino il Rev. D. Borel, di sempre cara memoria. Si può dire di lui, senza tema di errare, che era un valoroso bersagliere di S. Chiesa; correva da una parte e dall'altra a far acquisto di anime, senza mai rifiutarsi a qualunque opera del sacro ministero, purchè avesse il tempo; e per aver questo tempo, faceva di notte giorno colle più lunghe veglie. Mai nessuna vacanza, dicendo che nella vita dei santi non trovava il Capo delle Vacanze. Per ricreazione, dopo aver pranzato, si metteva subito a scrivere suppliche sopra suppliche alle Autorità, o ai ricchi signori per chiedere soccorsi in nome dei poverelli che ne lo richiedevano; oppure andava a visitare gli infermi, a portare elemosine, a concertare con altri sacerdoti il modo di poter fare del bene per mezzo di sante missioni, esercizi spirituali, dialogi catechistici. Per questi ultimi, al dire del suo grande amico D. Cafasso, era forse il miglior oratore di tutta la diocesi per la sua facilità nel parlare il nostro buon piemontese per i proverbi, i frizzi, le frasi argute che gli fiorivano sulle labbra, e per la chiarezza nello spiegare qualunque difficoltà dottrinale, servendosi delle similitudini le più appropriate all'uopo: tanto più quando si trattava di parlare alla gioventù che era la sua delizia. S'industriava talmente per farsi capire anche dalla gente più ignorante e rozza, che metteva in pratica il detto del Ven. P. Prever dell'Oratorio: Il inondo è goffo, e quindi bisogna predicare goffamente. Non si possono numerare le volte che annunziò la parola di Dio, e sovente in Torino in cinque o sei istituti al giorno. Le confessioni che ascoltava di penitenti di ogni età e condizione sono, eziandio innumerabili”.
Di ciò che gli accadeva nelle carceri e quante industrie egli usasse coi carcerati, e delle improvvise e mirabili conversioni colle quali aveva premio la sua carità, D. Bosco non cessava più tardi di raccontare scene assai edificanti e lepide.. Un giorno, attorniato dagli inquilini di un camerone, cercava bel bello di persuaderli ad adempiere il precetto pasquale, quand'ecco gliene viene additato uno che non voleva saperne. Il Teologo gli si avvicina, e tra il faceto e il serio lo abbranca pel bavero, lo trae seco riluttante in una camera e riesce a confessarlo.
Un'altra volta, mentre otto o dieci di quelle buone lane erano sdraiati al sole e addormentati, il santo prete, visto che rimaneva spazio, va a coricarsi accanto ad uno dei più restii, e copre col cappello la faccia del medesimo e la sua. Il galantuomo si desta, ed udite le risa degli astanti, si alza, confuso; ma il Teologo Borel lo trattiene, lo tira seco in disparte, e confessatolo, lo manda in pace. Altri ed altri con tali industrie confessò in quel giorno, e: - Ringraziamo il Signore, diceva la sera, mentre si mutava gli abiti da capo a piedi, oggi abbiamo fatto una bella pesca.
D. Bosco adunque e D. Borel appena si conobbero avevano preso ad amarsi e a porgersi vicendevolmente aiuto ed eccitamento nell'operare il bene: “Ogni volta, scrisse D. Bosco, che io poteva trattenermi con lui, udiva e vedeva sempre lezioni di zelo sacerdotale; e sempre mi porgeva buoni consigli. Nei tre anni ch'io passai al Convitto, fui dal medesimo più volte invitato a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a predicare con lui, dimodochè il campo del suo lavoro al Rifugio mi era già conosciuto e in certo modo famigliare. Ci parlammo più volte a lungo intorno alle regole da seguirsi per aiutarci a vicenda nel frequentare le carceri e compiere i doveri che ci erano affidati”.
I due ministri del Signore, animati dallo stesso spirito, si intrattennero dunque in un lungo colloquio, e concertarono specialmente di assistere nel miglior modo possibile i giovanetti, la cui moralità ed abbandono richiedeva di giorno in giorno la più sollecita cura. Intanto si ordinò il nuovo soggiorno di D. Bosco, e fu la camera superiore al vestibolo della prima porta d'entrata al Rifugio, che aprivasi sulla via che poi ebbe il nome dal Cottolengo. Presso a questa ve ne era un'altra, occupata appunto dal Teologo Borel. Nel pian terreno abitava il portinaio. D. Bosco doveva trasportare quivi altresì il suo Oratorio. Diede uno sguardo all'edificio. - E dove raccogliere i ragazzi? - La mancanza di un sito cagionavagli pena.
 - Non affanniamoci, disse il Teol. Borel: la camera che è destinata per lei, può servire per qualche tempo; in appresso vedremo il da farsi.
 - Sono già molti, sa, i giovani che intervengono a S. Francesco d'Assisi, replicava D. Bosco.
 - Quando potremo abitare nell'edificio preparato per i preti accanto all'Ospedaletto, spero che qualche altro luogo migliore ne uscirà fuori.
D. Bosco ritornò al Convitto alquanto sopra pensiero, ma riguardando, come ci disse più volte, quale una grazia segnalata del Signore il poter trattare così da vicino col santo uomo il Teologo Borel, il suo cuore provava una grande consolazione. Così pure riputò sua bella fortuna il coabitare con D. Sebastiano Pacchiotti, altro pio sacerdote addetto al Rifugio, col quale eziandio aveva stretta una preziosa amicizia.
 
 
 
 
 
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