Il Galantuomo - Almanacco nazionale per l'anno 1856 - A' suoi amici - Il principio del 1855 - Il Galantuomo parte per la guerra d'Oriente - La vista del mare La Crimea - Il coléra in Crimea - 1 futuri destini della patria.
del 28 novembre 2006
 Don Bosco, per antivenire lo spaccio degli almanacchi eretici, fin dal mese di luglio incominciava a preparare il Galantuomo. Per iscriverlo, farlo comporre dai tipografi, correggere le bozze e stamparlo si richiedevano almeno due mesi. In questo libretto, oltre il ripetere le indicazioni esposte negli anni antecedenti, notavansi alcune date più solenni della vita di Pio IX, e la distribuzione delle quarantore nelle Chiese di Torino per l'anno 1856. Si narravano episodi ameni, scientifici e religiosi; facevasi cenno di scoperte ed invenzioni moderne; si finiva con una graziosa poesia in dialetto piemontese intitolata: Il vizio del giuoco. La Tipografia De Agostini ebbe l'incarico di preparare tale strenna agli associati delle Letture Cattoliche, e le copie che sopravanzassero dovevano essere messe in vendita.
Il Galantuomo dei due anni precedenti aveva prodotto un gran bene; ma quello in corso di stampa, letto, destò il più vivo interesse, per certe predizioni che vi erano annunciate. Noi qui le riproduciamo unitamente ad altre pagine che invero non hanno tutte la stessa importanza; ma, essendo scritte da Don Bosco, abbiamo giudicato che serviranno a far conoscere sempre meglio il suo carattere e la sua franchezza nel difendere i principii religiosi. Ci siamo anche indotti a riprodurle perchè non vadano perdute, essendosi da oltre cinquant'anni esaurite le loro copie, e noti intravedendosi probabilità che vengano in qualche altro modo a riveder la luce.
  Così adunque si leggeva nel Galantuomo, almanacco nazionale per l'anno 1856.
 
Il galantuomo ai suoi amici.
 
IL PRINCIPIO DEL 1855
 
A questa la terza volta che ho l'onore di presentarmi a voi, o venerati amici, per parlarvi di nuove vicende. Quest'anno ho tante cose gravi a raccontarvi, e di tale importanza, che mi vedo costretto a dividere la materia in alcuni capitoli. Comincerà ad accennarvi ciò che avvenne sul principio di quest'anno per farmi strada al rimanente.
  Mentre s'incominciava il mille ottocento cinquantacinque era in discussione la legge contro ai frati, alle monache, ed ai preti. Poveri frati, che hanno dato tante scodelle di minestra ai miei ragazzi, e vennero tante volte a vedermi quando era stato ammalato! Ma! sia che il Signore volesse punirci con questa legge, o per altri motivi a noi sconosciuti, fatto sta che i mali si moltiplicarono. La nostra cara regina madre, Maria Teresa, cade ammalata, e dopo alcuni giorni di malattia cede al fatale destino e muore. Passano pochi giorni, e la regina regnante, Adelaide, segue sua suocera nella tomba. Oh! povere regine, erano così buone, facevano tanta limosina! lo ho pianto molto, e parecchi altri piansero al par di me. Al giorno della loro sepoltura io non ho fatto altro che recitare dei Pater noster e dei Requiem aeternam per le anime loro. È  vero che molti si consolavano dicendo: abbiamo perduto due benefattrici in terra, ma avremo due protettrici in cielo; tuttavia era voce unanime che diceva: Sono morte le madri dei poveri; il mondo diveniva troppo perverso e non meritava di avere due Regine tanto buone. Iddio le tolse affinchè non fossero testimoni di mille iniquità, che si sarebbero fra breve commesse.
  Si piangevano ancora le morti delle due Regine, quando ci assalì nuovo malanno. Il Duca di Genova, quel valoroso che aveva tanto combattuto per l'onore della patria, e che aveva affrontati tanti pericoli nella Lombardia e nella campagna di Novara, sul fior di sua età cessò di vivere. Poco tempo dopo un figlio del Re era pure portato alla tomba. Tutti questi mali avvennero mentre si andava discutendo la legge contro ai frati e contro ai preti. Io non voglio dire che Iddio abbia fatto morire tutte queste brave persone a motivo di quella legge: ma molti l'hanno detto e lo dicono ancora, e si diceva perfino che Dio voleva chiamare a sè i buoni per punire debitamente i malvagi.
  In mezzo a tutti questi mali, avvenne che il nostro governo vedendo la Francia e l'Inghilterra a mal partito nella guerra contro ai Russi, pensò di venire in loro soccorso, e ciò mi pare ben fatto, perchè l'aiutare il prossimo è un'opera di carità, e le opere di carità sono sempre lodevoli.
  Tra que' matterelli che ebbero il prurito d'andar contro i Russi, ci fui anch'io. Ma la mia posizione non mi permetteva di arruolarmi, perchè, come è noto a tutto il mondo, ho quarant'anni, zoppico da un piede, sono alquanto gobbo, sordo da un orecchio, cieco da un occhio, cose che impediscono assolutamente di fare il militare. Pure ci voleva andare: non per la smania che avessi di ammazzare soldati, no, perchè mi sento commosso al solo veder uccidere una pulce; ma desiderava di andare per guadagnare qualche cosa da mangiare per me, e per i miei ragazzi.
  Io mi trovava ridotto alle più gravi strettezze, e non  sapeva più dove voltarmi per avere soccorso, perchè Monsignor Arcivescovo, finchè era qui a Torino, mi dava quasi tutte le settimane
qualche sussidio, e l'hanno mandato in esiglio; i frati mi davano, qualche piatto di minestra, e trattavasi di mandarli tutti a casa. Che fare adunque? lo mi sono aggiustato da cuoco con un locandiere delle nostre truppe, che doveva partire per la Crimea,
 
 
LA VISTA DEL MARE
 
Voi, o amici, sarete ansiosi di sapere notizie del mio viaggio, ed io vi voglio appagare! State attenti: sebbene io non sia per raccontarvi fatti atroci e sanguinosi, tuttavia avrete di che ricrearvi.
  Sono partito per la ferrovia di Porta Nuova, ed in poche ore sono giunto a Genova. Qui abbiamo messo un milione di arnesi di ogni genere sopra un bastimento, e poi ci siamo imbarcati. Finchè fui vicino alle rive del mare, tutto andò bene; ma quando mi vidi scomparire dinanzi città, rive, colline e montagne, allora fui vivamente costernato, e dissi: Povero Galantuomo! Chissà se rivedrai ancora questi paesi!
  Quando mi trovai in mezzo al mare cominciai a considerare la forma dei bastimenti. Essi sono fatti come le barche, quali voi avrete già più volte veduto a galleggiare sul Po, ma sono più di cinquanta volte più grosse. Colà ci sono molte camere, ove si può mangiare, dormire, passeggiare, fumar sigari, ed altre, cose simili, che si dánno gratuitamente a chi ha danaro per pagarle.
  Il mare! O quanto mai è grande il mare! Immaginatevi una vastissima pianura non circondata nè da monti, nè da montagne; ove non vi siano nè strade, nè case, nè vigne, nè prati, nè piante, nè selve, e che il confine di quella vastissima pianura vada a perdersi nella pianura medesima: voi avrete così una qualche idea del mare.
  Andava eziandio rimirando con maraviglia le onde, in mezzo, a cui passava il nostro bastimento. Provava il più gran piacere in rimirare i pesci or grossi, or piccoli, che mettevano sempre il loro musetto vicino alle sponde del bastimento. Pareva proprio che quegli animali sapessero che io sono un Galantuomo, e nulla avessero a temere di me. Intanto io mi accorsi che si avvicinava la notte; perciò deponendo ogni pensiero ed ogni sollecitudine pel passato e per l'avvenire, andai in cantina e mangiai un tozzo di munizione con una fetta di salame, bevetti un mezzo litro di vino, dopo andai a coricarmi sopra un pagliariccio per riposare.
  Dormiva saporitamente, quando, o apposta o per sbaglio, un mio compagno, credendo forse di prendere un pezzo di legno da fuoco, prese una mia gamba.
     - Adagio, mi posi a gridare, questa gamba è mia. - Non è vero, è un legno, debbo bruciarlo. - Minchione che siete, gridai forte, bruciate le vostre gambe e non le mie lo pago per esse le imposte, e non voglio che alcuno me le tocchi. - L'altro fece i fatti suoi, e lasciò per me le mie gambe.
  Tuttavia essendomi stato interrotto il sonno, non lo potei più ripigliare. Quasi per prendere un po' di fresco, uscii allo scoperto sopra al bastimento. Allora mi apparve uno spettacolo che pari non vidi mai in vita mia. Alzo lo sguardo all'insù, e vedo un'immensa quantità di stelle; abbasso gli sguardi e quante stelle rimiravo sopra e intorno a me, altrettante ne scorgeva sotto i piedi miei. Mi sembrò in quell'istante di essere divenuto un granello di polvere disperso nell'universo.
  Più alzava gli occhi e li abbassava rimirando l'immensa quantità di stelle che mi circondavano, più mi sembrava di divenire piccolo. Colpito da questa immaginazione, mi posi a gridate: - Povero Galantuomo, tu ritorni al nulla! - Ma intanto mi accorgeva che aveva ancora la testa sopra le spalle, che il mio cuore palpitava, che la mia lingua parlava. Onde compreso della mia piccolezza dissi a me stesso: - Vedi, o Galantuomo, quanto sei piccolo in confronto di tante stelle, così grosse e così distanti l'una dall'altra! Quanto bisogna che sia grande colui che ha fatto tutte queste cose!
  Continuando il cammino da Genova siamo passati per un mare detto Tirreno, ed è tra l'isola di Sardegna e la Toscana. Poi ci siamo trovati in Malta, dove abbiamo fatto alcune provviste di acqua; perciocchè voi certamente sapete, che l'acqua del mare, essendo molto salata, non si può bere, epperciò bisogna far provvista di acqua non tanto salata per servirsene poi in alto mare. Dopo abbiamo sempre camminato per acqua da un mare in un altro finchè siamo giunti a Costantinopoli,
che è una grande città, più grande di Torino, ma non tanto bella. Ho voluto fare un giro per le vie di quella capitale, che sono molto storte e poco pulite. Ho visto per la prima volta i Turchi, i quali si dicono valorosi in guerra, ma che a vista paiono altrettanti commedianti. Portano due sacchi per calzoni, una camiciaccia copre loro le spalle, in capo poi hanno un berrettone che contiene tre emine di meliga. Sono poi ignorantissimi; sanno nemmeno il piemontese; cosa che sanno i nostri ragazzi più piccoli.
  Ho domandato ad uno di loro, che mi dicesse le ore: l'altro mi rispose: - Rachid Rachid.
     - Io non domando Rachid; domando quante ore sono.
 L'altro: - Rachid Rabadam Rabadam.
  Io: - Va, va col tuo Rachid e col tuo Rabadam: ce ne son già tanti Rabadam al mio paese, che non occorre più cercarne qui.
  Ciò fatto io mi portai tosto al bastimento, e giunsi al momento che i nostri si radunavano per ripigliare il cammino pel Mar Nero. Io era ansioso di vedere quel mare, e mi pensava proprio che fosse nero; ma ho veduto che l'acqua è simile a quella degli altri luoghi; e mi fu detto che si dice Mar Nero per la grande oscurità che rappresenta nella sera, ed anche per le dense ed oscure nebbie da cui è coperto buona parte dell'anno.
 
 
LA CRIMEA
 
Dopo quattordici giorni di viaggio, un mattino sul fare del giorno sento gridare: Crimea! Crimea! Esco anch'io in maniche di camicia per vedere la Crimea; e di lontano vidi una punta, che sembrava quasi un uomo immerso nell'acqua col naso fuori.
  Più mi avvicinava, più diveniva grosso; e infine comparve un paese, dove abitano uomini che hanno corpo ed anima come abbiamo noi.
  Io ci ho trovata poca diversità dai nostri paesi. Colà il sole spunta il mattino, tramonta la sera; di giorno è chiaro e di notte è oscuro, ad eccezione quando splende la luna. La gente poi cammina coi piedi, lavora colle mani, mangia colla bocca, parla colla lingua, vede cogli occhi, sente colle orecchie. Colà c'è anche l'uso che per mangiare bisogna lavorare; ad eccezione di quelli, e non son pochi, i quali si dánno a fare il ladro.
  La diversità di questo paese dai nostri sta qui: tra noi le cose di cibo sono care; colà carissime. Un piatto di minestra dieci soldi, una limonata fatta colla massima economia otto soldi; il pane due franchi e cinquanta centesimi il chilogramma; un litro di vino alquanto buono tre franchi, la coscia di un cappone un franco, e così del resto. Quante cose erano care ma per me e pel mio padrone andavano bene, perchè contribuivano a far danaro.
  Però in mezzo a queste prosperità non mancavano cose che­ venissero a recarci grave molestia. Un caldo eccessivo ci oppri­meva di giorno e un freddo incredibile ci gelava di notte. Di giorno ci sono tafani e mosche impertinentissime, che ci pun­gono senza riguardo; di notte ci sono zanzare, farfalle ed una specie di pulci che non lasciano riposare. Più volte ho udito capitani e generali ad esclamare, che non temevano per nulla i cannoni dei Russi, ma che bisognava cedere a questi anima­ letti, contro di cui valgono più le unghie di un povero conta­dino, che la forza e la spada dei più coraggiosi.
Per avere una giusta idea di quel paese ho interrogato un capitano, che non bontà e cortesia un dopo pranzo m'invitò a passeggiare con lui, e per appagarmi prese a parlare così:
  “ Tu, o Galantuomo, desideri di avere notizie esatte della Crimea, ed io di buon grado ti darò un celino, di quelle cose che sono adattate alla tua capacità e condizione.
  ” La Crimea, anticamente chiamata Chersoneso Taurico, è una penisola circondata dal Mar Nero, dal mare Azoff e mar Putrido A unita agli stati di terra della Russia dall'Istmo di Perekop, che è una lingua di terra lunga circa quattro miglia.
  ” I luoghi a te già alquanto noti sono Balaklava, Alma, lnkermann, Eupatoria, dove gli alleati l'anno scorso riportarono grandi vittorie contro i Russi. - Sulla punta dell'isola, verso il mezzodì, avvi una montagnetta molto fortificata, detta torre Malakoff. Da quella montagnetta si scopre la città di Sebastopoli e dietro alla città vi sono altri forti, che presto cadranno nelle mani degli alleati.
” Ci sono pochi laghi e pochi fiumi.
     ” Un torrente considerevole è la Cernaia, che presentemente divide gli - alleati dalle truppe Russe, che noi presto andremo ad assalire.
  ” La popolazione della Crimea monta appena a dugento mila abitanti, quasi tutti tartari, i quali seguono la religione di Maometto.
  ” La capitale della Crimea è Simferopoli. I principali porti sono Almeschetta, Balaklava e Sebastopoli, che è il meglio fortificato.
  ” Tutto questo paese è poco coltivato. Ci sono molti sabbioni; perciò un caldo insopportabile di estate, con un freddo terribile nell'inverno.
  ” I principali prodotti sono le biade in abbondanza, olio, lino, canapa, tabacco; si coltivano le viti con ottimo successo. Dà pure un buon raccolto il fico, l'olivo, il melagrano; i quali frutti però vanno molto soggetti al guasto delle locuste. Ci sono pure numerose mandre di buoi, di cammelli, di capre, di montoni, di cavalli e di asini grossi al par di quelli che vivono nei nostri paesi. Non intendo parlar di te!
  ” Ci sono pure città, montagne, fiumi, laghi, riviere, che io ti voglio nominare: Karabi, Jaila, Tkhadyz - dugh ........ ”
  Quel cortese capitano voleva continuare a recitarmi una fila di nomi, che io non solo non poteva tenere a memoria, ma nemmeno pronunziare.
  Però l'ho ringraziato della bontà usatami, e sono andato ad eseguire gli ordini del mio padrone, che appunto in quel momento abbisognava dell'opera mia.
 
 
IL COLÈRA IN CRIMEA
 
Appena giunti in Crimea, parecchi dei nostri soldati andarono soggetti a diverse malattie. La più fatale e che menò maggiore strage fu il Cholèra-morbus Da principio si pretendeva che fosse una malattia ordinaria e cagionata dalla stanchezza de viaggio. Ma presto ognuno potè convincersi che era veramente il coléra, in tutto simile a quello che l'anno scorso aveva flagellato i nostri paesi. Io medesimo ne fui spaventato, ma, ripresi alquanto gli spiriti, dissi tra me: - Coraggio, Galantuomo:
la fortuna aiuta i coraggiosi; fa quello che puoi pel tuo prossimo e confida nella divina Provvidenza. - Pertanto mi sono messo di buona volontà a servire il mio padrone, ed anche a prestare agli infermi quell'aiuto che a me era possibile.
  Ma le cose presero un aspetto formidabilissimo. I casi e le morti di coléra moltiplicavansi ogni giorno più. Non vi erano più posti negli ospedali; mancavano medici e medicine. Immaginatevi! Da quella parte dove ero io, non si avea altro rimedio, che sale di canale. Un ufficiale prese un'oncia di questa medicina: ma invece di essere sollevato fu sorpreso da un tal male di pancia, che, come furioso, balzò di letto e corse disperatamente, finchè cadde morto. Io non voglio dirvi di più, perchè tali cose rinnovano grave afflizione a me, e cagionano certamente dolore a voi, che avete tutti un cuor buono e sensibile. Vi basti il sapere, che tutto inspirava terrore e spavento. Mi assicurano che in due mesi dei nostri morirono circa due mila e cinquecento. Quello poi, che porse il colmo alla mia desolazione, fu la morte del mio padrone. Io lo amavo molto ed egli mi voleva molto bene. L'ho assistito fino agli ultimi momenti.
  Quando si accorse che cominciava mancargli la parola, mi chiamò vicino a lui, e mi disse: - Galantuomo, io ti ringrazio della tua assistenza; io non ritornerò più in Piemonte: sono agli ultimi respiri di mia vita. Quivi c'è un sacchetto di scudi, che forma il capitale portato dai nostri paesi; tu li porterai alla mia famiglia. Qua c'è il danaro guadagnato colle nostre fatiche: metà di esso è tua; l'altra metà la darai a que' soldati che tu conoscerai trovarsi in maggior bisogno. Vendi quel tanto che abbiamo qui, il prodotto è pure per te. Tutti i crediti registrati nel libro sieno condonati. Io muoio rassegnato, perchè ho ricevuto i conforti della religione. Continua ad assistermi finchè io sia spirato. Quando poi mi avrai fatta la sepoltura, partiti e ritorna in Piemonte per dare notizia di mia morte a' miei parenti ed amici. Siccome qui non posso fare testamento, perciò la mia roba se la prenda chi ne ha diritto secondo le leggi. Galantuomo! Non abbandonarmi in questi ultimi momenti: il Cielo te ne compenserà: raccomanda l'anima mia al Signore”
  Non potè più continuare. Un violento calore interno congiunto ad una grave oppressione di stomaco in mezzo alle più dolorose agitazioni il tolse di vita. Immaginatevi trista condizione! Io era solo di servizio, due compagni erano già morti per la medesima malattia: dovetti acconciare il cadavere del mio padrone; e poi senza preti, senza accompagnamento alcuno me lo presi tra le braccia e avviluppatolo in una grossa coperta lo sotterrai io medesimo in una fossa scavata a poca distanza dalla nostra tenda. Ciò fatto, per dare un qualche conforto all'afflitto mio cuore mi inginocchiai sopra quella povera tomba e recitai cinque Pater, cinque Ave, cinque Requiem aeternam pel riposo dell'anima del mio padrone.
 
 
I FUTURI DESTINI DELLA PATRIA
 
Aveva eseguito gli ordini lasciatimi dal mio povero padrone; la partenza era fissata al 2 luglio, ed eravi favorevole congiuntura per un bastimento che veniva in Piemonte. Quando alla vigilia dell'imbarco a notte avanzata si presentò da me un uomo sconosciuto, che parlava in maniera da farsi intendere. I suoi modi erano cortesi, il suo parlare inspirava confidenza. - Galantuomo, prese a dirmi, domani tu devi partire per la patria; prima che tu parta di qui, voglio farti vedere cosa, che tu certo non vedi in nessun paese del mondo. Vieni meco. - Io: Dove volete condurmi, e qual cosa volete farmi vedere? - Sconosciuto: lo ti voglio condurre da un Mosul (Direttore), che ci svelerà i futuri destini della guerra e della nostra patria. - La curiosità della promessa, il suo parlare piemontese, l'invito grazioso e la sua fisionomia non mi davano indizio di dover temere cosa alcuna. Io lo seguii. Mi prese egli per mano, mi fece percorrere varie strade; di poi mi condusse in una casa. Oh! là non si finiva più  entro in una camera, traverso un corridoio, poi altre sale, altre gallerie, altri corridoi, monta e cala, finchè, dopo di avere camminato due ore all'oscuro, mi trovai in una grotta bellamente addobbata e risplendente.
         Al primo giungere non mi accorsi, che colà abitasse uomo mortale; già pensava che quello fosse un alloggio destinato per me in quella notte. Ma la guida mi trattenne dall'inoltrarmi dicendo: - Non vedi colui che è assiso a quel tavolino? - Volsi colà il mio sguardo, e vidi un vecchio venerando assiso ad un tavolino. Egli aveva i capelli bianchi come la neve; la faccia alquanto rugosa, ma vegeta, vivace e maestosa; leggeva attentamente in un libro sul cui dorso ho potuto vedere scritto: Esperienza, gran maestro.
  Come si accorse del nostro arrivo, alzò lentamente lo sguardo, e rimanendo tuttora seduto, incominciò a parlare così: - Quale desiderio vi spinse a venire in questo luogo separato dalle abitazioni dei mortali?
  La mia guida rispose: - Noi veniamo qui per offerirti i nostri ossequi e pregarti di svelarci i destini della guerra e di nostra patria.
  Il vecchio: “ I destini della guerra e della vostra patria sono solamente noti a Dio, e a chi egli si degna rivelarli.
  ” State bene attenti, io vi dirò quel tanto che si può già manifestare agli uomini. La guerra è ancor lunga e sarà accanita. Grandi combattimenti, grande spargimento di sangue. Le stragi ed i danni saranno uguali la vittoria degli alleati. Finchè il genere umano non sarà nel tempo stesso travagliato dalla fame, guerra e peste, il mondo non avrà pace.
  ” Tu, Galantuomo, ritornerai in patria. Essa in quest'anno sarà orribilmente flagellata dalla mortalità, e poichè gli uomini attribuiranno al caso questo flagello, così terranno dietro mali estremi. Grandini, siccità, terremoti, carestia, fallimenti di commercio seguiranno. A questi colpi della mano divina gli uomini corrisponderanno con furti sacrileghi, con suicidii, omicidii, bestemmie e con empietà.
  ” Perciò sarà sempre peggiore il destino della tua patria. Partecipa a' tuoi amici, che colà si vuol distruggere trono e religione; crollerà il primo, ma nulla varranno contro alla seconda. Se il ravvedimento degli uomini non fa cangiare i decreti di Dio, si vedranno cose inaudite in tutti i tempi andati. La religione sarà difesa col capo e col sangue de' suoi ministri e de' suoi fedeli; molti prevaricheranno, molti saranno costanti fino alla morte. Dopo ciò cesserà il comando degli uomini, Iddio solo comanderà. Allora i malvagi amerebbero meglio di non esistere, ma non è più tempo. Bisogna che Iddio sia glorificato, i malvagi puniti, i buoni sollevati. Dopo vi sarà pace universale ”.
Io voleva parlare, ma il vecchio soggiunse tosto: - Taci, io non debbo mai essere interrotto quando parlo; tu volevi domandarmi quando avverranno tutti questi mali. Sappi, che sono già cominciati: vari si effettuano in quest'anno medesimo, gli altri di poi. E se gli uomini continueranno a disprezzare la divina legge, i flagelli saranno assai più tremendi di quel che sono stati predetti. L'unico mezzo per mitigarli ed ottener miglior destino si è l'abbandono dell'empietà.
  In sentendo tali cose io andava tra me riflettendo se sognassi, oppure fosse reale quanto vedeva cogli occhi e sentiva colle orecchie; non sapeva se dovessi credere o non credere. Voleva fargli anche qualche domanda, ma fui così sbalordito delle disgrazie che annunziava ai nostri paesi, che non ho più osato parlare. Lo ringraziai, gli feci profondo inchino, e partii. La guida fecemi fare il medesimo cammino di prima. Chiesi più volte che mi dicesse il nome, il luogo della persona, con cui avevamo parlato ei nulla mi volle rispondere in proposito.
  Io non so, amici, se voi crediate a queste cose, che vi ho raccontate del vecchio. Voi fate come volete; io ci crederò di mano in mano che le vedrò avverate. Vi noto solamente, che in generale i vecchi ne sanno più dei giovani, e quelli che parlano sopra l'esperienza, raramente s'ingannano.
  Allora accelerai la mia partenza dalla Crimea, e senza alcun incidente particolare giunsi in patria, dove pur troppo veggo, che si vanno avverando le cose, che quel vecchio mi aveva predetto; e fosse vero che il rimanente andasse fallito. Ma io che sono Galantuomo, e che temo sempre male per me e per gli altri, pavento per l'avvenire. L'anno venturo, se avrò vita, avrò molte cose gravi, curiose e di massima importanza a raccontarvi.
D. Bosco aveva incominciato a scrivere queste pagine nel mese di luglio, ed ecco a proposito ciò che accadeva in Crimea. Nel maggio i Piemontesi sotto il comando del generale Alfonso La Marmora erano sbarcati a Balacklava ove tosto vennero colpiti dal coléra. Molte erano state le vittime, tanto fra i soldati che fra gli uffiziali, e tra questi il prode colonnello dei bersaglieri Alessandro La Marmora.
  Il 6 agosto 50.000 Russi assalivano all'improvviso gli assedianti; ma i Piemontesi presso il torrente Cernaia trattenevano così bene l'impeto dei nemici, superiori di forze, che davano tempo agli eserciti degli alleati di sopraggiungere sul luogo del combattimento ed ottenere un'insigne vittoria.
  L'8 settembre i Francesi, fiancheggiati dagli Inglesi, prendevano d'assalto la torre di Malakoff, baluardo formidabile di Sebastopoli. L'assedio aveva durato quasi un anno, e ogni giorno spaventoso era stato il fulminare delle artiglierie da una parte e dall'altra. Si calcolò che in questa guerra perissero più di 500.000 uomini.
  Finalmente nel dicembre la Russia accettava le proposte di pace che furono discusse a Parigi nel Congresso delle Potenze interessate, e firmate il 30 marzo 1856.
 
 
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