Capitolo 27

Indulgenza plenaria per un santuario di Caselette - Parole di D. Bosco ai giovani sull'anno che finisce -- Ricordi all'intera comunità - L'ultima sera dell'anno - Gli alunni defunti nel 1859 - Strenne personali di D. Bosco a' suoi allievi e di questi a lui.

Capitolo 27

da Memorie Biografiche

del 29 novembre 2006

Nella notte del Santo Natale, D. Bosco, celebrando la S. Messa, non aveva dimenticati nessuno de' suoi benefattori, fra i primi dei quali annoverava il Conte Carlo Cays. A questi egli procurava una desiderata e viva soddisfazione, ed ecco in quale modo.

Sulla sponda sinistra della Dora Riparia a metà costa del monte detto Asinaro, sulle falde del quale sta il paese di Casellette col Castello del Conte Cays, da tempi antichissimi era stata eretta una cappella in onore del fanciullo Abaco, del suo fratello Adiface e de' suoi genitori Mario e Marta, nobilissimi persiani, tutti martiri. Riparata ed ampliata nel 1817, nel 1851 e 1855 dalle Regine e da tutto il popolo aveva ricevuto nuovo decoro e nuovo prolungamento; e nel 1856 lungo la strada che metteva al santuario furono innalzate 15 cappellette con dipinti i misteri della Via Crucis e del Santo Rosario. Questi martiri si manifestavano specialmente patroni dei febbricitanti, e invocati, operatori eziandio di maravigliosi portenti.

Ora il Conte, in favore del Comune di Casellette, aveva fatto istanza a D. Bosco perchè supplicasse il Papa a concedere un'indulgenza plenaria a coloro i quali, nel giorno 19 di gennaio, dai primi vespri fino al cader del sole dello stesso giorno, visitassero detta cappella. Pio IX concedeva e faceva trasmettere a D. Bosco il Rescritto colle solite condizioni in data del 20 dicembre 1859. Il 29 dicembre il Can. Celestino Fissore Vicario generale permetteva che lo si pubblicasse e si desse alle stampe.

Nella sera di questo stesso giorno (29) così D. Bosco parlava ai suoi giovani.

Quest'anno non lo rivedremo mai più; il tempo passtato non ritorna più. Se lo avremo occupato bene, starà là a nostra gloria eternamente; se lo avremo occupato male, starà là eternamente a nostra infamia. Ora quel che è fatto, non si può più disfare. In quest'ultimo caso guardiamo di mettergli un buon cappello, cioè passando bene questi due giorni che ancora ci restano col rinunziare a qualche difetto, col praticare qualche virtù, affinchè almeno possiamo poi dire: Nel 1859 ho lasciato un difetto, ho praticato una virtù. Tommaso da Kempis dice così: “ Noi saremmo presto santi se non facessimo altro in ciascheduno anno, che correggere un difetto solo e praticare una sola virtù ”.

Questo avviso era come l'esordio di ciò, che avrebbe detto l'ultima sera del 1859. E il 31 dicembre così esprimevasi:

 

Miei cari figliuoli, voi sapete quanto io vi amo nel Signore e come io mi sia tutto consacrato a farvi quel bene maggiore che potrò. Quel poco di scienza, quel poco di esperienza che ho acquistato, quanto sono e quanto posseggo, preghiere, fatiche, sanità, la mia vita stessa, tutto desidero impiegare a vostro servizio. In qualunque giorno e per qualunque cosa fate pure capitale su di me, ma specialmente nelle cose dell'anima. Per parte mia, per strenna vi do tutto me stesso; sarà cosa meschina, ma quando vi do tutto, vuol dire che nulla riserbo per me.

Ora veniamo ai ricordi. A tutti in generale. Fatevi bene il segno della santa croce; non volgetevi mai indietro, quando servite la santa Messa; raccomando il silenzio in dormitorio, non fare contratti senza licenza, non fare letture cattive o proibite. Appena uno di voi dubitasse della bontà di un libro, manifesti il suo dubbio a qualche superiore.

Spero che voi metterete in pratica i miei avvisi e tanto ne sono sicuro che voglio che si finisca l'anno con perfetto amore e santa allegrezza. Perciò io perdono a voi qualunque mancanza possiate aver fatta e anche voi perdonatevi a vicenda le offese, che per caso abbiate ricevute. Voglio che incominciate l'anno 1860 senza malumore e senza melanconie. Se vi fosse qualcheduno destinato a stare a tavola di punizione, intendo che gli sia tolto il castigo. Io son pronto a tirare una linea sovra ogni vostra mancanza, prometto di non rinfacciarla mai a nessuno, e di dimenticarla; ma intendo che facciate lo stesso fra di voi. Non già perdonare un'offesa e poi dopo 10, o 15 giorni venuta l'occasione, gettare in faccia all'offensore quella parola, quella mancanza, quell'ammonizione ricevuta, quello sbaglio fatto. Ciò non va; perdonare vuol dire dimenticare per sempre.

Scendendo al particolare dirò agli studenti che procurino nella scienza terrena di cercar la scienza del cielo, la virtù e metterla in pratica.

Agli artigiani dirò che non avendo tempo a pensare molto all'anima nei giorni feriali, almeno vi pensino nei giorni festivi, coll'udire bene la Messa, coll'ascoltare attentamente le istruzioni, col ricevere divotamente la benedizione. Nelle domeniche e nelle feste principali procurino di accostarsi ai Ss. Sacramenti.

Ai chierici ricordo che essi sono venduti al cielo e perciò non pensino più a questa terra: tutto il loro studio sia nel cercare la maggiore gloria di Dio e la salute delle anime. A questo proposito raccomando a tutti di aiutarvi scambievolmente a salvar l'anima, prima col buon esempio e poi coi buoni consigli, stimandoci felici quando possiamo impedire fra i nostri compagni anche un solo peccato veniale; imprestando buoni libri da leggere, esortando all'obbedienza, avvisando quando avvertiste qualche lupo nell'ovile, insomma ricordandoci che un gran santo dice: divinorum, divinissimum est cooperari in salutem animarum.

Ai sacerdoti, sebbene pochi, raccomando che studino di accendersi di uno zelo ardente per le anime.

E a me stesso che cosa dirò? Io dirò (e parlava quasi lagrimando, e con parole interrotte) che mi sento un anno di più sulle spalle, mentre il 1859 sta per dileguarsi coi secoli passati. Questo anno è un tempo di meno che ci resta a vivere e saremmo disgraziati se l'avessimo passato inutilmente. Io sento quanto grave sia la mia responsabilità, che va ogni giorno crescendo, dovendo io rendere stretto conto al Signore dell'anima di ciascheduno di voi. Io faccio quel che posso, ma voi aiutatemi, miei cari figliuoli.

Del resto promettendo tutti noi al Signore di impiegar bene il restante della nostra vita nell'amarlo e servirlo, ringraziamolo dei tanti benefizi che ci ha fatti e dell'averci conservati fino all'anno 1860. Questa grazia non l'ha concessa a tutti. Magone, Berardi, Capra, Rosato, Odetti e altri ancora dove sono che non li vedo in mezzo a noi? Son passati all'eternità, a render conto al Signore di tutto quello che hanno fatto. Perciò io raccomando a tutti voi di tenere la vostra coscienza preparata, perchè il Signore può chiamarvi in questo anno al suo tribunale. Raccomando poi a coloro i quali per paura o per vergogna non osassero confessarsi dal proprio confessore, di cangiarlo, di andare da un'altro, ma che per carità non trascurino di aggiustare i loro conti.

È cosa certa che l'anno venturo in questo stesso giorno più non ci troveremo qui tutti. Perciò vi invito a recitare un Pater per tutti quelli che moriranno nell'anno venturo e per quelli che sono morti nell'anno che sta per finire.

La memoria di questi cari defunti nel libro delle necrologie, indicava il giorno nel quale erano passati all'eternità.

Rosato Carlo da Torino in età di 43 anni nell'Ospedale Cottolengo, il 23 maggio.

Capra Francesco di Centallo in età di 16 anni nel mese di giugno all'Ospedale Mauriziano.

Il 15 agosto in Torino presso i suoi parenti Zucca Giovanni di Cavour in età di 26 anni.

Nell'Ospedale Cottolengo il 26 settembre Odetti Bartolomeo di Vigone di anni 18.

D. Bosco adunque recitato un Pater, Ave e Requiem con tutti i suoi giovani inginocchiati innanzi a lui, scese dalla cattedra e come era sua usanza, incominciò questa sera e continuò nei giorni seguenti a dare la strenna natalizia a ciaschedun giovane in particolare. Questa consisteva in un consiglio, in brevissime ed accentuate parole, perchè fossero intese bene secondo il bisogno o vantaggio del giovane. Questo consiglio era sempre così adatto che restava impresso nella mente e nel cuore di chi lo riceveva. Ed era cosa singolarissima, perchè erano circa 300 quelli, ai quali egli dava simile strenna.

Nello stesso tempo ciaschedun giovane dava a D. Bosco una strenna, la quale consisteva in una letterina, ove era esposto un proprio bisogno, un segreto confidenziale; si chiedeva un consiglio, si dava una spiegazione, si avvisava di un inconveniente accaduto, e anche si osava porgere un rispettoso avviso; o se non altro il giovane prometteva di essere pi√π buono in avvenire, pi√π studioso, pi√π attivo e diligente nel lavoro, o assicurava che avrebbe pregato pel suo superiore.

Il ch. Bonetti Giovanni così in quest'anno notava nelle sue memorie. “Avendo data a D. Bosco la mia strenna in una lettera, la sera del 31 dicembre 1859, egli, secondo il solito di tutti gli anni, mi disse all'orecchio le seguenti parole, che erano la sua strenna per me: Umiltà e fatica ”.

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