Partenza di Giovanni per Chieri - Bontà dei professori - Le prime tre classi di grammatica - Aneddoti di non facile spiegazione.
del 10 ottobre 2006
Giovanni aveva superata la prova, alla quale lo volle sottoporre la benignità del Signore. Cambiata più volte stanza a Morialdo, a Capriglio, a Moncucco, a Castelnuovo, avuto agio di studiare le propensioni, i difetti e costumi dei giovanetti nelle solitarie cascine, nelle borgate, nei piccoli paesi e nei grossi borghi, viene ora condotto in una città, ove turbe di fanciulli studenti ed artigiani gli daranno agio per nuove osservazioni necessarie a sempre meglio conoscere il campo che egli deve coltivare. Lunga e spinosa è la sua via, ma quanto fruttuosa! “Chi non è stato tentato (dalle tribolazioni) che sa egli? L'uomo sperimentato in molte cose, sarà molto riflessivo: e colui che ha imparato molto, discorrerà con prudenza. Chi non ha esperienza, fa poche cose; ma colui che è stato in molti luoghi, acquista molta sagacità”.
Giovanni però deve ancora esperimentare in sè la vita dello studente colle sue angustie, difficoltà, pericoli, privazioni, perchè sappia sostenere, soccorrere, compatire, provvedere, consolare coloro, che come lui debbono giungere alla carriera sacerdotale, seguendo senza esitazione un sentiero sparso di croci. La vita degli studenti a que' tempi non era così facile come ai giorni nostri, nei quali vi sono molti collegi ed ospizi, ove i giovani d'ingegno e di buona volontà trovano facilmente ricovero e sono mantenuti gratuitamente o semigratuitamente. 
D'altronde i ristretti commerci limitavano i beni di fortuna dei genitori. Quindi primo pensiero per le genti di campagna, i cui figli desideravano di farsi prete o intraprendere altra carriera di studi, si era quello di cercare un luogo ove collocarli. Talora si mettevano due o tre in una stessa stanza, presso qualcuno che si prendesse cura di sorvegliarli; per lo più si accomodavano in strette soffitte o da soli o con qualche compagno. La pensione o il fitto era pagato con alcune misure di cereali o di civaie, o con una o due brente di vino, od anche col prestare certi servigi pattuiti. Il vitto o semplicemente la minestra veniva somministrata dal padrone di casa, oppure i parenti inviavano loro settimanalmente il pane necessario. Sovente i giovani partivano dal paese con qualche sacco di farina, di meliga, di patate, di castagne, e ciò doveva loro servire di nutrimento tutto l'anno. Per quanto facesse freddo nei più rigidi inverni, non si parlava di fuoco, giacchè costava assai la legna. Ciò che mancava, i poveri studenti dovevano in qualche modo procurarselo o col trascrivere carte, o col far ripetizioni od altro, coll'occupare in somma qualche ora del giorno in cose diverse delle materie scolastiche. E noi infatti vedremo Giovanni, che per alleviare la madre sua da una spesa molto pesante, impiegherà una gran parte del giorno in cose non certamente profittevoli a' suoi studi. Di qui pure la ragione del suo studiare alla notte, come anche del gettarsi ad un genere di vita da lui chiamata dissipata, ma che, se si considera con attenzione ne' suoi effetti, la si deve dire piuttosto provvidenziale.
Il giorno dopo la Commemorazione dei Defunti dell'anno 1831, Margherita consegnava a Giovanni due emine di grano e mezza di miglio, perchè con questo incominciasse a pagarsi la pensione: - E tutto quello che posso darti, gli disse; a ciò che manca penserà la Provvidenza! - Giovanni Becchis, desideroso di dare al caro amico prova del suo affetto, non avendo cosa alcuna da donargli, venne a caricare sopra il suo carro il baule del corredo e i sacchi di grano e di miglio e glieli condusse gratuitamente a Chieri. Il dì seguente Margherita, posto sulle spalle di Giovanni un sacchetto di farina e uno di granturco per venderli sul mercato di Castelnuovo e far qualche soldo, onde comprare carta, libri e penne, con lui partì, mentre il fratello Giuseppe auguravagli buona fortuna.
In Castelnuovo s'incontrarono con Giovanni Filippello, che aveva la stessa età di Bosco. Margherita, dovendo sbrigare in paese alcuni affari, pregò Filippello ad accompagnare fino a Chieri suo figlio, ove essa non avrebbe tardato a raggiungerlo. Filippello acconsentì, e, ricevuti pochi soldi da Margherita, si mise in viaggio con Giovanni. Dopo due ore di cammino, giunti ad Arignano, sedettero per riposarsi alquanto. Bosco aveva narrato al compagno degli studi già fatti, delle belle cose imparate assistendo alle prediche, alle istruzioni ed ai catechismi, gli proponeva opere di carità da praticare e gli narrava fatti edificanti con opportune riflessioni. A un certo punto Filippello lo interruppe dicendogli: - Vai solo ora a studiare in collegio e sai già tante cose? Presto diventerai parroco! - Bosco, fissandolo attentamente in volto, gli rispose: - Parroco? Sai tu che cosa voglia dire essere parroco? Sai quali sieno i suoi obblighi? Quando egli s'alza dal pranzo o dalla cena, deve riflettere: io ho mangiato, ma e le mie pecorelle hanno tutte avuto da sfamarsi? Ciò che egli possiede oltre il suo bisogno, deve darlo ai poveri. E poi quante altre e gravissime responsabilità! Ah! caro Filippello, io non mi farò parroco. Vado a studiare, perchè voglio consecrare la mia vita pei giovanetti. - Ciò detto, si rimisero in marcia fino a Chieri. Filippello camminava come assorto nel pensiero dello spirito di carità che animava quel suo diletto compagno. D. Bosco stesso ricordava questo dialogo al medesimo Filippello nel 1884, dicendogli: - Mi sono fatto parroco? Margherita non tardò a raggiungere il suo Giovanni, e nel presentarlo alla signora Lucia Matta, che doveva ospitarlo, e deponendo innanzi a lei i sacchi di cereali: - Qui c'è mio figlio, disse; qui c'è la pensione. Io ho fatta la mia parte, mio figlio farà la sua, e spero che non sarete malcontenta di lui - E commossa, ma piena di gioia, se ne ritornò alla sua cascina.
La città di Chieri, lontana da Torino sedici chilometri, a levante, è posta in una pianura dolcemente inclinata verso scirocco, ai piedi di amene colline che da tre lati la circondano. Riparata dai venti boreali, gode di un cielo saluberrimo. Per sei porte si entra nelle sue belle vie, ricche di molte chiese, di palagi, di conventi e monasteri; di istituti d'educazione per la gioventù, fra cui il Seminario e il Collegio per le scuole pubbliche stabilito nell'antico convento dì S. Chiara, e di vari; monumenti che ricordano le glorie passate. Due sono le parrocchie: S. Maria della Scala e S. Giorgio. Nei tempi, dei quali scriviamo, novemila erano i suoi abitanti. In venti fabbriche lavoravano il cotone circa quattro mila operai e diverse filature di seta ne impiegavano cinquecento. I suoi mercati erano fra i più cospicui del Piemonte. A chi era stato allevato tra i boschi e appena aveva visto qualche paesello di provincia, pare dovesse far grande impressione il trovarsi in quella città. Ma Giovanni non si lasciò distrarre dai nuovi spettacoli. Se fin da fanciullo era stato geloso nell'occupare il tempo per darlo alle sue letture; tanto più ora che dipendeva solamente da lui raggiungere la meta prefissagli, armossi di tale energia di volontà, da non ammettere inconsulte divagazioni. Egli stesso scrive: “La prima persona che conobbi fu il sacerdote D. Eustachio Valimberti, di cara ed onorata memoria. Egli mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli: mi invitava a servirgli la Messa, e ciò gli porgeva occasione di darmi sempre qualche buon suggerimento. Egli stesso mi condusse dal prefetto delle scuole, P. Sibilla domenicano, e mi pose in conoscenza cogli altri miei professori. Intanto erano incominciate le scuole. Siccome gli studi fatti fino allora erano un po' di tutto, che riuscivano quasi a niente, avendo bensì molte utili cognizioni, ma disordinate ed imperfette, così fui consigliato a mettermi nella sesta classe, che oggidì corrisponde alla classe preparatoria alla prima ginnasiale. Il maestro di allora, T. Pugnetti, anch'esso di cara memoria, mi usò molta carità. Mi accudiva nella scuola, mi invitava a casa sua, e mosso a compassione della mia età e della buona volontà, nulla risparmiava di quanto poteva per giovarmi.
” Ma la mia età e corporatura mi faceva comparire come un alto pilastro in mezzo a' miei compagni. Ansioso di togliermi da quella posizione, dopo due mesi di sesta classe, avendone raggiunto il primo posto, venni ammesso all'esame e promosso alla classe quinta. Entrai volentieri nella classe novella, perchè i condiscepoli erano più grandicelli e poi aveva a professore la cara persona di D. Valimberti. Passati altri due mesi, essendo eziandio riuscito più volte il primo della classe, fui per via eccezionale ammesso ad altro esame e quindi promosso alla quarta che corrisponde alla nostra seconda ginnasiale.
” In questa classe era professore Giuseppe Cima, uomo severo per la disciplina. Al vedersi un allievo alto e grosso al par di lui comparire nella sala a metà dell'anno, scherzando disse in piena scuola: - Costui o che è una grossa talpa, o che è un gran talento. Che ne dite? - Tutto sbalordito da quella severa presenza: - Qualche cosa di mezzo, risposi: è un giovane che ha buona volontà di fare il suo dovere e progredire negli studi. - Piacquero quelle parole al professore, il quale con insolita affabilità soggiunse: - Se avete buona volontà, voi siete in buone mani; io non vi lascierò inoperoso. Fatevi animo, e se incontrerete difficoltà, ditemele tosto, chè io ve le appianerò. - Lo ringraziai di cuore.
” Era da circa due mesi in questa classe, quando un piccolo incidente fece parlare alquanto di me. Un dì il professore spiegava la vita di Agesilao, scritta da Cornelio Nipote. In quel giorno non aveva meco il libro, avendolo dimenticato a casa; e per celare al maestro quella dimenticanza, tenevami davanti il Donato aperto. Siccome non sapeva su che cosa stare attento, mentre badava alle parole del maestro, volgeva i fogli ora da una parte ora dall'altra. Se ne accorsero i compagni. Uno incominciò, l'altro continuò a ridere a segno che la scuola era in disordine: - Che c'è? chiese il precettore: che c'è? mi si dica sull'istante! - Siccome l'occhio di tutti stava rivolto verso di me, egli mi comandò di fare la costruzione e ripetere la stessa sua spiegazione. Mi alzai allora in piedi e, tenendo tuttora il Donato tra mano, ripetei a memoria il testo, la costruzione con tutti i commenti fatti dal maestro poc'anzi. Quando ebbi finito, i compagni quasi istintivamente, mandando voci di ammirazione, batterono le mani. Non è a dire a quale furia si lasciasse andare il professore; perchè quella era la prima volta che, secondo lui, non poteva tenere la disciplina. Mi diede uno scappellotto, che io scansai piegando il capo; poi tenendo la mano sul mio Donato, si fece dire dai vicini la cagione di quel disordine. Costoro, mentre io era per esporre umilmente la cosa al maestro, dissero: - Bosco ebbe sempre davanti a sè il Donato, ed ha letto e spiegato come se tra mano avesse avuto il libro di Cornelio. - Il professore prese difatto il Donato, mi fece ancora continuare due periodi, e poi all'istante passando dalla collera allo stupore ed all'ammirazione mi disse: - Per la vostra felice memoria vi perdono la dimenticanza che avete fatta: siete fortunato; procurate soltanto di servirvene in bene”.
Ma, nei quattro anni di ginnasio, oltre l'ingegno e la memoria, pare fosse in Giovanni un'altra virtù segreta e straordinaria che l'aiutava. Così opinarono quelli fra i suoi antichi condiscepoli, che ci narrarono i fatti seguenti. Una notte sognò che il maestro aveva dato il lavoro dei posti e che egli stava eseguendolo. Appena svegliato, balzò dal letto e scrisse quel lavoro, cioè il dettato latino; poi si mise a tradurlo e in ciò si fece aiutare da un prete suo amico. Che è che non è, al mattino il professore diede di fatti nella scuola il lavoro dei posti, e precisamente quello stesso tema sognato da Giovanni; dimodochè, senza più usare vocabolari, nè impiegarvi molto tempo, scrisse subito il suo lavoro tale quale si ricordava di averlo fatto nel sogno e gli era stato corretto, e riuscì ottimamente. Interrogato dal maestro, gli espose la cosa ingenuamente, cagionandogli così vivo stupore.
Un'altra volta Giovanni consegnò la pagina del lavoro così presto, che non sembrava possibile al maestro che un giovane avesse potuto in sì breve tempo superare tante difficoltà grammaticali; perciò lesse attentamente quel foglio. Strabiliando nel trovarlo perfetto, comandò che gli portasse la brutta copia nel quaderno. Giovanni gliela diede. Qui nuovi stupori. Il maestro avea preparato quel tema solo nella sera antecedente, ed essendogli riuscito troppo lungo, ne aveva dettato solamente la metà: nel quaderno di Giovanni lo trovò tutto intero, nè una sillaba di più, nè una di meno. Come era andata questa faccenda? Non era possibile che in quel breve tempo Giovanni l'avesse tracopiato, e neppure poteva esservi il minimo dubbio che fosse penetrato nell'abitazione del professore, assai distante da quella ove egli era in pensione. Dunque?... Bosco lo confessò: - Ho sognato. - Per questi e per altri somiglianti avvenimenti, i compagni di pensione lo chiamavano il sognatore.
Io non giudico di questi fatti, nè vado per ora a cercarne la spiegazione. Un'insistente tradizione li perpetuò nell'Oratorio. D. Bosco interrogato non dissentì, anzi di molti altri consimili e di una incomparabile magnificenza a noi faceva racconto. Lo storico della vita di D. Bosco non può passarli sotto silenzio, perchè sarebbe lo stesso che scrivere la storia di Napoleone I senza far cenno di alcuna delle sue vittorie. Il nome D. Bosco e la parola sogno sono correlativi; e se queste pagine li mettessero in oblio, sorgerebbero a migliaia e migliaia le voci degli antichi allievi a chiedere: - E i sogni? - E fu mirabile infatti il ripetersi in lui quasi continuo per sessant'anni di questo fenomeno. Dopo un giorno di pensieri, di progetti, di lavori, posata la stanca sua testa sul capezzale, entrava in una nuova regione di idee e di spettacoli, che lo affaticavano fino all'alba. A questo succedersi della vita ideale alla vita reale nessun altro uomo avrebbe potuto reggere senz'alterazione di mente: D. Bosco invece fu sempre calmo e calcolatore in tutte le sue azioni. Ho presenti le ammonizioni dell'Ecclesiastico: “Le vane speranze e le menzogne sono per lo stolto, e quindi i sogni levano in alto gli imprudenti. Come chi abbraccia l'ombra e corre dietro al vento, così chi bada a false visioni... I sogni dei malvagi sono vanità... Il tuo spirito eziandio sarà soggetto a fantasmi. Non prenderti cura di tali cose, eccetto che fosse mandata dall'Altissimo la visione. Perciocchè molti furono indotti in errore dai sogni e si perderono per aver in essi posta fidanza. La parola della legge sarà perfetta senza queste menzogne, e la sapienza sarà facile e piana nella bocca dell'uomo fedele”. Sta bene; ma è vero eziandio che la bontà paterna del Signore nel Vecchio Testamento e nel Nuovo e nel corso della vita di innumerevoli Santi per mezzo di sogni diede conforto, consiglio, comando, spirito di profezia, voce di minaccia, di speranza, di premio sia per gli individui come per le intiere nazioni.
A questa classe appartengono forse i sogni di D. Bosco? Ripeterò: io non giudico: vi è chi deve giudicare. Dico solamente che la vita di D. Bosco è un intreccio di avvenimenti così meravigliosi che non si può misconoscere la diretta assistenza divina, restando quindi affatto esclusa l'idea che egli fosse uno stolto, un illuso, un seguace della vanità e della menzogna. Chi visse al suo fianco per trenta e per quarant'anni, non conobbe mai in lui il minimo segno da far sospettare volesse egli guadagnarsi la stima de' suoi soggetti, facendosi credere privilegiato di doni soprannaturali. D. Bosco era umile e l’umiltà aborre dalle menzogne. I suoi racconti avevano sempre e unicamente per fine la gloria di Dio e la salute delle anime, ed erano di una semplicità che legava i cuori. Mai udimmo stranezze che indicassero fantasia alterata, o palesassero amore di novità nell'esporre scene riguardanti le verità cattoliche. D. Bosco parlando di questi sogni, ci disse più volte: - Chiamateli sogni, chiamateli parabole, date loro qualsivoglia altro nome che più vi garbi, io sono sicuro che raccontati faranno sempre del bene.
 
 
 
 
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