Capitolo 30

Principio della guerra per l'indipendenza italiana - Insulti all'Arcivescovo di Torino e sua partenza per la Svizzera - Effervescenze pericolose - Mezzi di preservazione e Via Crucis - Musica e passeggiate - Funzione al santuario della Consolata - Visita ai santi sepolcri - La lavanda dei piedi - Il dialogo.

Capitolo 30

da Memorie Biografiche

del 08 novembre 2006

 Sommosse a Vienna, tumulti a Pest, avevano messa l'autorità nelle mani dei nemici dell'Austria. Questi fatti aggiungevano coraggio ai liberali della Lombardia e del Veneto. Padova e Pavia incominciarono ad agitarsi. Il 18 marzo si manifesta una gran commozione a Modena; gli Austriaci ausiliari partono dal Ducato e il Duca Francesco V esce da' suoi domini. Il 20 a Parma la gioventù prende le armi e costringe i tedeschi a sgomberare mentre il Duca Carlo Il concede la Costituzione e poi si ritira a Marsiglia. Il 22, dopo cinque giorni di ostinati combattimenti, i Milanesi scacciano dalla città e dal Castello il presidio austriaco costringendolo a ritirarsi, con gravissime perdite, nel quadrilatero; lo stesso giorno Como, Bergamo, Brescia, Venezia insorte si liberano dallo straniero. Il governo provvisorio di Milano invocava l'aiuto dell'esercito Piemontese e il 23 Carlo Alberto bandiva la guerra all'Austria con un baldo e generoso proclama ai popoli della Lombardia e della Venezia. Il 24 l'Arcivescovo, presente il Re e tutti i pubblici ufficiali, mentre la guardia nazionale era schierata in piazza Castello, cantò il “Te Deum” nella metropolitana per la scacciata dei tedeschi da Milano. Ma nell'uscire dal Duomo una turba di popolaccio, alla quale si erano unite persone che in società si chiamano degne di riguardo, presero ad indirizzare contro di lui parole ingiuriose e a minacciarlo colle pugna, seguendone per un tratto di via la carrozza. Nessuno cercò di far cessare quegli insulti, benchè fossero presenti molti carabinieri. Alla sera si rinnovarono gli insulti sotto le finestre del palazzo arcivescovile con urla e fischi indiavolati. Si voleva costringere l'Arcivescovo ad abbandonare Torino ed il regno.

Il 25 marzo Carlo Alberto partiva per la guerra con 60.000 valorosi soldati, i quali il 26 passavano il Ticino, e una brigata di essi entrava in Milano. Le autorità Ecclesiastiche intanto indicevano preghiere pubbliche ed esortavano le popolazioni a soccorrere le famiglie povere dei soldati, e il Governo stesso chiedeva appoggio e preghiere ai Vescovi. Il 29 il Re poneva piede in Pavia, che gli Austriaci avevano abbandonata, arrivava a Milano e intorno a lui si stringevano le genti lombarde e poi quelle di Parma e di Modena.

Il 29 marzo il santo ed imperterrito Arcivescovo di Torino alle 6 della sera partiva per la Svizzera. Il Ministro degli Interni gli aveva fatto per mezzo di Ecclesiastici di gran merito vive sollecitazioni, acciocchè si allontanasse dallo Stato per qualche tempo finchè gli animi dei suoi avversari si fossero calmati. Anche altre persone benevole andate a visitarlo, fra le quali D. Bosco, avevano giudicata necessaria la sua partenza; e gli facevano osservare essere impossibile resistere a quel tranello delle sette, poichè chi gli aveva fatto dare quel consiglio, aveva forse permessi segretamente i gravissimi insulti da lui sofferti. Prima però di salire in carrozza l'Arcivescovo raccomandò a D. Bosco quei chierici, specialmente i poveri, che s'erano mantenuti obbedienti ai suoi ordini, e che in quel momento erano dispersi. Don Bosco promise che avrebbe corrisposto a quella fiducia e vedremo come non mancasse di parola.

Il 6 aprile anche a Vienna turbe di studenti e di popolani urlavano contro l'Arcivescovo, minacciavano estreme violenze ai conventi, gridando essere Pio IX nemico dell'impero; e il Governo ordinò la soppressione dei Liguorini, delle Liguorine e dei Gesuiti. Senz'altro, religiosi innocenti e povere donne furono buttati sulle vie, senza tetto e senza pane, costretti a chiedere l'elemosina. E dopo pochi giorni i tumulti che si facevano sempre più minacciosi a Vienna, a Pest e a Praga poco mancò non finissero in lotta micidiale colle truppe. Intanto il 7 aprile, i Piemontesi con splendida vittoria cacciavano da Goito gli Austriaci e passavano il Mincio.

Il 21 aprile il generale piemontese Giacomo Durando mandato dal Papa a guardare i confini, non curando gli ordini ricevuti passava il Po con 17.000 pontifici. Il Re di Napoli aveva spediti in Lombardia altri 16.000 uomini in soccorso di Re Carlo Alberto comandati dal vecchio Carbonaro Guglielmo Pepe; e il Governo del Granduca di Toscana Leopoldo II altri 6.000. Truppe piemontesi, chiamate da Governi provvisori per tener in freno i Repubblicani, occupavano i ducati di Modena e di Parma.

Intanto il 25 aprile, con dolore di tutti i veri cattolici, dal quartiere generale di Volta Carlo Alberto decretava il regio exequatur sulle provvisioni di Roma, richiamando in vigore editti dimenticati, e riprovati da Clemente XI e da Benedetto XIV. Il 30 aprile i regi dopo fiero combattimento restavano padroni di Pastrengo e stringevano l'assedio Peschiera, una delle quattro città fortificate, che se arava, o le province Lombarde dalle Venete. Il Re si era posto a Sommacampagna. Gli Austriaci si erano ritirati sulla sinistra dell'Adige.

In Torino giungevano, aspettate con viva ansietà, le notizie di questi fatti, e il popolo tripudiava quasi delirando per le vittorie dell'esercito. Persino nei giovanetti si eccitò tale un'effervescenza ed esaltamento, che senza un qualche ritegno per molti di loro poteva farsi pericoloso. Ad altro più allora non si pensava che alla guerra, di guerra si parlava, di guerra si scriveva, di guerra si cantava nelle case, nei teatri e nelle piazze, e sarei per dire che ancor dormendo di guerra si sognava. I fanciulli medesimi tant'alti parevano divenuti così prodi soldati da trapassare colla punta della spada due Austriaci ad un colpo. Voi li avreste veduti, finita la scuola, o liberi appena dalla bottega o dalla fabbrica, armati di un bastone, unirsi a frotte in questo o in quell'altro luogo, eleggersi un capo, costituirsi in drappelli, esercitarsi alle manovre, armeggiare tra loro, e talvolta venire a battaglia una schiera contro dell'altra, ed ora per imperizia ed ora per troppo ardor bellicoso, si davano e si ricevevano delle bastonate solenni degne di miglior causa. Soprattutto poi nelle Domeniche e nelle altre solennità della Chiesa, i viali e le adiacenze della città parevano tramutarsi in piccole piazze d'armi Aggiungevano ebbrezza alle giovanili fantasie, il suono dei tamburi delle trombe colle manovre e sfilate delle guardie nazionali, l'arrivo dei prigionieri di guerra, le feste pubbliche rinnovate ad ogni vittoria.

Il catechismo della quaresima era incominciato il 13 marzo, ma per le cause sovraccennate, in quasi tutte le parrocchie le classi si diradavano e talune restavano come deserte. Non era moralmente possibile che in mezzo a tanta dissipazione anche i giovani dell'Oratorio non venissero a soffrire detrimento nella loro condotta. Per verità parecchi nella festa mancavano alle sacre funzioni, e nei giorni feriali non si vedevano ai catechismi; altri v'intervenivano a malincuore; molti vi si mostravano annoiati e disattenti; la frequenza poi alla confessione e alla comunione veniva ridotta ai minimi termini.

Ad impedire questo malessere religioso e morale, che minacciava i giovani dell'Oratorio, era d'uopo che l'industriosa carità e lo zelo di D. Bosco trovassero dei mezzi efficaci. Nè questi si fecero molto aspettare. Egli incominciò colla preghiera.

In quest'anno introdusse la santa pratica dell'esercizio della Via Crucis, la quale s'incominciò coi giorno lo del mese di marzo e si ripetè negli altri venerdì fino al termine della quaresima. Volle che vi assistessero tutti i giovani della Comunità colla maggior devozione possibile; a questi si univano molti giovani esterni ed altre persone dei vicinato che per comodità nei giorni feriali venivano ad ascoltare la santa Messa e a confessarsi. D. Bosco stesso vi prendeva parte principale, compreso da tali sensi di compassione al pensiero dei patimenti sofferti dal Divin Salvatore per la nostra salute, che il suo contegno valeva come predica efficacissima.

Intanto acconciandosi alle esigenze dei tempi, in tutto ciò che non era disdicevole alla religione e al buon costume, egli non esitò di permettere ai giovani che facessero ancor essi nel cortile dell'Oratorio le loro manovre, anzi trovò modo di avere una buona quantità di fucili senza canne con appositi bastoni. Appose per altro la condizione che non si dispensassero delle busse in copia come si faceva tra Piemontesi ed Austriaci, e che al suono del campanello pel catechismo ognuno deponesse le armi e si portasse in chiesa. Diede ancor principio a parecchi altri nuovi giuochi di ginnastica meno pericolosi; provvide bocce, piastrelle, e via dicendo. Faceva ripetere più volte il divertimento della pignatta, e la corsa nel sacco, e rappresentare eziandio oneste commediole e piacevoli farse. Insomma nulla risparmiò, affinchè tutti, chi in un modo e chi in un altro, avessero agio di trastullarsi nell'Oratorio, assistiti sempre e paternamente sorvegliati.

Potente mezzo di preservazione riuscì anche la scuola di canto. Alle lezioni di musica vocale D. Bosco vi aggiunse quelle di pianoforte e di organo, nonchè per molti la musica strumentale, che suscitò un grande entusiasmo. Mentre si attendeva ad organizzare la banda e addestrare alcuni giovani a strimpellare sul piano per far guaire l'organo a suo tempo, la musica vocale si perfezionava. Quindi preparati per benino i cori ed esercitate molte graziose vocine Don Bosco li condusse a cantare nelle pubbliche chiese di Torino in occasione del mese di Maria e di altre funzioni, a cui tutti i giovani prendevano parte. Questo li attirava e legava sempre più all'Oratorio e faceva del bene altresì tra il devoto popolo. Imperocchè l'essersi fino allora udito sempre sulle orchestre voci robuste e d'uomini adulti; faceva sì, che i canti a solo, i duetti e i cori di voci fanciullesche risvegliassero tra i fedeli l'idea del canto degli angioletti, e toccassero più sensibilmente le fibre del cuor umano; e perciò non era raro il caso di vedere in quelle funzioni uomini e donne a versare lagrime di consolazione. Per la qual cosa da tutte parti si parlava della musica di D. Bosco, la si ambiva, la si cercava per le feste e solennità; e quindi con grande giubilo dei giovani si cantò più volte non solamente a Torino, come alla chiesa del Corpus Domini e della Consolata, ma in appresso si andò eziandio a Moncalieri, Rivoli, Chieri, Carignano e in più altri paesi circonvicini. L'esimio canonico Luigi Nasi di Torino e il Sac. Don Michelangelo Chiatellino di Carignano continuavano per lo più ad essere i due fidi accompagnatori della società filarmonica. Colla loro perizia musicale essi la toglievano dal rischio di far dei fiaschi, le facevano fare la più bella figura del mondo, e le procacciavano sperticate lodi. L'amor proprio dei giovani soddisfatto, le passeggiate che essi sospiravano per giungere alla meta prefissa, le merende ed anche i pranzi che erano apparecchiati nelle parrocchie pel loro arrivo, facevano dimenticare ogni fantasia politica. Tra le altre una bella festicciola venne fatta in quell'anno al vicino Santuario della Consolata. I giovani vi si recarono dall'Oratorio processionalmente. Il canto per via e la musica in chiesa trassero gran folla di gente appiè di Maria Consolatrice. Si celebrò la Messa e si fece da molti la santa Comunione. In fine D. Bosco tenne un breve discorso, in cui parlò delle amabilità di Maria, infervorando tutti ad amarla. - “ Maria, diceva egli tra molte altre cose, Maria è la creatura più amata e la più amante. L'ama Iddio Padre, l'ama Gesù suo divin Figliolo, l'ama lo Spirito Santo, l'amano gli Angeli, l'amano i Santi, I' amano tutti i cuori ben fatti.

Questo medesimo Santuario è una prova lampante del come in questa città sia sempre stata amata Maria. Ella poi ama noi con l'amore di una madre; e se ama tutti i cristiani in genere, porta un amore più tenero alla gioventù. Maria fa come il divin suo Figlio Gesù, il quale voleva tanto bene ai fanciulli, che li avrebbe sempre voluti presso di sè a fargli corona. Se Gesù diceva agli Apostoli: - Lasciate che i fanciulli mi vengano a trovare, Maria va pure ripetendo a sua volta: - Chi è piccolo venga da me: Si quis est parvulus, veniat ad me. È soprattutto col suo amore dolcissimo, che Ella si mostra la Consolatrice degli afflitti: Consolatrix afflictorum. Rendiamole dunque il contraccambio, amiamola ancor noi, miei cari figliuoli; e per amor suo fuggiamo il peccato. A ricordo poi di questa devota visita lasciamo qui appiè di Maria il nostro povero cuore, e preghiamola che lo accetti e ce lo conservi sempre puro ed immacolato; facciamo sì, che all'ombra dei suo manto noi possiamo vivere contenti e morire consolati ”.

Questa processione venne poi fatta ordinatamente a quel caro Santuario una o due volte all'anno, fino al 1854, e i giovani scendevano sempre nella cappella sotterranea per recitar ancora una preghiera.

La Settimana Santa, porse anche occasione ad infervorare i giovani nella pietà. Il Giovedì si fece in processione la visita ai Santi Sepolcri. Andando da una chiesa all'altra della città cantavano salmi o lodi in musica, e giovanetti di ogni età e condizione, tratti dal canto e dall'esempio, vincendo ogni rispetto umano, si univano alle loro file con trasporto di gioia. Giunti sul luogo, dopo alcuni minuti d'adorazione, le voci più belle, con una espressione la più commovente, cantavano la Passione o qualche mottetto, fattovi da D. Bosco appositamente imparare. A quelle dolenti armonie molte persone non potevano trattenere le lagrime, e da una chiesa li seguivano in un'altra per piangere di nuovo sulla tomba di Gesù. Questo pietoso spettacolo riuscì d'incoraggiamento a certi adulti i quali in seguito ad alcune burle, o se vogliamo dir meglio, insulti e disprezzi non osavano più prendere parte a quella pratica di religione.

In sul cader di quel giorno si fece per la prima volta nella cappella dell'Oratorio la funzione del Lavabo, ossia della lavanda dei piedi alla presenza di moltissimi giovani. A tal uopo ne furono scelti dodici, rappresentanti i dodici Apostoli. Disposti in giro nel presbitero, si cantò il tratto di Vangelo prescritto dalla Chiesa; poscia D. Bosco, cinto di un pannolino, s'inginocchiò dinanzi ad ognuno, e lavò loro i piedi, come fece il divin Salvatore ai discepoli suoi nell'ultima cena, li asciugò e baciò con umiltà profonda. Mentre ciò si compieva i cantori tra le altre facevano risuonare queste parole del rito: Ubi caritas et amor, Deus ibi est: Ov'è carità ed amore, vi è Dio. E quest'altre: Cessent iurgia maligna, cessent lites; et in medio nostri sit Christus Deus; vale a dire: Cessino le maligne contese, cessino le liti; e in mezzo di noi regni Gesù Cristo Dio.

Un morale discorso, che tenne dietro, spiegò il significato e segnalò gli ammaestramenti della sacra cerimonia, una delle più atte ad educare ed informare i giovani cuori alle due principali virtù del Cristianesimo, l'umiltà e la carità.

Dopo la funzione i giovani Apostoli si assisero a frugale cena con D. Bosco, che li volle servire di propria mano per meglio rappresentare l'ultima cena del Divin Salvatore. In ultimo, fatto loro un grazioso regaluccio, li mandò a casa ricolmi di gioia. Questa sacra cerimonia prosegui a praticarsi tutti gli anni nell'Oratorio con molta edificazione, e fu una delle predilette da D. Bosco, il quale continuò a celebrarla finchè gli bastarono le forze. Egli stesso sceglieva gli Apostoli fra gli alunni più buoni, e ne aggiunse un decimoterzo. Invitava un sacerdote a dire alcune parole ai suoi giovani prima di incominciar la funzione, e nel 1850 fu scelto D. Giacomelli. Nell'atto di quella lavanda il suo spirito di fede, umiltà e semplicità inteneriva i cuori di tutti gli astanti. Dopo la cena il regalo ai suoi piccoli apostoli era generalmente un fazzoletto bianco ed un crocifisso. Si continuò eziandio la Visita ai Santi Sepolcri, ma processionalmente e in corpo solo fino al 1866. D. Bosco accompagnava sempre i suoi giovani, dopo aver chiesto il consenso dei Rettori delle singole chiese fissate da lui per stazioni di quel pio pellegrinaggio. Grande era l'accrescimento di cristiana pietà nella popolazione edificata dal contegno devoto di quella balda gioventù. Quando poi le circostanze più non permisero queste visite, si supplì collo stabilire nella cappella dell'Oratorio altre pratiche di pietà adattate a quei memorabili giorni: per es. la visita al SS. Sacramento colla corona del Sacro Cuore di Gesù, la Via Crucis ed il canto in musica dello “Stabat Mater”.

Coi mezzi suesposti dunque D. Bosco riuscì a richiamare e trattenere i suoi giovani, di maniera che bene istruiti nel catechismo, il 23 aprile celebrarono numerosissimi la loro Pasqua. Ma si voleva che tale affluenza non cessasse, e per impedire le assenze domenicali un altro mezzo posero in opera D. Bosco e il Teol. Borel. Oltre al distribuire sovente dei piccoli doni ai giovani più frequenti al Catechismo e ai meno devoti, come sarebbero immagini, medaglie, e talora frutta e dolci, essi presero a fare l'istruzione o la predica della sera quasi sempre, sotto forma di dialogo. Il buon Teologo, mescolato tra i fanciulli, faceva da penitente o da scolaro, ed usciva di tratto in tratto in domande e risposte così lepide, che li tenevano attenti e li facevano ridere, nel mentre che D. Bosco dalla cattedra istruiva e moralizzava secondo il bisogno. Questa maniera d'istruzione fu sempre pei giovani cosa desideratissima, e bastava che si dicesse che la domenica seguente vi sarebbe stato il dialogo, perchè la cappella si riempisse dei piccoli uditori.

 

 

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