L'Oratorio trasportato ai Molini di S. Martino - Ultima domenica nella cappella del Rifugio - Il trapianto dei cavoli e un discorsetto di D. Bosco - Le prime accademiole - I giovani condotti qua e là per ascoltare la santa Messa
del 24 ottobre 2006
 Il nostro Oratorio ne' suoi primi tempi sembra che si possa paragonare alle famiglie degli antichi patriarchi: di tratto in tratto come quelle levava le tende da un luogo per andare a piantarle in un altro. - Mi ricordo, narrava Buzzetti Giuseppe, che talora il nostro caro Don Bosco, alludendo al fatto del popolo Ebreo che partiva dall'Egitto, s'innoltrava nel deserto e successivamente costruiva i suoi accampamenti in varie stazioni, incoraggiavaci a sperare che tardi o tosto Iddio avrebbe dato a noi pure una Terra Promessa, dove fermare la stabile nostra dimora. D. Bosco, infatti, era pieno di questa fiducia. “Non tremerà e non avrà paura di cosa alcuna colui che teme il Signore: perchè questi è sua speranza”. Si recò pertanto presso Mons. Fransoni e gli fece vive istanze, perchè, mediante sua raccomandazione, il Municipio di Torino gli accordasse in uso la chiesa di S. Martino dei così detti Molassi, ossia Molini di città, posti in piazza Emmanuele Filiberto, dal lato di levante negli edifizi verso la Dora. L'Arcivescovo accondiscese volentieri. Egli stimava straordinariamente Don Bosco, lo proteggeva sempre in ogni modo, e lo intratteneva a lungo con grande famigliarità. Talora lo invitava a pranzo ed alcuna volta volle confessarsi da lui; ed erasi degnato di venire al Rifugio per amministrare ai giovani il sacramento della cresima.
La lettera di Monsignore fu recapitata al palazzo del municipio con un memoriale del Teologo Borel, il quale, come cittadino conosciuto da tutti, rappresentava sovente in quegli anni la persona di D. Bosco presso le autorità. Per altro questo santo prete faceva figurare in ogni circostanza il suo caro amico e gli dava gloria di tutto il bene che si operava al Rifugio, esaltavalo quanto più poteva al cospetto della gente, nascondendo se stesso, la propria cooperazione e le proprie opere sotto il manto di un'ammirabile umiltà. Così lasciò scritto lo stesso D. Bosco.
Siccome i Sindaci e in generale il Municipio si erano persuasi dell'insussistenza di quanto in odio ai giovani di D. Bosco aveva scritto il defunto Cappellano di S. Pietro, così la domanda questa volta fu bene accolta ed esaudita. La risposta al Te logo Borel era del tenore seguente:
 
 
Città di Torino - Gabinetto del Mastro di Ragione  - N. 250
Torino, li 12 di Luglio 1845
 
M. III. e M. Rev. Signore,
 
La Ragioneria, a cui ho riferito la memoria indirizzatami da V. S. Molto Ill. e M. Rev., avendo annuito a che la S. V. possa servirsi della cappella dei molini per catechizzare i ragazzi dal mezzodì fino alle ore tre, con che non sia lecito ai medesimi d'introdursi nel secondo cortile dei fabbricato dei molini e non si porti impedimento alla celebrazione della messa nei giorni festivi; mi torna gradito di renderne partecipe V. S. M. III. e M. Rev., persuaso che ella sarà per adoperarsi acciò nessun inconveniente sia per derivarne dall'accordatale permissione. Ho l'onore di rinnovarmi con distinta considerazione
Della S. V. M. Ill. e M. Rev.
 
Devot. e Obb. Servitore
IL Mastro di Ragione'
D. Pollon (Cav.)
 
Appena D. Bosco ebbe in mano questo scritto, si recò a visitare la cappella designata, s'intese con quelli che l'avevano in custodia, affittò nell'edifizio attiguo una stanza a pian terreno per suo uso, informò il suo Parroco, quello di Borgo Dora, della licenza ottenuta, e nello stesso giorno col Teologo Borel formò il suo programma.
La Domenica IX dopo Pasqua, 13 luglio i giovani si raccolsero per l'ultima volta ad udire la santa messa nella prima loro cappella di S. Francesco di Sales, finita la quale, D. Bosco diede il disgustoso annunzio che era giuocoforza abbandonare quel sito. Fu un istante di turbamento e di rammarico, poichè i giovani amavano quel luogo come fosse loro, proprio; ma egli in bel modo assicurandoli, fece loro coraggio, e li invitò pel dopo mezzodì a venirgli in aiuto per trasportare alla nuova chiesa gli oggetti del culto divino e della ricreazione. Tutti furono puntuali. Il Teologo Borel disse loro alcune poche parole di congedo: - Il sito che noi dobbiamo lasciare, deve essere per noi come quelle osterie, in cui il pellegrino si riposa durante il viaggio e donde riparte ben tosto per riprendere la sua via. Dunque coraggio e... in marcia! Seguite dappertutto e assidui l'Oratorio vostro nel suo errante ed incerto viaggio... Non istancatevi... La Provvidenza troverà per l'Oratorio una stabile dimora. Ma prima tocca a voi fargli una dimora fissa nei vostri cuori, la quale sia al riparo da tutte le esterne vicissitudini... Amate e praticate la preghiera mattino e sera, amate e frequentate i catechismi, ascoltate sempre la santa Messa alla domenica.... andate volentieri a confessarvi bene e a comunicarvi. Fuggite chi bestemmia, chi dà scandalo, chi parla male, chi vorrebbe collo scherno tenervi lontani dalle cose di chiesa! Se farete cosi, avrete l'Oratorio stabile nel cuore. Dunque?... Addio, miei cari figliuoli. - Il Teologo Borel era profondamente commosso e, fatta una breve pausa, esclamò con voce energica: - Ma prima ringraziamo il Signore che ci ha preparato ai Molini un nuovo asilo! Te Deum laudamus! Ei tacque, ed ecco ad un cenno di D. Bosco seguire un movimento indescrivibile e dilettevole ad un tempo. Chi dà di piglio a panche e chi ad inginocchiatoi; questi si carica sulle spalle una sedia e quegli un quadro; uno porta un candelliere, un altro la croce. L'uno ha sottobraccio i paramentali, l'altro tiene in mano le ampolline o qualche statuetta, e D. Bosco in mezzo a quel tramestio, era tutto occupato a far deporre quegli oggetti che riputava inutili nel nuovo Oratorio e a mandarli in sua camera. I più festosi portavano stampelle, taschetti di bocce e altri giuochi; ma tutti ansiosi di vedere le meraviglie del luogo che doveva accoglierli. Così in lunga fila, a guisa di popolare emigrazione, si andò a piantare le tende e stabilire il quartiere generale presso i Molini. Al rumore e alla vista di tanti ragazzi la gente di quei dintorni traeva curiosa, e gli uni uscivano sulle porte, gli altri si mettevano alle finestre delle case, tutti domandavano che cosa fosse e dove andassero. Ciò servì mirabilmente a far vie meglio conoscere l'Oratorio in quelle parti, e attirarvi molti altri giovanetti della città.
Giunti sul luogo e deposta ogni cosa nella stanza affittata, tutti entrarono in chiesa, e il caro D. Bosco, colla sua popolarità e piacevolezza più unica che rara, tenne all'immensa folla dei giovani il seguente discorso: - I cavoli, o amati giovani, se non sono trapiantati, non fanno bella e grossa testa. Così possiamo dire dei nostro Oratorio. Finora esso fu trasferito di luogo in luogo; ma nei vari siti dove fu piantato fece sempre presa con notabile incremento. Il tempo che passaste al Rifugio non fu senza frutto; e voi, come a San Francesco d'Assisi, continuaste ad avere soccorsi spirituali, ristori dell'anima e del corpo, catechismi e prediche, divertimenti e trastulli. Presso all'Ospedaletto era incominciato un vero Oratorio: colà avevamo una chiesa per noi, un luogo ritirato ed opportuno; ci sembrava perciò di aver trovato una stanza durevole e la vera pace; ma la divina Provvidenza dispose che partissimo ancora di là, e qui ci trapiantassimo. Vi staremo molto tempo? Nol sappiamo. Comunque sia, noi speriamo che come i cavoli trapiantati, così il nostro Oratorio crescerà nel numero dei giovani amanti della virtù, crescerà il desiderio del canto, della musica, ed avremo col tempo non solamente le scuole festive e serali, ma le diurne altresì e dei laboratori; e celebreremo insieme delle belle feste. Non affanniamoci dunque. Non dubitiamo neppur un istante sul prospero avvenire del nostro Oratorio. Gettiamo ogni nostra sollecitudine tra le mani del Signore, ed Egli avrà cura di noi. Egli già ci benedice, ci aiuta, ci provvede; Egli penserà altresì al luogo conveniente per promuovere la sua maggior gloria e il bene delle anime nostre. Ma intanto ricordiamoci che le grazie del Signore formano come una specie di catena in guisa che una è collegata coll'altra. Noti rompiamo questa catena commettendo peccati: approfittiamo delle prime grazie di Dio, e ne avremo da Lui delle altre e poi delle altre ancora. Corrispondete dal canto vostro allo scopo dell'Oratorio; frequentatelo, istruitevi; e così voi col divino aiuto camminerete di virtù in virtù, diverrete buoni cristiani e probi cittadini, e giungerete un dì alla patria beata, dove la infinita misericordia dei Nostro Signor Gesù Cristo darà a ciascuno il premio che si sarà meritato.
Le funzioni di chiesa in quella sera ebbero compimento con un dialogo scritto da D. Bosco e recitato da alcuni giovani nel cortile al cospetto di tutti gli altri, che ridevano di cuore ai frizzi pronunziati da colui, che sosteneva la parte buffa. Aveva prestato l'argomento quella nuova trasmigrazione, le circostanze che l'accompagnavano, la proibizione a chiunque di essi di innoltrarsi nel recinto interno delle case de' Molini, e di noti porre il minimo impedimento alla celebrazione della messa nei giorni festivi, detta a profitto degli impiegati del Municipio e de' mugnai. D. Bosco reputandosi semplice e materiale istrumento dell'impresa incominciata da Maria SS., questa opera riguardava e riguardò sempre con tanta venerazione, che il più piccolo incidente era per lui un avvenimento da celebrarsi con speciale festa. Anche per i giovani era una di quelle novità che recava loro tanto piacere. Con simile dimostrazione e con qualche cantico aveva festeggiato l'inaugurazione della chiesuola all'Ospedaletto e così continuò arrivando nei luoghi delle altre stazioni, nello stabilirsi in Valdocco e in molte altre circostanze da lui giudicate degne di nota. Mutava però sempre nel nuovo dialogo il caratterista che ora era un gianduia che parlava il dialetto piemontese, ora un tedesco che intedescava il suo italiano, ora un balbuziente che sibilando o gorgogliando biascicava con istento le parole: e via di siffatti generi. Buzzetti Giuseppe conservò per molti anni questi dialoghi, che però non furono più ritrovati dopo la sua morte.
Da questo giorno memorabile in tutte le feste si vedevano accorrere le turbe giovanili in quella parte della piazza Emanuele Filiberto ove aprivasi il portone dei molini. Tuttavia quantunque le parole di D. Bosco e del Teologo Borel infondessero coraggio, è mestieri confessarlo, quel sito ai giovanetti non piaceva guari. In quella chiesa si compieva solo una parte delle pratiche di pietà: per un motivo inerente alla parrocchia, non si poteva dire una seconda messa, non fare la comunione, elemento fondamentale dell'Oratorio, non compiere altre religiose funzioni. Alla sola messa che vi celebrava un Cappellano il concorso dei fedeli era tale da non permettere l'entrata ai giovani. Perciò al mattino della festa erano costretti a recarsi nuovamente in qualche chiesa di Torino, e fare altrove le loro divozioni, con maggior disturbo e minor profitto. Infelicissimo era poi il luogo della ricreazione: imperocchè molti dovevano trattenersi sulla pubblica via e nella piazza avanti alla chiesa, per dove gente, vetture, carri e cavalli passavano in ogni istante ad interrompere i loro trastulli. Ma non avendo per allora luogo migliore, si adattavano come meglio potevano, aspettando qualche altra provvidenza dal cielo. Il numero di quei giovani tra grandi e piccoli ascendeva a quasi trecento; e D. Bosco più non li conduceva per la benedizione alla cappella dei Fratelli delle Scuole Cristiane perchè avrebbero impacciato quella scolastica congregazione domenicale, occupando tutto lo spazio.
 
 
 
 
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