La carità di Giovanni verso i condiscepoli non ammette eccezione - Egli è l'anima dei divertimenti - Sfida col ciarlatano alla corsa, al salto, alla bacchetta magica e sulla punta dell'albero - Coi giuochi impedisce i discorsi pericolosi.
del 11 ottobre 2006
Durante le angustie sovradescritte, cui dovette soggiacere il nostro Giovanni per decidere di sua vocazione, ei punto non cambiò del suo tenore di vita; per il che niuno, nè dei compagni, nè dei superiori, si addiede del pericolo corso di non più rivederlo tra di loro. Ed egli, continuando ad usare verso de' condiscepoli la solita carità scolastica di spiegar loro le lezioni non bene intese e d'insegnare a fare i compiti, di tutti si attirava sempre più la stima e l'affezione. Anzi è da notare come questa sua carità non ammetteva eccezioni. Narrava il signor Pompeo Villata d'aver più volte udito da un suo zio, vivente ancora nel 1889, come nella scuola vi erano quattro cinque giovanetti ebrei, i quali si trovavano assai impacciati pel còmpito che dovevano fare dal venerdì al sabato a sera: imperciocchè, secondo il rigore della legge loro insegnata dal rabbino, non avrebbero potuto ciò fare senza colpa, e d'altronde tale omissione era loro causa di vivo rincresci mento e di rossore, dovendo comparire negligenti in faccia a tutta la scolaresca. Giovanni, preso da compassione per poverini, toglievali d'impaccio ogni sabato, scrivendo loro il lavoro dato dal maestro. Ciò faceva per impedire che operassero contro coscienza e che fossero esposti ad osservazioni e critiche poco caritatevoli dei compagni. In quei tempi gli Ebrei erano solamente tollerati nel civile consorzio. Ma tanta carità gli guadagnò talmente i loro animi, che ebbe perfino l'ineffabile consolazione di procurare ad uno di essi la grazia della conversione e del santo Battesimo.
Eziandio ai giovanetti popolani estendeva le sue cure. Nei giorni festivi egli andava per le piazze e per le strade in cerca di essi, per condurli, con sante industrie, al catechismo. Talvolta compariva nei luoghi ove i più riottosi si raccoglievano per giuocare, e mettendosi nella partita e guadagnando, prometteva di restituire la somma vinta, purchè lo seguissero alla chiesa. Non è quindi a far le meraviglie se egli possedeva il cuore di tanti amici. Il dottor Giovanni Marucco di Chieri così di lui ci attesta: Io lo ammirava per la sua ritiratezza, modestia e mansuetudine. Mai udii dalle sue labbra una parola scorretta o d'impazienza; caritatevole con tutti, era desiderato specialmente dagli scolari delle classi inferiori. A lui nessuno poteva dare una negativa. Correggeva con carità i compagni, i quali dopo le sue parole non osavano più contrastare. Negli esami si distingueva sempre. Era una gara tra professori e compagni per mostrargli affezione e desiderarne la compagnia. Egli non poteva essere più buono di quel che era”. Il dottor Gribaudi, suo compagno, raccontava ai superiori dell'Oratorio: “Sospiravamo il momento di poterci trattenere con lui, perchè i suoi bei modi esercitavano sopra i nostri animi un fascino irresistibile, ed ogni qual volta io ed altri miei compagni potevamo fargli corona e udire i consigli, coi quali ci spronava a fuggire il male e a fare il bene, confermandoli con qualche opportuno esempio, noi eravamo felici”. D. Giacomo Bosco aggiungeva: “Nelle sere della bella stagione i compagni in numero di venti e più andavano a radunarsi vicino ad un ponticello fuori della città di Chieri e lo aspettavano, gli uni appoggiati, gli altri seduti cavalcioni sul parapetto. Il suo arrivo produceva in tutti una viva gioia: si stringevano intorno a lui, ed egli incominciava a raccontare cose sempre nuove varie, edificanti e con tanta piacevolezza che un'ora sembrava un minuto. Quando, trattenuto da qualche affare, non compariva al convegno, tutti restavano malcontenti e sospiravano di vederlo nella sera seguente”. È proprio vero che “l'uomo amabile nel conversare sarà amico più che fratello”. Quei giovanetti erano così presi di affetto per lui, che, mancando talora alcuno in famiglia a qualche dovere, le madri non sapevano trovar maggior castigo, che quello di privarli per breve tempo della sua compagnia.
Giovanni era eziandio l'anima di tutti i loro divertimenti. Così lasciò scritto: “In mezzo a' miei studi e trattenimenti diversi, come suono, canto, declamazione, teatrino, cui prendeva parte di tutto cuore, aveva eziandio imparati molti altri giuochi. Carte, tarocchi, pallottole, piastrelle, stampelle, salti corse erano tutti divertimenti di sommo mio gusto, in cui se non era celebre, non era certamente mediocre. Molti li aveva imparati a Morialdo, altri a Chieri; e se ne' prati di Morialdo era piccolo allievo, in quell'anno era divenuto un compatibile maestro. Ciò cagionava molta meraviglia, perchè a quell'epoca tali giuochi, essendo poco conosciuti, parevano cose dell'altro mondo. Soleva spesso dare pubblici e privati spettacoli. Siccome la memoria mi favoriva assai, così sapeva a mente una gran parte dei classici, specialmente poeti. Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Monti ed altri assai mi erano così famigliari, da potermene valere a piacimento come di roba mia. Per la qual cosa riuscivami assai facile a trattare all'improvviso qualunque argomento. In quei trattenimenti, in quegli spettacoli talvolta cantava, talora suonava, o componeva versi che giudicavansi capi di opera, ma che in realtà non erano che brani d'autori accomodati agli argomenti proposti. Per questo motivo non ho mai date ad altri le mie composizioni; e taluna che fu scritta, ho procurato di consegnarla alle fiamme. A forza però di fare versi e rime, aveva preso tale abitudine di rimar le parole, che, quando poi incominciai a predicare, tutti notavano l'abbondanza delle parole rimate che a grande mi sfuggivano dalla bocca, sicchè dovetti fare un fatica per rimediare a quel difetto”. Rimase memoria in modo particolare di due accademie, alle quali egli prese parte, l'una in omaggio al sindaco e l'altra in onore della stessa città di Chieri.
La sua abilità nella ginnastica fu cagione in quest'anno di un singolare avvenimento. Alcuni esaltavano a cielo un saltimbanco, che aveva dato pubblico spettacolo con una corsa a piedi, percorrendo la città di Chieri da una all'altra estremità in due minuti e mezzo, che è quasi il tempo della locomotiva a grande velocità. Costui riserbava per la domenica i giuochi più nuovi e più straordinari, per cui attirando molti giovanetti intorno a sè, ne avveniva che a Giovanni ne restavano pochi da condurre alla chiesa. Egli perciò era sommamente rattristato. Cercò di far capire ai giovani che facevano male tener dietro in quelle ore al giocoliere, parlò ai sordi. Mandò persone che invitassero il saltimbanco a desistere dà suoi giuochi, almeno in tempo delle funzioni in Sant’Antonio; ma a tale proposta lo screanzato si era messo a ridere. Anzi, tronfio della sua abilità, erasi vantato di superare in destrezza tutta la gioventù del collegio, pronto ad una gara e sicuro di vincere. Gli studenti rimasero offesi da simile provocazione. Se ne fece questione di corpo: si parlò del modo, col quale costringere il ciarlatano a ritrarre quell'insulto: gli sguardi di tutti si rivolsero a Giovanni, ed egli non volle dissentire dal far causa comune con essi: diportarsi altrimenti sarebbe stato offenderli: d’altronde prevedeva che, per vantaggio del bene, avrebbe acquistato sempre maggior ascendente sull'animo della scolaresca.. Anche in questo caso viene a proposito il consiglio di Salomone: “La buona grazia e l'amicizia fanno l'uomo franco; e tu conservale (stando unito agli amici) per fuggire i rimproveri”. Infatti, avendo noi interrogato D. Bosco, perchè si fosse regolato nel modo che vedremo appresso, egli ci rispose - Per accondiscendere al desiderio dei compagni. - Egli adunque, non badando alle conseguenze delle sue parole, disse che, per far piacere agli amici, si sarebbe volentieri misurato con quel ciarlatano nel giuocare, saltare e in qualunque altro esercizio ginnastico. Un imprudente suo amico riferì subito la cosa al saltimbanco, il quale accettò la sfida, beffandosi dello sfidatore. La scolaresca applaudì al suo campione, il quale, trovandosi così impegnato, si consolò pensando che, se la vittoria gli avesse arriso, l'avversario svergognato avrebbe abbandonato il campo.
Si sparse subito la voce per Chieri: - Uno studente sfida un corriere di professione. - Il luogo scelto fu il viale Porta Torinese. La scommessa era di 20 lire. Non possedendo Giovanni quel danaro, parecchi amici di famiglie agiate, appartenenti alla Società dell'Allegria, gli vennero in soccorso. Tutta la scolaresca e una moltitudine di gente assisteva. Sono eletti i giudici del giuoco. Giovanni si toglie la giubba per essere più sciolto nei movimenti: quindi si fa il segno della croce e si raccomanda alla Madonna, come era solito in ogni circostanza grande o leggiera della vita. Si comincia la corsa, ed il rivale lo guadagna di alcuni passi; ma tosto Giovanni riacquista il terreno e lo lascia talmente indietro, che a metà corsa si ferma dandogli partita guadagnata.
- Ti sfido a saltare, e avrò la consolazione di vederti in un fosso e ben bagnato, disse a Giovanni il ciarlatano, ma voglio scommettere lire 40 e di più se vuoi. - Gli studenti, che aveano esposta la prima somma, accettarono la sfida, e toccando al ciarlatano scegliere il luogo, ei lo fissò contro il parapetto del ponticello d'una gora. I competitori, circondati da una numerosa turma di fanciulli e di persone adulte, si volsero verso il sito indicato. Il fosso era assai largo e pieno di acqua. Il ciarlatano saltò il primo e pose il piede vicinissimo al muriccio, sicchè più in là non si poteva avanzare; dovette però abbracciarsi ad un albero della ripa, per non cadere nel fosso. Tutti erano sospesi ed attenti per osservare che cosa sarebbe stato capace di fare Giovanni, giacchè oltre il limite raggiunto dal ciarlatano pareva impossibile andare innanzi. L'industria però gli venne in soccorso. Fece il medesimo salto, ma con questa diversità, che, gettate le mani sul muriccio, slanciò il suo corpo al di là del parapetto, si da rimanervi ritto in piedi. Gli applausi furono generali.
- Voglio ancora farti una sfida: scegli qualunque giuoco di destrezza gridò il ciarlatano sdegnosamente. Giovanni accettò e scelse il giuoco della bacchetta magica, colla scommessa di 80 lire. Giovanni pertanto prese una bacchetta, le pose ad una estremità un cappello, quindi appoggiò l'altra estremità sulla palma della mano; dipoi, senza toccarla coll'altra mano, la fece saltare sulla punta del dito mignolo, dell'anulare, del medio, dell'indice, del pollice; quindi sulla nocca della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte; indi, rifacendo lo stesso cammino, la bacchetta gli tornò sulla palma della mano.
- Non temo di perdere, disse il ciarlatano al suo rivale, è questo il mio giuoco prediletto. - Prese adunque la medesima bacchetta, e con meravigliosa destrezza la fece camminare fin sulle labbra; ma, avendo alquanto lungo il naso, essa urtò, perdette l'equilibrio, sicchè il cerretano dovette afferrarla con l'altra mano per non lasciarla cadere a terra. Il povero saltimbanco, vedendo andare così a fondo il suo patrimonio, quasi furioso esclamò: - Piuttosto qualunque altra umiliazione, ma non quella di essere vinto da uno studente. Ho ancora cento franchi, e questi li scommetto e li guadagnerà chi di noi arriverà a portare i piedi più vicino alla cima di quest'albero. - Accennava ad un olmo, che era accanto al viale. Gli studenti e Giovanni accettarono anche sta volta; anzi, sentendo di lui compassione, in certo modo erano contenti che egli guadagnasse, giacchè non volevano rovinarlo. Il ciarlatano, abbracciatosi al tronco dell'olmo, salì pel primo e, lesto come un gatto, di ramo in ramo, giunse a tale altezza, che, per poco fosse salito più alto sarebbesi il ramo piegato e rotto, lasciando cadere a precipizio l'audace rampicante. Tutti gli spettatori dicevano che non era possibile salire più in alto. - Sta volta hai perduto! - andavano ripetendo a Giovanni. Questi fece la sua prova. Salì fin dove potevasi senza far curvare la pianta; poi, tenendosi colle mani all'albero, alzò il corpo e portò i piedi circa un metro oltre l'altezza del suo contendente, sopravanzando la punta stessa dell'albero. Chi mai può esprimere le acclamazioni della moltitudine, la gioia dei compagni di Giovanni, il trionfo e la soddisfazione del vincitore e la rabbia del saltimbanco! In mezzo però alla grande desolazione del vinto, gli studenti vollero procurargli un conforto. Mossi a pietà della tristezza del poverino, gli proposero, di ritornargli il suo danaro, se accettava una condizione di pagare cioè un pranzo all'albergo del Muretto. Accettò egli con gratitudine la generosa proposta; ed in numero di ventidue, che tanti erano i partigiani di Giovanni, andarono a godere un lauto pranzetto, che costò 45 lire e permise così al ciarlatano di rimettere in tasca ancora 195 lire.
Quello fu veramente un giovedì di grande allegria per tutti e di grande gloria per Giovanni. Nè dovette essere troppo, malcontento il ciarlatano, il quale riebbe quasi tutto il suo danaro e godette un buon pranzo. Nel separarsi egli ringraziò tutti dicendo: - Col ritornarmi questo danaro, voi impedite la mia rovina. Vi ringrazio di tutto cuore. Serberò di grata memoria, ma non farò mai più scommessa cogli studenti.
 Testimonio di questa gara fu il campanaro del duomo, Domenico Pogliano, che narrava il fatto a' suoi famigliari ed amici ed affermava aver fatto Giovanni così nettamente il salto del fosso, che sembrò fosse portato da un angelo. Noi poi che ancora nel 1885 abbiamo visto D. Bosco a giuocherellare con un bastoncello in modo veramente meraviglioso, facilmente ci persuadiamo non esservi esagerazione in questo racconto.
Giovanni continuò finchè fu secolare, a giovarsi di questa sua abilità per introdursi nei crocchi dei giovani condiscepoli o conoscenti, quando aveva timore si uscisse in qualche discorso poco decente. Con parole cortesi incominciava a distrarli, proponendo loro alcuni giuochi curiosi. Ora sfidavali a prendere da terra un soldo col dito mignolo e coll'indice della stessa mano; ora a fare arco della persona, rivoltandosi totalmente in dietro sì da toccare il suolo col capo, stando sui piedi; ed ora a congiungere bene i piedi e chinarsi a baciare la terra senza toccarla colle mani. Frattanto, mentre i giovani sfidati facevano le loro prove, i compagni si smascellavano dalle risa a que' contorcimenti, a que' tentativi inutili, a quegli stramazzoni e musate per terra degli inesperti; e, per tal modo occupati, più non pensavano all'argomento dei loro primieri discorsi, e non si partivano mai da Giovanni senza aver prima ricevuto da lui un buon pensiero.
Chi legge queste pagine, nel vedere il giovane Bosco così destro in simili giuochi, così slanciato in una sfida, così ardito in mezzo alla moltitudine, insomma capo popolo fra gli studenti, s'immaginerà che egli allora avesse un portamento sciolto, un fare da spavaldo. Eppure non era così. Abbiamo udito a narrare da sacerdoti esemplari suoi condiscepoli, che giovane egli aveva lo stesso contegno che teneva da prete a settant'anni: amorevole, alquanto sostenuto, riserbato nel tratto e nei gesti, parco nelle parole. Alcuni di costoro venuti a visitarlo nell'Oratorio, dopo anni ed anni di lontananza, esclamavano nell'uscire dalla sua stanza:
 - È sempre lo stesso, quello di una volta, quando eravamo Chieri. - Così disse fra gli altri il Padre Eugenio Nicco dei Minori Osservanti. Tuttavia D. Bosco più volte si udì ripetere:
- Finchè non fui posto al Convitto di S. Francesco d'Assisi, non ebbi mai una persona che si prendesse una cura diretta dell'anima mia. Feci sempre da me quel che mi pareva meglio; ma sotto un'assidua e accurata direzione mi sembra che avrei potuto fare più che non feci.
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