D. Bosco e i condannati al patibolo.
del 25 ottobre 2006
Don Cafasso, narrava D. Bosco, era l'angelo della misericordia di Dio, per quegli infelici che dai loro misfatti erano condotti a terminare la vita sopra un patibolo. La sua carità non aveva limiti, non guardava ad incomodi; correva anche non chiamato in qualsiasi altra parte del regno. Aveva ottenuta dal Signore una segnalatissima grazia. Neppur uno dei molti condannati, assistiti da lui nei loro ultimi momenti, morì senza essersi riconciliato con Dio, lasciando fondata speranza di eterna salvezza. Anzi un bel numero di questi, compresi dall'ardore, delle sue esortazioni, si rassegnavano con grande calma alla loro sorte. E taluno fu visto aspettare col sorriso sulle labbra il colpo fatale, a segno che un carnefice esclamò alla presenza dello stesso D. Cafasso: - La morte non è più morte, ma un conforto, un piacere, una festa. D. Bosco seguiva gli esempi del suo caro maestro, ripieno, com'era dello stesso spirito. Appena incominciava a correre la voce essere imminente la sentenza capitale contro taluno, Don Bosco ad un cenno di D. Cafasso, nelle sue visite settimanale alle carceri senatorie, si metteva attorno al disgraziato e a poco a poco cercava disporlo a fare una buona confessione, nel caso che non l'avesse ancora fatta. Letto il decreto di morte, spettava al sacerdote l'ufficio di lenire col balsamo della religione la povera anima straziata. Ciò non riusciva sempre cosa facile, poichè alcuni bestemmiando rifiutavano i sacramenti e protestavano di voler morire irreconciliati, altri furiosi tentavano suicidarsi per isfuggire quel disonore; tal volta vi fu chi per odi inveterati non voleva perdonare e con fredda impudenza sembrava disprezzare Dio e gli uomini; e tal altra chi quasi inebetito non intendeva parola che potesse richiamarlo ai pensieri dell'eternità. Ma alternandosi D. Cafasso il Teologo Borel e D. Bosco nel prestar loro una continua assistenza, riuscivano a calmarli, ispirar loro una grande fiducia nel sacerdotale ministero, infondere viva speranza e amore in Dio, sicchè li inducevano a confessarsi e ad accettare la morte, quale mezzo per espiare i loro peccati.
Stabilito il giorno dell'esecuzione, se D. Bosco aveva ascoltata la confessione del condannato, alla sera della vigilia andava a passare la prima metà della notte al suo fianco nella cappella detta il confortatorio. Le sue parole erano di un'efficacia straordinaria per consolare il paziente. Gli ricordava la bontà di Maria, sua Madre tenerissima e rifugio dei poveri peccatori. Gli faceva osservare aver Iddio permesso che giungesse a quel punto doloroso, perchè altrimenti restando impunito sarebbesi eternamente perduto; lo assicurava che la morte, accettata con piena rassegnazione, essendo atto di carità perfetta, lo avrebbe condotto in paradiso senza passare pel purgatorio; lo invitava a gettarsi confidentemente nelle braccia dell'affettuosa misericordia del Signore, ripetendogli le parole che udì il buon ladrone sulla croce: Oggi sarai meco in paradiso. Di quando in quando gli faceva recitar l'atto di contrizione, o qualche altra breve preghiera.
D. Bosco compieva questo suo ufficio, sereno, affettuoso, tranquillo; ma la sua calma era apparente, e si manteneva a forza di volontà. In simili notti non potè mai vincere il ribrezzo che in lui destava un'immensa compassione, nè acquistare quella certa indifferenza che proviene dall'abitudine. La fiamma languida di una sola candela, il silenzio che regnava all'intorno, il passo monotono della sentinella nel corridoio, il trascorrere del tempo, l'avvicinarsi inesorabile dell'ora fatale, gli cagionavano un'ansia che a stento riusciva a reprimere. E poi talora i sussulti del condannato allorchè era preso da un istante di sonno, qualche sua rotta parola che esprimeva un rimpianto, una confidenza, un timore; talora uno stringere convulsivo di mani; quindi un alzarsi agitato, dare qualche passo, volgere attorno gli occhi smarriti nei quali le lagrime si erano omai inaridite, e abbandonarsi poi sopra lo sgabello come in preda ad un deliquio, erano ferite dolorose al cuore così sensibile di D. Bosco. Tuttavia l'eroica sua carità non abbandonavalo. Circa la mezzanotte sopraggiungeva D. Cafasso e talvolta il Teologo Borel. D. Bosco allora dava ancora un ultimo ricordo al prigioniero, e tornava a casa spossato e febbricitante. Egli non protrasse mai questa veglia fino al mattino, e sentiva in se stesso di non poter reggere ad accompagnare il condannato sul palco di morte.
Una sola volta fu costretto a farsi una simile violenza che era superiore alle sue forze. Nel 1846 fra i prigionieri, in Torino, ve ne eran tre sotto processo, fra i quali un giovane di ventidue anni con suo padre. D. Bosco più volte aveva confessato il figlio, e il povero giovane aveva riposta in lui molta affezione. Il processo finì colla sentenza capitale. Don Bosco andò a vedere il suo giovane amico prima che partisse per Alessandria, luogo destinato al supplizio. Il giovane, singhiozzando lo supplicava di volerlo accompagnare, ma D. Bosco col cuore stretto da angosciosa tenerezza gli rispondeva con buone parole ma evasive, non sentendosi coraggio di promettere. I tre condannati partirono, impiegando più giorni in quel viaggio e fermandosi in varie stazioni, come prescriveva la sentenza.
Quando D. Cafasso fu egli pure in sul partire per Alessandria a compiere con quegli infelici il suo santo e sublime ufficio, mandò a chiamare D. Bosco e gli disse di venire in sua compagnia, attesochè quel giovane aveva fatte così vive e ripetute istanze di aver lui al suo fianco negli estremi momenti, che ci riputava essere una vera crudeltà il rifiutarsi. D. Bosco oppose qualche resistenza, poichè gli sembrava che non avrebbe potuto sostenere lo straziante spettacolo; ma D. Cafasso insistette, e D. Bosco, avvezzo ad obbedire a qualsiasi cenno del suo Direttore, salì con lui nella vettura già pronta. Giunsero ad Alessandria la vigilia dell'esecuzione capitale. L'infelice giovane, al veder comparire D. Bosco nel confortatorio, gli si slanciò al collo e lo abbracciò piangendo. Dio solo conosce ciò che D. Bosco sofferse: pianse egli pure, ma seppe tosto padroneggiarsi; e passò con quel poveretto l'intera notte consolandolo e incoraggiandolo colle certe speranze di una vita immortale, gloriosa e felicissima che l'attendeva. Più di una volta, per la pace che godeva di una tranquilla coscienza, vide un lieve sorriso sfiorare le sue labbra, mentre lo invitava a pregare con lui la Madonna e lo disponeva a fare l'ultima comunione. Verso le due del mattino gli impartì ancora la santa assoluzione, celebrò la santa Messa nell'altare preparato in quella stessa carcere, lo comunicò, e svestiti gli abiti sacri, con affettuose e calde parole fece con lui il ringraziamento.
Ed ecco giungere anche per D. Bosco il momento di una dolorosa passione. All'improvviso la campana del duomo con un primo rintocco dà il segno dell'agonia. Si spalanca la porta della segreta; compariscono i gendarmi, alcuni confratelli della Misericordia, il rappresentante della legge e il custode delle carceri. Il carnefice si avvicina al condannato, s'inginocchia, e gli domanda perdono; quindi lo lega innanzi all'altare e gli getta il laccio al collo. D. Bosco intanto cerca di occupare la mente di quel poveretto, ricordandogli Dio, Maria SS., il suo Angelo custode e i santi che lo aspettano in cielo.
Finalmente giunse l'ora di partire. Tre carri tirati da due cavalli, su ciascuno dei quali stava un condannato, uscivano dal portone delle prigioni. Sul primo carro montò un prete alessandrino. D. Bosco si assise al fianco del suo povero giovane. Il carro sul quale salì D. Cafasso era l'ultimo, ove stava il disgraziato padre. Una moltitudine immensa, accorsa da tutte parti, ingombrava le vie. D. Bosco stesso nella biografia di D. Cafasso lasciò memoria delle sue impressioni: “ La campana col lugubre suono dei lenti rintocchi continua a d annunziare che gli infelici vanno a pagare il fio dei loro delitti; i condannati hanno innanzi il crocifisso, da un lato la scarnata immagine della morte, attorno i caritatevoli confratelli della Misericordia, i quali in cappa nera col cappuccio, calato sul volto cantano il Miserere. I soldati e i carabinieri a cavallo scortano i carri e li fiancheggiano. I carnefici cogli altri uomini di giustizia in gran numero rendono ancor più tetro quel funebre corteo. Tutti gli spettatori sono immersi nel dolore e nello spavento, e nessuno dice una parola di conforto a quei disgraziati. Ma osservate: accanto ad essi vi è un sacerdote, il quale terge le loro lagrime, e amorosamente alternando colle preghiere, gli avvisi e i ricordi di care speranze vicine a compiersi, col crocifisso in mano va loro ripetendo: - Questi è un amico che vi ama, che non vi spaventa, nè vi abbandona. Sperate in lui, e il paradiso è vostro. - E lo presenta alle loro labbra perchè lo bacino. Ad un tratto il corteo si ferma innanzi ad una chiesa. Escono i chierici colle torce, comparisce un sacerdote sul limitare tenendo nelle mani il SS. Sacramento, impartisce la benedizione e si ritira. Il ferale convoglio si rimette in moto”.
Fino a quel punto D. Bosco aveva fatto forza a se stesso, ma dopo qualche istante sentissi stringere e mancare il cuore. Era effetto di un vivissimo irresistibile raccapriccio all'idea che fra poco sarebbe apparso il patibolo agli occhi dell'infelice e amato giovane. D. Cafasso se ne avvide al pallore del volto, mentre svoltavano i carri e scese dal suo e fatto fermare quello sul quale era D. Bosco e che aveva le sponde molto più alte degli altri due, disse con voce forte a D. Bosco: - Queste sponde troppo alte vi tolgono il respiro; scendete e andate a prendere il mio posto, che io salirò al vostro. D. Bosco montò sull'altro carro dove sedeva il genitore di quel giovane. Quest'uomo, benchè si fosse confessato e comunicato, dava pochi segni esterni di pentimento e teneva un contegno freddo e si direbbe, quasi sprezzante. Si giunse sulla piazza ove erano erette le forche: la moltitudine brulicava sterminata e fluttuante; ad un tratto la folla spingendosi e urtandosi aveva interrotto il passaggio del terzo carro sul quale era D. Bosco, mentre gli altri due avevano potuto procedere liberamente fino ai piedi del patibolo. Chi guidava i cavalli non sapeva da qual parte rivolgerli, perchè molti cittadini gli voltavano le spalle, ansiosi di vedere l'esecuzione dei due primi condannati. Invano gridava il conduttore del carro, invano gridavano i carabinieri; per inoltrarsi più rapidamente si sarebbero dovute schiacciare le persone. Riusciti ad aprirsi la strada, ecco che molti di quelli che erano ai fianchi o seguivano dietro, tentavano di sopravanzare il carro, giovandosi del momentaneo largo. Il condannato, osservando la calca, con un freddo e sardonico sogghigno, gridò alla turba: - Ma brava gente, perchè tanta premura? Se non ci sono io, lo spettacolo manca del personaggio principale; e fintantochè io son qui, potete essere certi che non termina la festa. - Dopo pressochè mezz'ora di stenti, il carro andando a zonzo giunse ai piedi del palco: i primi due erano già stati giustiziati: il giovane pendeva morto dal laccio. Lo sciagurato padre fu condotto sotto la forca; ma quando salì sul fatale sgabello, gli occhi di D. Bosco si ottenebrarono; ei vacillò, e non vide più nulla. Ma D. Cafasso gli era al fianco, lo sorresse, sicchè non istramazzò e lo consegnò al prete alessandrino. Intanto affrettavasi ad impartire l'ultima assoluzione alla povera vittima, mentre le toglievano di sotto ai piedi lo scanno. Quando D. Bosco si riebbe, tutto era finito, e con D. Cafasso accompagnò i cadaveri alla cappella della compagnia di Misericordia assistendo quindi alla messa da Requiem.
D. Cafasso da quel giorno più non osò invitarlo ad assistere ad una esecuzione capitale. D. Bosco però continuò per più anni ancora a consolare e confessare in carcere i condannati a morte. Narrava il Canonico Picca come, essendo egli ancora chierico, accompagnasse D. Bosco a visitare tre di tali delinquenti, Magone, Guercio e Violino, che furono impiccati nel circolo Valdocco, amplissimo spazio circondato da alberi giganteschi, nel quale facevano capo una via e tre maestosi e larghissimi viali. Ivi in aperta campagna si innalzarono le forche fino al 1852, lontano poco più di un centinaio di metri dall'abitazione di D. Bosco. Fu perciò non piccola agonia per D. Bosco udire dalla sua camera, per circa nove anni, il mormorio degli innumerabili spettatori, i canti funebri all'arrivo del corteo, poi il silenzio profondo, il rullo dei tamburi, nuovi canti in suffragio de' defunti ed in ultimo il vociare e il ritrarsi della gente che sfollava da ogni parte. Ed egli colle sue preghiere ad accompagnare al tribunale di Dio quelli che il mondo dichiarava giustamente infami, ma che lavati dal sangue dell'Agnello immacolato venivano dalla Misericordia divina accolti fra i principi del paradiso. Alcuni di questi erano debitori a lui della loro eterna salvezza.
L'ultimo che D. Bosco assistette e confessò nel Confortatorio, fu, credo, nel 1857. Costui, giustiziato presso gli spaldi della cittadella e creduto morto, distaccato dal trave e messo nella bara, venne trasportato alla chiesa di S. Pietro in Vincoli, ove solevano seppellirsi i condannati alla pena capitale. Quand'ecco quel meschino muoversi, mandare un gemito ed alzarsi a sedere. Il Cappellano e altri che erano ancora in chiesa, lo portano sovra di un letto. Egli nominò D. Bosco, che chiamato, accorre frettoloso. Gli fu apprestata e bevette ancora una tazza di caffè; ma D. Bosco conobbe che non vi era nessuna speranza di salvarlo, essendo smosse le vertebre del collo. Si affrettò pertanto ad eccitarlo ad un atto di contrizione, lo assolse e non partì di là finchè dopo circa due ore i medici constatarono essere egli realmente spirato.
Dolorosi spettacoli erano queste esecuzioni capitali, ma proporzionavano la pena al delitto. Il Signore sentenziò: Chiunque spargerà il sangue dell'uomo, il sangue di lui sarà sparso, perchè l'uomo è fatto ad immagine di Dio”. E nei Proverbi si legge: “L'empio è dato (al supplizio in espiazione) pel giusto e l'iniquo per gli uomini dabbene”. E loro castigo rimuove i flagelli del Signore dalle città e dai regni, e serve di terribile ammonimento e di efficace ritegno a molti che sono per mettere il piede sulla via del delitto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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