Capitolo 40

D. Bosco è costretto a sloggiare da casa Moretta - - L'Oratorio in un prato - Un giovanetto affamato - Le passeggiate a Superga.

Capitolo 40

da Memorie Biografiche

del 26 ottobre 2006

 Mentre succedevano gli accennati avvenimenti, si avvicinava la primavera del 1846, e il nostro Oratorio doveva subire un nuovo trasferimento. Un egregio scrittore francese, in un opuscoletto intorno al nostro D. Bosco e l'opera sua, parlando dei giovanetti che fin da principio frequentavano l'Oratorio, fa uso di una bella similitudine, che ci piace di qui ricordare: “Come in un giorno d'inverno, egli scrive, si vedono gli augelletti raccogliersi numerosi là dove una mano provvidenziale gita loro il grano che li ha da salvare, così intorno a D. Bosco si vedevano affollarsi numerosi drappelli di fanciulli e di giovanetti, che il mondo non curava”.  Egli disse il vero; chè ora motti ben si avvedono come i catechismi, le istruzioni, le prediche, i racconti edificanti, le oneste conversazioni e i lieti trastulli, che D. Bosco loro somministrava nei giorni del loro maggior pericolo, furono quelli appunto che li hanno, salvati dalla irreligione, dalla immoralità, dalla mala via; furono la loro salute, e la loro vita. Ma per continuare il gradito paragone, come avviene pur talora che una persona poco benevola spaventi gli uccelli che stanno beccandosi il caro cibo e li costringa a cercarselo altrove, così accadde più volte ai primi figli di D. Bosco, uccelletti dell'Oratorio, costretti quali furono a prendere il volo prima da San Francesco d'Assisi, poi dall'Ospedaletto, quindi da San Pietro in Vincoli, poi dai Molini di città, ed ora dalla casa Moretta, come siamo per narrare.'

La maggior parte di questa casa era appigionata a molti inquilini, i quali, sebbene vedessero di buon occhio il gran bene che si faceva a tanti giovanetti e lo approvassero, tuttavia, disturbati dai loro schiamazzi in ricreazione, e dall'andirivieni e dal relativo rumore nel portarsi alla scuola serale, ne mossero lamento al padrone, dichiarando di dimettersi tutti, ove non cessassero quelle adunanze. Laonde il buon sacerdote Moretta dovette avvisare D. Bosco che si cercasse altro luogo mentre intanto gli dava quasi immediato diffidamento. In questa determinazione egli mostrò tuttavia il suo rammarico, e trattò D. Bosco con tutto garbo; imperocchè, dopo il tristo caso del Cappellano e della serva e del segretario, la gente dabbene che ne era consapevole, usava a lui e al suo Oratorio molto riguardo. Ciò accadeva il 2 marzo, e D. Bosco pagava il saldo del fitto in 15 lire, per tutto quel mese ancora.

D. Bosco già aveva previsto questo licenziamento, e troppo rincrescendogli respingere i nuovi giovani che a lui sempre affluivano, erasi accordato con certi fratelli Filippi ed affittava da loro un prato in Valdocco, presso la casa Moretta a levante. In questo prato adunque, cinto da una siepe, che lasciava passare persino i cani, i quali difatto si fermavano di quando in quando a sporgervi il muso ed unire i loro abbaiamenti agli schiamazzi dei giovani, venne trasferito l'Oratorio. Vi era nel mezzo un casotto di assi e di fango che dalla parte nord era sostenuto da un trave orizzontale, essendo in pendenza il terreno; e quivi si custodivano i giuochi. D. Bosco era là senza riparo, esposto co' suoi giovani al vento, alla pioggia ed ai raggi ardenti del sole, ma “gli occhi di Dio sono fissi su coloro che lo temono; Egli il protettore possente, il presidio forte, il riparo contro gli ardori, ombreggiamento, contro la sferza del mezzodì”. Quel luogo però non mancava di allettamento. La rustica cinta che lo attorniava vestendosi delle nuove foglie e di fiori, l'allegria, i divertimenti, i canti attirarono bentosto l'attenzione del pubblico, e il numero dei giovani accrebbe sino a 400.

Così di mano in mano che gli uomini costringevano, Don Bosco a passare da un sito all'altro, Iddio andavagli aumentando la famiglia, e porgevagli modo di fare maggior bene.

Qualcuno si farà a domandarci: Ma in un prato come potevansi praticare le cose di religione? - Rispondiamo che si praticavano in un modo quasi romantico, o per meglio dire, come le praticavano talora gli Apostoli e i primi Cristiani. Le confessioni si facevano così: Nei giorni festivi e all'ora competente, Don Bosco dal vicino Rifugio si portava nel prato delle sue fatiche, dove a poco a poco si radunavano eziandio i giovani. Colà egli si metteva a sedere sopra una scranna ed ascoltava la confessione di quelli che vi erano venuti a questo fine, ed altri, inginocchiati in terra presso di lui, vi si preparavano o ne facevano il ringraziamento mentre questo aveva luogo in un angolo, in altra parte i giovani già confessati stavano in circolo canterellando qualche lode, o udendo a leggere o a raccontare da un compagno un qualche esempio edificante; altri poi attendevano ad una modesta ricreazione conversando tra loro, oppure giocando alle piastrelle, alle bocce, alla palla, o provandosi a camminare sulle stampelle. Ad una cert'ora della mattina Don Bosco si levava dal suo confessionale veramente apostolico. Allora uno dei giovani a ciò deputato, non avendo campane, col rombo di un tamburo, che pareva di epoca antidiluviana, li raccoglieva tutti in mezzo al prato; un altro imboccando e dando fiato ad una rauca tromba imponeva silenzio; e Don Bosco, presa la parola, indicava la chiesa, dove si sarebbe andati a udire la Messa e a fare la santa Comunione. Dopo di ciò tutti si mettevano in via con divoto contegno a quella volta, talora divisi in gruppi e talora ordinati come in processione cantando canzoni spirituali, come narrava di averli veduti il Teol. D. Savio Ascanio; e colà adempivano al precetto della Chiesa. Usciti, ciascuno si recava alla propria casa per la colazione e pel pranzo.

Dopo mezzodì, appena era possibile, chi da una parte, chi dall'altra della città, tutti si raccoglievano nel prato famoso e davano cominciamento ai trastulli, sempre assistiti dai due angeli visibili, D. Bosco e il Teol. Borel, coll'aiuto dei giovani più adulti ed assennati. Venuto il tempo, D. Bosco faceva dare dal suo tamburino il noto segnale, li divideva secondo l'età e l'istruzione in altrettante squadre, e seduti sul verde pavimento udivano per una mezz'ora il catechismo. Egli dominava la sua classe, dei più grandicelli, stando in piedi, sopra un piccolo rialzo di terra. Dopo aver cantato un inno sacro, egli stesso o il Teol. Borel, salito sopra una sedia od una panca, teneva loro un sermoncino, con cui li istruiva e dilettava ad un tempo, e che perciò ascoltavano con grande attenzione. Non potendosi dare la benedizione col SS. Sacramento, si conchiudeva la funzione col canto delle litanie lauretane, o di una lode alla Vergine Immacolata, invocandola che insieme col divin Figliuolo li volesse benedire dal Cielo. Non si badava ai cittadini che, passando nella strada vicina, si fermavano in gran numero ad osservare curiosamente quel mai più visto spettacolo. In appresso si ripigliava la ricreazione, che continuava animata sino a notte. In questo tempo accadeva che alcuni garzoncelli, ritirandosi dai divertimenti, chiedessero di confessarsi, e D. Bosco li contentava subito, senza badare all'ora inopportuna e alle altre sue incombenze. Qual viva fede in questi poveretti, che qualche mese prima quasi nulla sapevano di Dio!

Quando tutti avevano abbandonato il prato, allora D. Bosco rientrava al Rifugio. Talvolta il povero uomo, benchè sempre lieto nel Signore, trovavasi così affranto dalla fatica, da non potersi più reggere in piedi, ed era necessario sostenervelo tra due, o portarvelo sulle braccia. Or non aveva egli del singolare questo spettacolo? Non vi pare egli che ritraesse in parte da quello che davano le pie turbe, ammaestrate e benedette dal Divin Salvatore o sulle rive dei fiumi, o alle falde dei monti, o sulle spiaggie del mare di Tiberiade?

Durante la dimora nel prato accadde un episodio, che non crediamo di dover passare sotto silenzio. La sera di una festa, mentre i giovani erano intenti a ricrearsi correndo qua e là, giocando e schiamazzando, si presentò presso alla siepe un giovanetto in sui 15 anni. Pareva che ci bramasse di varcare il debole riparo, e unirsi con loro; ma non osando, lì stava contemplando con un'aria trista ed oscura. D. Bosco lo vide, e fattosi a lui vicino, gli mosse varie domande: - Come ti chiami? donde vieni? che mestiere fai? - Ma il poverino ori dava alcuna risposta. D. Bosco venne in sospetto che egli fosse muto, e già voleva parlargli coi segni convenzionali; quando, tentando una nuova prova e ponendogli la mano sul capo, gli domandò: - Che cosa hai, caro mio? Dimmi: ti senti forse male?

Incoraggiato da questi tratti di benevolenza, il giovanetto, mettendo fuori una voce che pareva uscire da una vuota caverna, rispose: - Ho fame.

Questa parola mosse tutti a grande compassione. Si mandò tosto a prendere del pane, e gli si diede il necessario ristoro. Reficiato che fu, D. Bosco facendolo discorrere gli domandò:

 - Non hai parenti?

 - Li ho, ma sono lontani.

 - Che mestiere fai?

 - Il sellaio; ma perchè poco abile, fui licenziato dal padrone.

 - Non te ne sei cercato un altro?

 - Cercai tutto ieri, ma non avendo conoscenze in questa città non mi riuscì di trovarne alcuno.

 - Dove hai dormito questa notte?

 - Sulla gradinata della chiesa di S. Giovanni.

 - Sei andato questa mattina ad udire la Messa?

 - Sono andato: ma l'ho ascoltata male, perchè aveva fame.

 - Dove eri incamminato quando ti sei presentato qui?

 - Da alcune ore mi sentiva tentato di andare a rubare.

 - Non hai domandato la limosina a qualcuno?

 - Sì, che la domandai; ma vedendomi così giovane, tutti mi rimbrottavano, dicendo: Sano e robusto come sei, invece di fare il vagabondo, va a lavorare; e intanto non mi davano niente.

 - Se andavi a rubare, ti saresti fatto mettere in prigione.

 - È appunto questo timore che mi ha più volte trattenuta la mano; ma il Signore ebbe compassione di me, e invece di lasciarmi prendere la strada del disonore, mi guidò a Lei per questa via.

 - Che pensiero ti occupava la mente quando ci stavi là ad osservare?

 - Io diceva tra me stesso: Come sono fortunati questi giovanetti! Contenti ed allegri, saltano, corrono, cantano, e ne sentiva invidia; avrei voluto unirmi con loro, ma non osava.

 - Verrai d'ora innanzi in questo prato nei giorni di festa?

 - Purchè Lei me lo permetta, ci verrò ben volentieri.

 - Vieni pure, che sarai sempre il bene accolto. Intanto questa sera per la tua cena e per il dormire ci penserò io. Domani poi ti condurrò da un buon padrone, e avrai albergo, lavoro e pane.

Inutile il dire che questo giovane fu sempre assiduo all'Oratorio, sino all'anno 1852, quando fu chiamato sotto le armi, mantenendosi affezionatissimo a colui, che colla sua benevolenza e paterna sollecitudine lo aveva tratto dal pericolo di una mala vita.

Una domenica, narra ancora D. Bonetti Giovanni, D. Bosco menò i suoi giovanetti a fare una passeggiata sino alla celebre Basilica di Superga. Credo di far cosa gradita col darne qui la descrizione, come veniva fatta a me stesso da uno che vi aveva preso parte.

Raccoltisi adunque in sul mattino nel prato e condotti prima ad udire la santa Messa nella chiesa della Consolata, verso le ore 9 si posero in ordine, e a due a due, come un reggimento di soldati, presero le mosse per alla volta di Superga. Avevano con loro la musica strumentale, che consisteva in un vecchio tamburo, una tromba, un violino ed una chitarra scordata: poca cosa davvero, ma che servendo nondimeno a fare rumore, per essi bastava. Della comitiva, chi portava canestri di pane, chi di cacio, salame, fichi secchi, castagne e pomi, e chi altri oggetti necessari all'uopo. Finchè furono in città, da tutti si osservò un moderato silenzio; ma giunti che furono al Po, cominciarono il cinguettare, le chiacchiere, i canti, le grida e gli schiamazzi, da far credere alla gente che andassero a prendere di assalto la collina. Loro guida era lo studente di terza ginnasiale alla scuola di Porta Nuova, Picca Francesco, il quale, prima a S. Francesco d'Assisi e poi al Rifugio, aveva aiutato D. Bosco nell'assistenza dei giovani, ed ora continuava in quell'opera di carità colla licenza del professore della sua classe, D. Bertolio.

Fin dalle prime ore del mattino li aveva preceduti il teologo Borel per dare colà avvisi opportuni e per fare i convenienti preparativi alla squadra, che si prevedeva sarebbe pervenuta in cima del colle assai ben disposta a divorar pagnotte. Quando furono a Sassi, ai piedi della salita, ecco un pacifico cavallo bardato a tutto punto, che il buon sacerdote D. Anselmetti Giuseppe, parroco di Superga, mandava al capitano della brigata. Don Bosco riceveva in pari tempo una letterina del Teologo Borel, che gli diceva: “Venga tranquillo coi cari giovani: la minestra, la pietanza, il vino sono preparati”. Don Bosco allora montò in sella, e fattisi venire i giovani a lui dintorno, lesse loro la mentovata lettera, che riscosse da tutti sì alti applausi e sì replicate grida di gioia, che ne rimase sbalordito non solo il cavaliere, ma ancora il cavallo. Dato così libero sfogo all'interno giubilo e rotte le file, i giovanetti incominciarono la salita, attorniando come guardia d'onore il loro generale in capo. Cammin facendo, gli uni prendevano la bestia per la briglia, gli altri per le orecchie, taluni anche per la coda, questi la palpava, quegli la spingeva; e il mansueto quadrupede sopportava tutto con tanta calma, da disgradarne il più paziente somarello. Intanto tra il riso, gli scherzi, i canti e le conversazioni la comitiva, montata l'erta collina, giungeva al Santuario. Perchè sudati, D. Bosco fece tosto raccogliere i giovani nel cortile della casa annessa per ripararli dall'aria, e dopo un breve riposo, essendo già preparata la tavola, ve li dispose. Il Teologo Guglielmo Audisio, allora Preside dell'Accademia Ecclesiastica, regalò buona minestra e pietanza, ed il Parroco vino e frutta, facendo così vedere quanto essi fin d'allora stimassero D. Bosco e l'opera sua. Dopo Dio i giovani ringraziarono quei cari benefattori, e alle grida di evviva il Preside, evviva il Parroco i musici sposarono il suono dei loro strumenti. Quei benemeriti signori gradirono il loro buon cuore; ma non poterono non ridere della strana loro musica, che pareva quella medesima con cui in piazza Castello di Torino i saltimbanchi facevano ballare le scimmie. Comunque sia, la cosa andò molto bene, e i giovani si levarono da mensa più lieti che i principi.

Ad una cert'ora D. Bosco raccontò l'origine della Basilica consacrata all'Augusta Madre di Dio; additò le pianure sottostanti, che nel 1706 erano occupate dal formidabile e valoroso esercito francese assediante Torino; tratteggiò il Duca Vittorio Amedeo e il Principe Eugenio di Savoia, che, saliti su quella vetta, fecero voto alla Madonna di un magnifico tempio, se concedesse la vittoria alle loro preghiere; mostrò la cittadella salvata dall'eroismo di Pietro Micca. Descrisse la gloriosa battaglia, la liberazione di Torino, i trionfi, le feste e la protezione evidente di Maria SS. in favore dei Torinesi. Disse ancora delle tombe reali sottostanti, dell'Accademia ivi fondata da Carlo Alberto, facendo così loro imparare di bei tratti di storia patria. Visitarono poscia la chiesa, le tombe dei Principi, la sala dei ritratti dei Papi, la biblioteca, e salirono eziandio sulla superba cupola, donde si scorge buona parte del Piemonte e si contempla con sentimenti di ammirazione la maestosa corona delle Alpi, che colle nevose loro punte sembrano toccare il cielo.

Circa le tre pomeridiane si radunarono nel tempio, dove al suono delle campane a festa era pure intervenuto molto popolo sparso per la collina. Cantato il vespro, D. Bosco montò in pulpito e tenne un breve discorso. Alcuni ancor si ricordano che egli parlò della efficace intercessione di Maria presso Gesù suo divin Figliuolo, e del modo da usare per essere sempre esauditi, quando a Lei facciamo ricorso. “Se vi è possibile, egli disse, fate prima una visita ed una preghiera dinanzi al Santissimo Sacramento; dopo invocate Maria che vi ottenga quella grazia che vi pare utile o necessaria, e state sicuri che questa Madre potente e pietosa o quella grazia medesima, o un'altra equivalente, od anche migliore vi otterrà”. Dopo la predica i musici salirono sull'orchestra, e accompagnati da Don Bosco col suono dell'organo cantarono per la benedizione il “Tantum Ergo”. In quel tempo non si era soliti a udire in chiesa giovanetti a cantare in musica. Laonde in quella sera i membri dell'Accademia, e tutto il popolo accorso, udendo le voci argentine dei giovani, che parevano un coro di angioletti discesi dal cielo per lodare Iddio, erano fuori di sè per la maraviglia, e molti ne piangevano di consolazione.

Terminate le sacre funzioni, si fecero partire alcuni globi aerostatici, che col rapido loro sollevarsi in alto parevano invitare gli spettatori ad innalzare i loro pensieri ed i loro affetti al Signore. Verso le sei, dato un rullo al tamburo ed un soffio alla tromba, il giovanil drappello si raccolse, e dopo nuovi ringraziamenti a chi tanto caritatevolmente li aveva ospitati in quel giorno, presero a discendere verso la città, or cantando, or gridando, ed ora pregando eziandio col recitare il Rosario e le orazioni della sera. Arrivati poscia a Torino, ciascuno di mano in mano che giungeva al sito più vicino alla propria casa usciva dalle file, e riverito D. Bosco, si ritirava in famiglia, raccontandovi gli avvenimenti e le impressioni di quella cara giornata. Quando D. Bosco giungeva al Rifugio, aveva ancora con sè otto o dieci giovani dei più robusti che portavano gli attrezzi di alcuni giuochi e i canestri vuoti.

Molte altre volte D. Bosco li ricondusse poi su quelle stesse vette. Si conserva ancora memoria dell'ascesa fatta nel 1851 in luglio da circa ottanta giovani. D. Cafasso per mezzo di un suo servitore aveva loro mandato dal Convitto il companatico per la colazione, mentre l'Abate Truffat Don Paolino Nicola savoiardo, successore dell'Audisio nella carica di Preside dell'Accademia, apprestava un magnifico pranzo. Il generoso Abate fece poi sempre le pi√π liete accoglienze a D. Bosco e a' suoi nella gita annuale a Superga, e ad ogni cosa provvedeva largamente a sue spese fino al 1858.

Egualmente munifico si dimostrò verso i poveri figli del popolo chi dopo il D. Truffat, col titolo di Prefetto, occupò quell'importante carica.

Essendogli stato sostituito l'Abate Stellardi, D. Bosco, che allora non era in troppa dimestichezza col nuovo Preside, avvicinandosi il tempo della solita passeggiata, prima volle prudentemente saggiare terreno. Mandò pertanto un chierico giudizioso a domandargli in grazia, alcune pentole per cuocere la minestra. L'Abate accondiscese volentieri e gli offerse anzi un piatto di pietanza. Nel 1859 a questa passeggiata andava già tutto l'Oratorio, studenti ed artigiani, preceduto dalla banda musicale. Il medesimo Abate Stellardi aggiungeva sempre qualche cosa del suo al pranzo dei giovani, mentre imprestava tutti gli utensili della cucina per apprestare il cibo e le stoviglie per apparecchiare le mense. Quel santuario cessò nel 1864 dall'essere meta di quell'allegra e periodica passeggiata di quei primi tempi eroici. Essendo state riparate splendidamente le sale dell'annesso monumentale edificio, non fu più lecito ad alcuno entrare a visitarle senza un custode per guida; e perciò non poterono come prima accogliere la turba dei giovani dell’Oratorio.

 

 

 

 

 

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