Capitolo 41

L'affetto dei professori - Maravigliosa mutazione nei giovani, ai quali Giovanni fa ripetizione - Testimonianze di sua virtù- Sobrietà nel vitto Festa della riconoscenza- Ancora dubbio sulla vocazione - L'esame d'ammissione come chierico nel seminario - Le vacane - Caritatevole gara tra D. Cafasso, D. Cinzano ed altri Castelnovesi nel provvedere a Giovanni il necessario per entrare in seminario.

Capitolo 41

da Memorie Biografiche

del 11 ottobre 2006

Ne'’ capitoli precedenti si è visto quanto il nostro Giovanni fosse ben voluto da' suoi professori di Chieri. Non menò portato per lui fu in quest'anno il dottor Sac. Giovanni Bosco, il quale, benchè non gli fosse legato con vincoli di parentela, era pur contento di avere un allievo che cotanto onorava il suo nome e cognome, coll'ottima condotta, colla pietà e diligenza nello studio. Ei nella sua lunga carriera mai si dimenticò di questo suo discepolo e più cose diceva in lode della sua condotta, del suo ingegno e della sua memoria, specialmente quando alcuni sacerdoti e professori dell'Oratorio, passando per Chieri, si recavano a visitarlo. Dal suo labbro udimmo a narrare il seguente aneddoto. Un bel mattino di primavera, in giorno di vacanza, andando a passeggiare pei colli, ad un certo punto gli parve di sentire una voce alta e monotona, come di uno che recitasse qualche brano d'autore mandato a memoria, e nel tempo stesso il cadenzato ripetersi di certi colpi che gli sembravano di zappa maneggiata da braccia vigorose. Maravigliato, per un sentiero si avviò a quella volta, desideroso di conoscere chi fosse quel lavoratore, e vi trovò il giovane Bosco che zappava la vigna del Cumino, suo padrone di casa; mentre tenendo un libro aperto, sostenuto da un tralcio, studiava la lezione. A quella vista stupito il professor Bosco concepì maggior stima ed affetto pel suo allievo, che pure già amava teneramente.

Da varii indizi avuti in seguito, possiamo argomentare che fosse questo un lavoro ordinario di Giovanni per più ore nei giorni di vacanza: perchè sovente noi l'udimmo lodare i lavori manuali come mezzo per conservare la sanità e la moralità. Ed ecco ancora in lui, insiem collo studente, il contadino e l'operaio; giacchè si esercitava pure nel radere le barbe e tagliare i capelli, come egli stesso ci narrava, essendosi fatto ammaestrare in questa professione per risparmiare a se stesso la spesa del barbiere e poter rendere servigio agli amici.

Contuttociò egli nulla smetteva del suo ardore per gli studii, e continuava a dare ripetizioni a' giovani chieresi. La signora Giuseppina Valimberti, vedova Radino, narrava a D. Bonetti nel 1889: “Mio fratello sacerdote parlava sempre in casa con ammirazione di un certo suo scolaro, di nome Giovanni Bosco. Benchè egli fosse professore, pure consegnò a questo, suo allievo un altro nostro fratello, perchè gli facesse ripetizione. Nostro fratello era l'ultimo nella classe di umanità, disattento e causa di fastidi alla famiglia; ma colla buona volontà e coll'istruzione, che il suo ripetitore seppe infondergli, cambiò interamente condotta. Divenne serio, studioso, attento, amante del suo dovere. Mio padre ne era consolatissimo, e mia madre non faceva che ringraziare la divina Provvidenza di aver loro condotto in casa quell'aureo giovane. In quell'anno il fratello fu promosso alla retorica, prendendo lodevolmente gli esami. Anche il figlio del pretore, signor Plebano, fu migliorato dalla ripetizione che gli faceva Giovanni Bosco, e molte altre famiglie, informate di queste cose, lo desideravano nelle loro case a maestro dei loro fanciulli. Sovente egli era invitato a pranzo a casa Valimberti ed era quello per tutti un giorno di festa. Alla domenica era sempre nostro commensale. Agli ultimi tocchi della campana, tutti ci alzavamo e ci mettevamo in via per andare alla chiesa; ma Giovanni, invece di venir con noi, scompariva. Le prime volte una delle mie sorelle, la Giuseppina, sospettò che Giovanni fosse men buono di quello che si diceva, credendo che non si affrettasse ad andare alle sacre funzioni e forse ne stesse lontano; ma non tardò a disingannarsi. Giovanni aveva fatto un giro più lungo, per raccogliere i fanciulli dispersi qua e là per le vie, i quali per non andare al catechismo si ritiravano a giuocare e divertirsi nei luoghi più deserti. Noi, passando pel giardino di casa alla piazza del duomo, giungevamo a tempo per vedere Giovanni Bosco già attorniato da un bel numero di ragazzi, che egli guidava in chiesa. In famiglia lo stimavamo davvero un santo, pel suo contegno garbato, modesto, divoto, specialmente nel tempo delle preghiere. Sovente, alla sera, quando veniva a visitarci, guidava egli il rosario, ed era per noi scuola di buon esempio. Eravamo tre sorelle e non sempre obbedienti alla mamma e attente a far con diligenza i doveri di scuola e i lavori domestici:

- Bene, diceva la mamma, bene: stasera lo dirò a Giovanni; farò vedere questo lavoro a lui e sentirai ciò che ti dirà! Per noi era tutto questa minaccia, e piccoline come eravamo, per questo timore facevamo il possibile per contentare la  mamma. Troppo ci premeva che Giovanni Bosco avesse di noi un concetto più mite e più favorevole. Eppure egli non trattava con noi, se non indirizzandoci qualche rara parola, quando non poteva farne a meno. Nostro padre, uomo di codice e di tribunale, ebbe a dire più volte in famiglia che egli non sapeva proprio che cosa desiderare di meglio nello studente Bosco. In lui ritrovava ogni virtù, studio, giudizio, a ingegno, religione ed amore sincero per il benessere della società”.

Qui è opportuno notare una virtù singolare di Giovanni, altrove appena accennata, che rapiva tutti di ammirazione: la sua mortificazione nel cibo, specialmente quando era invitato a mensa presso qualche signore di Chieri o presso qualche parroco. Il suo vitto ordinari o era sempre stato molto parco e talora insufficiente: pane, minestra e no sempre un po' di frutta. Sembra naturale che, data l'occasione, secondando il bisogno e il gusto, un poveretto non riesca a stare entro certi limiti e quindi si mostri ingordo e privazione in smoderato. Nulla di questo in Giovanni. La privazione in lui era divenuta virtù volontaria. Gli occhi degli ospiti nulla trovavano nel suo contegno disinvolto, ma riservato, che fosse meritevole di critica. Pareva non si accorgesse se l'imbandigione fosse abbondante o scarsa. Non incominciava a prender cibo, se gli altri non gliene avessero dato l'esempio, e servivasi frugalmente di quanto gli era messo dinnanzi. Finiva il suo pasto prima degli altri. Pochissimo vino gli bastava e questo adacquato. Serbava un rispettoso silenzio: non interrompeva chi parlasse: se alcuno interrogavalo, colla sua amabilità e lepidezza era la gioia dei commensali. E tale sempre si mantenne dalla fanciullezza fino alla più tarda età! Pareva che avesse scolpito in cuore gli ammonimenti dell'Ecclesiastico: “Sei tu assiso a splendida mensa? Non essere il primo a stendere la mano. Nel prendere le vivande, non urtare cogli altri. Vergógnati di mettere il gomito sul pane. Giudica del genio del tuo prossimo dal tuo. Sérviti da uomo frugale di quelle cose che ti sono messe davanti, affinchè non avvenga che, col molto mangiare, tu ti renda odioso. Sii il primo a finire per verecondia, e non essere smoderato per non disgustare veruno. E se siedi in mezzo a molti, non istendere la mano prima di quelli, e non essere il primo a chiedere da bere. Quanto poco vino è sufficiente ad un uomo bene educato! E in dormendo non ne sarai inquietato e non ne sentirai incomodo. Le vigilie, la colica, i dolori sono per l'uomo intemperante. Il sonno salubre è per l'uomo parco: egli dorme sino al mattino, e l'anima di lui sarà lieta con esso”.

Eravamo nel mese di giugno. La carità, la pazienza e le belle maniere, con cui il professore Giovanni Bosco trattava gli allievi, e la sua sollecitudine per farli progredire nello studio e nella pietà, gli avevano attirata la stima e l'affezione di tutta la scolaresca, la quale con impazienza aspettava il giorno suo onomastico per fare quanto la gratitudine poteva suggerire. Giovanni era alla testa di quella dimostrazione: egli aveva preparato un bel sonetto. Però anzi tutto, al mattino del giorno 24 giugno, con Luigi Comollo e con altri compagni andò a far la santa Comunione pel professore. La sua tenerezza riconoscente per quanti gli facevano del bene fu sempre uno dei caratteri più salienti della sua vita. Egli stesso ci ha lasciato memoria di questa festa, come pure di quella fattasi l'anno precedente in onore del professor Banaudi. Ed anche il professor Bosco non volle dal canto suo cederla in generosità, e fissò egli pure pel giovedì seguente una passeggiata fina ai così detti Prati di Palermo, che distano tre chilometri da Chieri, con una munificentissima refezione per tutti gli allievi. Si lessero varie composizioni, cui rispose commossa il professore. Gli applausi e i battimani furono indicibili. Seguì poscia la merenda, in cui ciascuno mangiò e bevve a piacimento. Ognuno poi si diede a saltare, correre e cantare: insomma fu per tutti un'allegria da non potersi descrivere. Senonchè ad un certo punto della ricreazione si spande la voce che Comollo è scomparso. Si teme siagli accaduta qualche disgrazia, tanto più che ciascuno ricorda come l'anno precedente, nella medesima circostanza, era morto annegato un compagno nelle acque della fontana rossa a pochi passi distante di colà. Tutti pertanto rimangono pieni di spavento e si pongono a fare indagini tutt'all'intorno, ma inutilmente. In fine lo ritrovano in un sito, che niuno si pensava: era nascosta presso la vicina cappella, tra un cespuglio ed un pilastro, della medesima. Comollo, gli disse Giovanni, che fai tu qui? Tutti sono inquieti sulla tua sorte e ti cercano con ansietà. Vieni. - Egli volse uno sguardo, come chi è disturbato da una cara occupazione, e rispose: - Mi rincresce la vostra inquietudine, ma oggi io non aveva ancora recitato il S. Rosario e desiderava pagare questo tributo alla Beata Vergine.

- Tranquillizzati così tutti i compagni, ringraziarono il professore e partirono ciascuno alla volta di Chieri. E qui noi, mentre ammiriamo la ingenua divozione di Comollo degna per certo di ogni lode, argomentando dalle parole del nostro Giovanni, notiamo come egli in simile caso avrebbe rimandato ad altro tempo quella preghiera, nè si sarebbe appartato dalla compagnia del professore e degli amici, per non sembrare scortese e recare loro dispiacere, imitando in, ciò quel caro S. Francesco di Sales, che più tardi prenderà per protettore della pia sua Congregazione, il quale non, voleva essere schiavo delle divozioni supererogatorie.

Frattanto volgeva al suo termine anche quest'anno scolastico, ed il nostro Giovanni, per la lettura di qualche libro sulla vocazione, rimase così atterrito dai pericoli che si incontrano nel mondo, da ricadere nel dubbio sulla scelta o del seminario o del convento. Dopo molte riflessioni, pensò di nuovo di entrare in qualche altro convento dei Francescani, Ordine di tanti meriti, gloria e sostegno della Chiesa, persuaso che ciò non potrebbe impedire lo svolgimento dei destini, che Dio gli aveva fissati. Ma, come narra egli stesso nelle sue memorie, dovette mutare ancora divisamento: “In quel tempo succedette un caso, che mi pose nell'impossibilità di effettuare il mio progetto; e siccome gli ostacoli erano molti e duraturi, così io ho deliberato di esporre tutto all'amico Comollo. Egli mi diede per consiglio di fare una novena a Maria SS. per ottenere lume in affare di tanta importanza, e nel frattempo egli avrebbe scritto al suo zio prevosto.. L'ultimo giorno della novena, in compagnia dell'incomparabile amico feci la Confessione e la Comunione; di poi udii una Messa e ne servii un'altra in duomo all'altare della Madonna delle Grazie. Andati poscia a casa, trovammo di fatto una lettera di D. Comollo, concepita in questi termini:

- Considerate attentamente le cose esposte, io consiglierei il tuo compagno di soprasedere dall'entrare in un convento. Vesta egli l'abito chiericale, e mentre farà i suoi studi, conoscerà vie meglio quello che Dio vuole da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocchè colla ritiratezza e colle pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli.

Egli aveva eziandio manifestata la presa deliberazione a D. Cafasso ed al suo parroco teologo Cinzano, i quali pure furono d'avviso che entrasse in seminario, aspettando a decidersi per un Ordine religioso in età più matura. Giovanni esperimentò quanto giovi, nell'affare della vocazione, prendere consiglio da persone dotte e pie ed obbedì, come narra egli stesso: “Ho seguito quel savio suggerimento, mi sono seriamente applicato in cose che potessero giovare a prepararmi alla vestizione chiericale. Subito l'esame di retorica, sostenni quello dell'abito di chierico in Chieri e precisamente nelle camere attuali della casa di Carlo Bertinetti, che morendo ci lasciò in eredità e che erano tenute a pigione dall'arciprete canonico Burzio. In quell'anno l'esame non ebbe luogo, secondo, il solito, in Torino a motivo del colèra - morbus, che minacciava i nostri paesi. Tuttavia la capitale ne andò immune e con un triduo solennissimo in onore del nuovo Beato Sebastiano Valfrè, celebrato nella chiesa di S. Eusebio, coll'intervento della famiglia reale e dell'università, se ne rendevano grazie al Signore, supplicandolo per l'avvenire.

” E qui voglio notare una cosa che fa certamente conoscere quanto lo spirito di pietà fosse coltivato nel collegio di Chieri. Nello spazio di quattro anni, che frequentai quelle scuole, non mi ricordo di avere udito un discorso od una sola parola, che fosse contro ai buoni costumi o contro alla religione. Compiuto il corso di retorica, di 25 allievi, di cui componevasi quella scolaresca, abbracciarono lo stato ecclesiastico; tre medici: uno mercante”.

Preso adunque l'esame di vestizione chiericale, che gli riuscì ottimamente, Giovanni andò a congedarsi dai superiori, del collegio. Il dottore Teol. Bosco ed altri cospicui personaggi ci narravano essere stata cosa meravigliosa il vedere, come Giovanni avesse saputo guadagnarsi non solo i cuori dei compagni, ma eziandio quelli del prefetto degli studi, del direttore spirituale e di tutti i suoi professori: i quali ultimi gli conservarono il più grande affetto, in modo da desiderarlo

sempre come amico e confidente. Il suo professore di retorica, dottore di belle lettere e aggregato, appena terminato il corso, volle che Giovanni lo tenesse come amico e gli desse del tu. Ciò basti per dimostrare in quale stima fosse tenuto il povero contadino de' Becchi. E di questa fu causa non solo la sua virtù, ma una specie di contrasto che spiccava in tutte le sue azioni e lo rendeva ancor più amabile. Affermo quanto già dissi, perchè il lettore non formi erroneo giudizio. Egli, di un'attività continua e intraprendente, era lento e posato nell'operare: di una ricchezza meravigliosa di idee e di grande facilità nel comunicarle a tempo opportuno, era parco di parole, specialmente con quelli che erano a lui superiori. Tale l'abbiamo conosciuto per tanti anni e tale fu da giovane. Le mille volte osservandolo o ascoltando i suoi coetanei a parlare di lui, ricordavamo le parole dell'Ecclesiastico, come se queste recassero il suo vivo ritratto: “Giovanetto, parla al bisogno a mala pena. Interrogato due volte, restringi in poco la tua risposta. In molte cose dipórtati come ignorante e ascolta tacendo e domandando. In mezzo ai grandi non ti azzardare: e dove sono vecchi non parlare molto. Il tuono è preceduto dal lampo, e la verecondia è preceduta dalla buona grazia e la tua ritenutezza farà che tu sii benveduto”.

Ritornato al suo paese, udiamo da lui stesso qual fosse il suo tenore di vita. “Andato a casa per le vacanze, cessai di fare il ciarlatano e mi diedi alle buone letture, che debbo, dirlo, a mia vergogna, fino allora avea trascurate. Ho però continuato ad occuparmi dei giovanetti, trattenendoli in racconti, in piacevoli ricreazioni, in canti di laudi sacre; anzi, osservando che molti erano già inoltrati negli anni, ma assai ignoranti nelle verità della fede, mi sono dato premura di insegnare loro anche le preghiere quotidiane, il modo di prepararsi a ricevere i Santi Sacramenti ed altre cose più importanti per quella età. Fra quello una specie di Oratorio cui intervenivano circa cinquanta fanciulli, che mi amavano e mi obbedivano come se fossi stato loro padre”.

E doveva essergli ben caro questo piccolo campo evangelico; poichè da ben quattro e più anni egli nei mesi di settembre e di ottobre lo coltivava collo zelo di un apostolo. Egli si umilia dicendo che fin allora aveva trascurato le buone letture, vale a dire la lettura de' libri ascetici. Ma chi potrà crederlo? Certamente che in mezzo alle sue svariate occupazioni non poteva farne oggetto di diuturna meditazione, come nei tempi che solo occupavasi della pastorizia; ma è egli mai possibile che un giovane, nelle condizioni del nostro Giovanni, manifestasse in sè tanta abbondanza di vita spirituale, da trasfonderla continuamente negli altri, se avesse veramente trascurato questo nutrimento dell'anima?

Intanto, avvicinandosi il tempo della vestizione chiericale, Giovanni, mancando di mezzi materiali, si vedeva innanzi gravi difficoltà per entrare in seminario. Ciò eragli pure necessario per andar esente dalla leva militare, essendo egli ora entrato negli anni ventuno. Ma D. Cafasso, che fu poi sempre il suo benefattore, amico e consigliere, abboccatosi con D. Cinzano, stabilì con lui il da farsi, per ottenere a Giovanni l'ingresso in seminario, senza grave spesa di pensione; al qual intento fu deciso di ricorrere alla generosità del teologo Luigi Guala, direttore e fondatore del Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi in Torino, il quale aveva eziandio una grande influenza sull'animo dell'Arcivescovo Fransoni. E un bel mattino il Teol. Cinzano, chiamato a sè Giovanni, senza comunicargli il suo pensiero, lo condusse a Rivalba dal sullodato Teol. Guala, che quivi villeggiava in una sua possessione di trecento giornate. Ricchissimo signore, era di una carità incomparabile nel soccorrere ogni sorta di persone, che avessero bisogno di aiuto. Ed il Teol. Cinzano, fattogli esaminare il giovane, tanto disse, che gli venne promesso di farlo entrare per quell'anno gratuitamente in seminario. Ed ecco vinto il punto più difficile. Restava a provvederlo degli abiti chiericali, che la sua povera madre non avrebbe potuto comprargli. D. Cinzano ne parlò ad alcuni suoi parrocchiani, che accettarono premurosamente di concorrere a questa opera buona. Il Sig. Sartoris lo provvide della veste talare, il Cav. Pescarmona del cappello, il vicario gli diede il suo proprio mantello, altri gli comprò il colletto e la berretta, altri le calze, e una buona donna raccolse i denari necessarii per fornirlo, credo, di un paio di scarpe. Questa è la maniera che la divina Provvidenza terrà poi in seguito col nostro Giovanni, servendosi cioè dell'aiuto di molti per sostenere il suo fedel servo e le opere tutte, cui egli darà mano. E noi udimmo D. Bosco più d'una volta ripetere: - Io ebbi sempre bisogno di tutti!

D. Cinzano adunque, vicario foraneo di Castelnuovo, il quale fu vero padre di tutti quei giovani che vestirono poi l'abito chiericale, fra i quali va notato Mons. G. B. Bertagna, lo fu in modo speciale per Giovanni Bosco suo primo chierico. Per lui ebbe sempre, con affezione paterna ed intuizione di ciò che sarebbe un giorno divenuto, una cura tutta particolare. Parlando di lui spesse volte gli uscivano dalle labbra queste profetiche parole:

 - Vedrete, vedrete: questo giovane riuscirà qualche cosa di grande. Io morirò, non potrò vedere la sua riuscita, ma voi vedrete che farà parlare di sè tutto il mondo.

   - Così ci raccontava D. Febbraro di Castelnuovo, priore di S. Giovanni Battista in Orbassano e compagno di D. Bosco nell'ultimo anno di seminario.

Giovanni era adunque omai sicuro della riuscita della sua vocazione e poteva, ringraziando Iddio, esclamare: “La sorte è caduta per me sopra le cose migliori; e certamente la mia eredità è preziosa per me”.

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