Capitolo 41

La Cappella del Rosario ai Becchi - Tenerezza di Mamma Margherita per il nipote - Nuove leggi scolastiche e sagge previsioni di D. Bosco - Scuola nell'oratorio per i giovani adulti - Progetti di alleanza fra i vari oratori della città D. Cocchis e l'Oratorio di Vanchiglia - D. Bosco vuol essere indipendente - Sicurezza di un prospero avvenire.

Capitolo 41

da Memorie Biografiche

del 10 novembre 2006

 Un avvenimento, lieve in sè, ma caro e memorabile per la famiglia di D. Bosco e fecondo di bei risultati si svolse in quest' anno così tempestoso. Allorchè D. Bosco si ritirava a passare qualche giorno ai Becchi, era costretto, per celebrare la santa Messa, a recarsi alla Chiesa di Capriglio, ovvero alla Cappella di Morialdo, che distavano qualche chilometro, e vi si accedeva per strade quasi impraticabili in certe stagioni. Perciò dava ordine che si eseguisse un lavoro che gli stava sommamente a cuore, cioè che si adattasse ad uso Cappella una stanza a pianterreno della sua paterna abitazione e se ne aprisse la porta sull'aia. Mentre il fratello Giuseppe si affrettava compiere i desideri di D. Giovanni, questi faceva recapitare in Curia la seguente supplica:

 

 

 

Eccellenza Reverendissima,

 

Il Sac. Bosco Giovanni di Castelnuovo d'Asti, in parte dell'anno dimorante in Morialdo, borgata del medesimo territorio, attesa la distanza di due miglia circa dalla Parrocchia per strade malagevoli, osservato il vantaggio spirituale che da una cappella potrebbe ridondare agli abitanti di detto luogo, supplica umilmente S. E. Rev.ma a voler delegare l'illustrissimo signor Vicario di Castelnuovo, e in difetto di esso delegare lo stesso supplicante, per la benedizione di una cappella ivi eretta per celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Sperando la grazia si dichiara

 

Supplicante D. Bosco Giovanni.

 

 

Intanto, con l'aiuto probabilmente del Teol. Cinzano e di D. Cafasso, la Cappelletta che doveva essere pubblica, era stata disposta secondo le regole dei Sacri Canoni e provvista delle suppellettili necessarie, sia all'ornamento dell'altare, sia alla celebrazione della santa Messa. Con decreto del 27 settembre 1848 il Vicario generale Filippo Ravina a nome dell'Arcivescovo assente, delegava il Teol. Antonio Cinzano, Prevosto di Castelnuovo e Vicario Foraneo, a constatare se fossero state osservate fedelmente le leggi ecclesiastiche nella costruzione di detta cappella, e quindi a benedirla: dichiarava però, come di forma, sempre salvi tutti i diritti arcivescovili e parrocchiali, e inoltre potere il parroco compiere in detta Cappella le funzioni ecclesiastiche in qualunque tempo ed in perpetuo.

Don Bosco ai primi di ottobre si condusse ai Becchi con circa sedici giovanetti, parte allievi interni, parte esterni dell'Oratorio festivo. Fra questi vi era un certo Castagno, ancor vivente nel 1902. Il giorno 8 di ottobre il Teol. Cinzano benedisse la Cappella, che fu dedicata in onore della Madonna Santissima del Rosario.

Era il primo stabile edificio sacro che D. Bosco dedicava al Signore e a Maria SS. per i benefici dei quali egli era stato favorito così splendidamente in quello stesso luogo. Si sarebbe potuto scolpire su quel frontone il detto di Giacobbe, quasi riepilogo della sua fanciullezza: Locus iste sanctus est et ego nesciebam. La prima festa vi si celebrò con una solennità, quale si poteva maggiore, e con grandissimo concorso di gente. I giovani dell'Oratorio vi si fermarono circa otto giorni, cioè tutta la novena e festa della Madonna del Rosario, rallegrando coi loro cantici sacri gli abitanti della borgata. Da che fu benedetta la Cappella non mancò mai D. Bosco tutti gli anni di andarvi in questa ricorrenza fino al 1869, accompagnato sempre da quei giovani cantori che avevano tenuto miglior condotta lungo l'anno. Ei vi predicava tutte le sere della novena, il mattino amministrava i sacramenti della Confessione e Comunione per darne comodità ai suoi borghigiani, che ne erano tutti sommamente contenti. I Salesiani continuarono senza mai interromperla questa pia pratica. Grandissimo era il numero di coloro che si accostavano ai Sacramenti. Molti giovani andavano da Chieri da Buttigliera, da Castelnuovo e da altri paesi circonvicini e anche lontani per confidare a D. Bosco i segreti della propria coscienza.

Il giorno della festa un tino rovesciato posto sull'aia e coperto di drappi, che prima aveva servito di tagliere per le vivande destinate ai giovani, teneva luogo di pulpito, dal quale D. Bosco, o altro sacerdote invitato predicava le glorie del SS. Rosario. È su questo ambone che un giorno D. Cagliero nel fare il panegirico della Madonna al cospetto di una fitta e attenta moltitudine, a un tratto mancandogli sotto i piedi l'asse del fondo, sprofondò e scomparve con viva ilarità degli uditori. Essendo troppo ristretta la Cappella, la musica e i cantori stavano fuori col popolo all'aria aperta. Talora i fuochi artificiali, talora un teatrino poneva fine alla lieta giornata.

 - Andando D. Bosco alla parrocchiale di Castelnuovo moltissimi si avvicinavano a lui per consiglio ed ammaestramenti Tutti poi si recavano con grande desiderio ad ascoltare la sua Messa e ad udirlo predicare, tanto lo stimavano come virtuoso ed esemplare.

Tali attestazioni cento volte ripeteva il Vicario D. Cinzano, dei quale, tra le molte carità da lui usate verso D. Bosco e i suoi giovanetti noi dobbiamo annoverare quella di invitarli graziosamente a pranzo in un giorno di quella novena in casa sua, eziandio quando passavano il centinaio. Essi vi si recavano con musica, attrezzi teatrali, razzi, palloni volanti. Colà schierati attorno ad una grossa polenta al suono di musicali strumenti e tra mille applausi se la mangiavano saporitamente. Non occorre il dire che pane, vino, pietanza, frutta erano in vera abbondanza a piacimento di ciascuno. E il buon Prevosto si diceva felice e riconoscente per una visita a lui così cara. Questa mensa fu imbandita tutti gli anni fino al 1870, ultimo della sua vita.

D. Bosco, pochi giorni dopo la festa del Santo Rosario, si affrettava a ritornare in Torino. Accondiscendendo alle domande di sua madre e di suo fratello Giuseppe, condusse cori sè il nipotino Francesco di circa otto anni per dargli un'educazione ed istruzione secondo lo stato di sua famiglia. Benchè Giuseppe, per molti servigi che prestò sempre all'Oratorio, compensasse gran parte della spesa, pure D. Bosco desiderava che il nipote avesse il trattamento degli alunni ricoverati e facesse vita comune con essi. Aborriva dalle preferenze, che destano gelosie. Dovette però rinunziare a questa idea per non contristare troppo il cuore sensibilissimo di sua madre verso il nipote, la quale volle che sedesse alla stessa mensa dello zio. Tuttavia attestava D. Giacomelli, essersi accorto sovente che D. Bosco vedeva malvolentieri tale preferenza. Mentre provava per i suoi parenti i più vivi sensi di affetto, pure ei voleva operare secondo i movimenti della grazia e non secondo quelli della natura.

Intanto il 4 ottobre era stata promulgata una nuova legge sulla pubblica istruzione, cessando il regolamento scolastico del 1822. Procedendo a passo misurato, si conservava negli Istituti di educazione qualche pratica di pietà, la Messa festiva e un triduo di prediche in preparazione alla Pasqua; ma si toglieva all'Autorità Ecclesiastica il diritto di nominare i Direttori di spirito e di vegliare sull'istruzione religiosa nelle Università e nelle scuole pubbliche e private. L'insegnamento fu sostanzialmente secolarizzato. I seminari si lasciarono, per grazia, pienamente soggetti ai Vescovi; ma gli studi ivi compiuti, erano dichiarati senza valore, per gli esami e i gradi nelle scuole dei Governo, quando non si eseguissero i nuovi regolamenti.

D. Bosco comprese subito il bisogno di numerosi Istituti cattolici da erigersi a qualunque costo, perchè come avrebbero potuto i Vescovi riposare tranquilli sull'ortodossia dell'insegnamento religioso impartito dai maestri indipendenti dalla loro autorità? Egli già da tempo escogitava vasti progetti per venire in aiuto della cristiana educazione della gioventù, e le sue previsioni lo avevano indotto a continuare nel prestarsi a far scuola di catechismo in varie scuole della città. Ed ora i suoi timori si avveravano.

Egli di quando in quando aveva trovato tempo per andare all'Università; ed assistere a qualche lezione di letteratura del celebre Pier Alessandro Paravia; e mentre ne approfittava, perfezionando i suoi scritti, con l'aggiungere sempre maggior accuratezza di lingua al suo modo così naturale di concepire le idee e di esprimerle con semplicità, osservava quale fosse lo spirito che aleggiava in quelle aule. E dovette pure constatare il crescente malanimo di molti studenti ed insegnanti contro la Chiesa. Un giorno sentì dire dal professore di pedagogia e filosofia. Berti Domenico, alla sua numerosa scolaresca: “ Una volta l'istruzione era tutta in mano ai preti, ed ora bisogna che passi in mano ai laici. Verrà tempo in cui il clero se vorrà imparare qualche cosa bisognerà che venga a scuola da noi ”. Era questo il deliberato proposito dei settari, che intanto si affrettavano a scuotere da sè ogni soggezione al sacerdozio. Infatti Cristoforo Negri, presidente del Consiglio Universitario, con lettera dell'8 dicembre dichiarava cessata ogni ingerenza dell'Autorità Vescovile nell'Università, agli esami non dover più assistere veruno rappresentante del Pro - Cancelliere, ed essere proibito al candidati di sottomettere all'approvazione dei Vescovi le tesi da difendersi nei pubblici esami. Nell'Università vi era anche la Facoltà Teologica: così in ogni insegnamento restava aperta la strada all'incredulità e ad ogni eresia; e non vi fu poi stranezza nè errore che non si sostenesse e non si difendesse, singolarmente in quanto all'autorità e ai diritti del Romano Pontefice e della Chiesa Cattolica. Invano i Vescovi reclamarono. Alcuni di essi vietarono ai loro chierici di frequentare i corsi universitari e pigliarvi i gradi: altri dissimularono, lasciando che i loro diocesani proseguissero a studiarvi la teologia e ad ornarsi di laurea.

D. Bosco propendeva per questi ultimi, e ciò manifestava al Vescovo di Ivrea. Fermo sempre nella certezza che anche questa legge avrebbe durato per anni motti, era d'avviso che si mandassero a conseguire le lauree, specialmente quelle che erano necessarie per i vari rami d'insegnamento nei ginnasi, nei licei, ed anche nelle Università, chierici o sacerdoti di provata virtù e d'ingegno. Bastava premunirli ed assisterli, perchè potessero schivare i pericoli temuti di pervertimento.

Egli osservava essere questo l'unico mezzo pel quale la Chiesa avrebbe potuto indirettamente influire nell'istruzione pubblica: che diradandosi le file dei molti ottimi insegnanti attuali, altri avrebbero preso il loro posto, ma guasti da falsi principi; che insomma operare diversamente era un abbandonare col tempo tutta la giovent√π agli avversari.

Mentre così saggiamente pensava al futuro, accendeva sempre più il suo zelo per l'Oratorio. Quindi per impedire che anche nei giorni feriali i giovani, e specialmente i meno assidui e meno docili, si dissipassero in mezzo ai frastuoni delle piazze trovò che nessun mezzo sarebbe stato più adatto per attirarli a sè che prendersi una cura ancor più diligente della loro istruzione Ingrandì pertanto considerevolmente le scuole serali; sicchè giunsero a contenere Più di trecento giovani. Egli poi raddoppiando i suoi sforzi con insuperabile abnegazione, passava successivamente da una scuola all'altra per farli lavorare tutti e con frutto, mentre sceglieva ed addestrava i nuovi e desiderati giovani maestri. Più non restava traccia dei passati sconvolgimenti.

Ma non erano tutti fanciulli coloro che accorrevano a tali scuole. Quasi un centinaio erano adulti invitati da D. Bosco, illetterati, la maggior parte coi baffi e colla barba. Accolti in una stanza a parte, D. Bosco stesso prese ad istruirli, ed essi lo ascoltavano docili come bambini. Egli aveva un suo metodo particolare e curioso per insegnare l'alfabeto, accompagnandolo con motti arguti, paragoni ameni che rallegravano gli scolari, e fissavano loro in mente le lettere da lui scritte sulla lavagna. Disegnava p. es. un O poi lo tagliava in mezzo con una linea perpendicolare al suolo: la parte, a sinistra era un C, quella a destra un D. E così procedeva segnando linee rette e curve, cancellando, aggiungendo, ma tenendo un ordine logico d'idee, per non generar confusione nelle loro menti. Compiuto l'intiero alfabeto con simili industrie, raggruppava le lettere in sillabe e formava le parole. Talvolta qualcuno dei suoi maestrini, e fra gli altri Bellia Giacomo, lasciavano per brevi istanti la loro scuola per spiarlo e ricrearsi colle sue invenzioni.

I suoi scolari benchè non avvezzi ai lavori di mente, imparavano a meraviglia, e dopo breve tempo sapevano leggere abbastanza correntemente e poi scrivere. Non faceva mai scuola senza un po' di catechismo. Ad intervalli interrompendo la lezione, ovvero in sul terminarla, raccontava fatterelli edificanti che instillavano nei cuori la pietà o l'amore a qualche virtù in particolare. Finiva sempre la scuola con il canto di una laude sacra.

Come li ebbe sufficientemente dirozzati, cedette la sua cattedra a Bellia Giacomo che non contava più di 16 anni, al quale eziandio quei buoni giovanotti si prestavano attentissimi. D. Bosco però di quando in quando, andava a visitarli e talvolta dava lezione di calligrafia e di aritmetica. E specialmente li istruiva su questa, allorchè il 15 dicembre il Ministro di agricoltura e commercio invitò i Vescovi a cooperare all'introduzione del sistema metrico decimale e a farlo insegnare ne' seminari. Tale scuola teneva un gran posto ne' suoi disegni di prudente difesa.

I suoi alunni adulti, che andarono crescendo in numero negli anni seguenti, lo contentavano eziandio in tutto ciò che gli stava più a cuore, cioè nell'aiutarlo a salvare le loro anime; e anzi, preso amore alle sacre funzioni, si videro dopo non molto tempo e nel coro, e schierati nel presbitero cogli alunni interni, cantare i salmi e le antifone dei vespri. E D. Bosco procacciava intanto un padrone a quelli che mancavano di lavoro, soccorrendo eziandio con danaro chi fra essi si trovava nella necessità.

Regnando così una pace perfetta nell'Oratorio di San Francesco di Sales, negli ultimi mesi dell'anno alcuni fra gli antichi cooperatori di D. Bosco ecclesiastici e secolari, temettero che rinnovandosi i dissidi, questi finissero per rovinare completamente l'opera così bene incominciata degli Oratorii festivi. Perciò formarono il progetto di stringere quelli già esistenti e quelli che si sarebbero fondati, quasi in confederazione, dipendenti da una specie di assemblea direttiva, la quale ne avrebbe tutelati gli interessi materiali e morali, e sarebbe stata giudice delle questioni che fossero sorte fra di loro. Questi, in Torino, computando Valdocco, erano tre e destinati per i figli del popolo. Quel di S. Luigi a Porta Nuova, benchè fondato da D. Bosco, si cercava di costituirlo autonomo, avendo qualcuno dei Teologi che lo dirigevano manifestato qualche velleità di rendersi indipendente. Il terzo Oratorio era quello di Vanchiglia, sobborgo non lungi dal Po abitato nella maggior parte da povera gente, e che allora apparteneva alla parrocchia della SS. Annunziata. Lo divideva dalla città il viale di S. Maurizio; e oggigiorno il corso Regina Margherita colle sue belle case ne attraversa il territorio. Quivi gli inquilini, di un gruppo di case detto il Moschino, davano molto da fare alla Polizia e di giorno e di notte. Colà presso il Sac. D. Giovanni Cocchis, allora vice - curato nella parrocchia, con uno scopo alquanto analogo a quello di Don Bosco aveva incominciato nel 1840 a radunare un certo numero di giovani in alcune stanze del Moschino. Nel 1847 poi il 23 febbraio stringeva un contratto di fitto di un cortile, con due tettoie, posto sulla via S. Luca per lire 800 annue. Ne erano proprietari l'Avv. Cav. Ludovico Daziani governatore di Sassari, deputato e poi Senatore; e l'Avv. Alessandro Bronzini Zapelloni. Quivi si radunavano numerosi giovani piuttosto adulti a fine di esercitarsi nella ginnastica, in manovre militari e in altri simili giuochi. Vi era soprattutto celebre il giuoco del salto, e i ragazzi per indicare che andavano a quell'oratorio, o ricreatorio che dir si voglia, solevano dire: - Andouma ai saüt d' Don Cocchis: Andiamo ai salti di Don Cocchis. - Intanto, con siffatto mezzo, quell'operoso sacerdote li teneva lontani dai divertimenti pericolosi od immorali, ed era un non lieve guadagno. Questa sua impresa gli procurò le simpatie e gli aiuti della Marchesa Barolo, del Marchese Roberto d'Azeglio, e di Gabriele Cappello, detto Moncalvo.

Si pretendeva adunque, e a tutti i costi, che D. Bosco formasse una sola società anche con D. Cocchis, il quale, di condotta inappuntabile, pure, come tanti altri buoni preti, era infiammato da idee politiche: di queste D. Bosco non voleva e non volle mai assolutamente saperne. Ogni giorno però si udivano notizie che aggiungevano esca a queste passioni, divenute più aspre dopo la sconfitta di Carlo Alberto, e nello stesso tempo irrequiete per la speranza di una riscossa. I Siciliani avevano scacciate da tutta l'isola le truppe Napoletane, eccettuata la cittadella di Messina. A Roma pretendevasi dal Papa una dichiarazione di guerra all'Austria, e gli Austriaci che avevano tentato di occupare Bologna erano stati assaliti fieramente dai cittadini e costretti a ritirarsi. In Toscana il Gran Duca ormai non poteva più governare, ed essendo le plebi accese d'odio dal Gavazzi contro il clero e le milizie, avvenivano tumulti sanguinosi. Venezia in mezzo alla sua laguna teneva ancora alta la bandiera dell'indipendenza, bloccata dal nemici, trincerati in terraferma. In Italia risuonavano sempre le grida - Fuori lo straniero! Viva Pio IX! - ma le sette dominanti lavoravano infaticabilmente per la Repubblica italiana. L'Austria poi, coperta di rovine e di cadaveri, sembrava dover presto essere ridotta all'impotenza. L'Ungheria aveva mossa guerra atroce alla Croazia volendola a s soggetta. Vienna si era ribellata e invano soccorsa da un esercito ungherese, dopo sofferti sanguinosi assalti e bombardamenti dal 6 al 31 ottobre era costretta ad aprire le porte agli imperiali. Il 2 dicembre avendo l'Imperatore Ferdinando rinunziato al trono a lui succedeva il suo nipote Francesco Giuseppe; e da quel punto l'Ungheria proclamava la repubblica e sosteneva una lotta spaventosa con gli eserciti Austriaci, che doveva durare fino al settembre dell'anno seguente.

In Torino dunque come era possibile che le teste riscaldate mutassero opinioni, o almeno le tenessero per se, mentre era un continuo leggere di giornali, che secondavano in mille modi e focosamente aspirazioni credute legittime e sante? E D. Bosco che non amava le commozioni, le quali distoglievano ali animi da una missione veramente apostolica, non voleva ritentare una prova che per lui aveva già prodotte amare conseguenze.

Si formò intanto una commissione di suoi amici, fra i quali il sig. Durando prete della Missione, il Teol. Ortalda e l'Abate Peyron: di questa era membro fra i primari il Canonico Lorenzo Gastaldi. Il Canonico brigava per indurre D. Bosco ad abbracciare quel progetto, ad assoggettarsi a quella Commissione, e ad accettare quelle regole o statuti che gli verrebbero proposti. Nel medesimo tempo lo assicurava che la Commissione stessa verrebbe in suo aiuto pecuniariamente e in altri modi con grande vantaggio dell'Opera sua. Si tendeva insomma a ridurre D. Bosco nella condizione di semplice Direttore in Valdocco.

In una conferenza preliminare e plenaria, che fu la prima e l'ultima, D. Bosco, udite le ragioni del Canonico Gastaldi, osservò in primo luogo non essere conveniente simile alleanza, e rispose: - Incominciamo dall'Oratorio di Vanchiglia: Don Cocchis tutto entusiasmato della ginnastica, e per attirare a s i giovani fa maneggiare bastoni e fucili: ma le funzioni di Chiesa nel suo Oratorio sono quasi nulle. Io intendo invece che per noi il bastone sia la parola di Dio e le altre armi siano la confessione e la comunione frequente. I divertimenti li stimo solamente quali mezzi, per condurre i giovani al catechismo. Gli altri varii capi d'Oratorio poi sono tutti, qual più, qual meno, intriganti in passioni politiche e le loro prediche sovente non sono istruzioni religiose, ma piuttosto esortazioni patriottiche. Io invece in politica non voglio immischiarmi nè punto nè poco. Come dunque è possibile mettere insieme d'accordo uomini che tengono opinioni contrarie è adoperano mezzi non conformi? Tuttavia io non condanno alcuno... e desidero di essere ancor io trattato egualmente... Facciamo pertanto così: Omnis spiritus laudet Dominum! Lei, Signor Canonico, ha un piano fatto: lo eseguisca e faccia del bene: le occasioni per erigere nuovi Oratorii non le mancheranno. Io pure ho il mio piano: ne vedo le convenienze e i mezzi e lo conduco avanti: ciascuno proceda liberamente per la sua strada. Quel che importa è che si faccia il bene. E poi, ho bisogno d'autonomia, e se debbo circondarmi di molti giovani, ho necessità di preti, di chierici, di uomini che dipendano intieramente da me e non da altri.

 - Allora, osservò il sig. Durando, ella vuole fondare una Congregazione?

 - Sia una Congregazione, sia quel che si vuole, io ho bisogno di erigere Oratorii, Cappelle, Chiese, catechismi, scuole, e senza un personale a me devoto non posso far nulla.

 - Ma come farà a mettersi in imprese di questa fa! Ci vorrebbero locali e danari in quantità.

 - Non ci vorrebbero solamente! Ci vogliono.... E ci saranno!

Il sig. Durando allora si alzò e disse:

 - Qui non è più il caso di ragionare.

E così finì quel tentativo ispirato da intenzioni lodevoli, ma non illuminate. Si disse testardaggine la sua costanza, fu messo in canzone anche da' suoi più intimi amici, ma restò irremovibile nel suo programma Non molto tempo dopo raccontando questo fatto ad alcuni dei suoi primi chierici, ripeteva ciò che più volte aveva detto; e le sue parole furono conservate in uno scritto e a noi trasmesse: - Non mi sgomentavo di nulla perchè io sapevo, e ciò era il mio conforto, che il Signore avrebbe proseguita e compiuta la sua opera per mezzo dei giovani stessi, stati allevati nell'Oratorio; e sul frontone di una casa, costrutta poi sullo spazio occupato dall'edificio Pinardi, avente la forma attuale, prima ancora che esistesse, io aveva visto scritto a caratteri cubitali: - Hic nomen meum, Hinc inde exibit gloria mea.. E sono sempre andato avanti col pensiero che ben presto avrei avuto chi mi presterebbe aiuto.

 - E di chi erano queste parole? - Domandarono i chierici.

Erano del Signore, rispose; io le avrei già fatte scrivere su questa casa, se non fosse per non porgere a qualcuno occasione di darci la taccia di superbi.

 

 

 

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