Compra di casa Moretta - Fuga di Pio IX da Roma - Minacce de 'L' Opinione' ai Vescovi - Morte del Teol. Guala - Il Ministero Gioberti - Rivendita della casa Moretta.
del 10 novembre 2006
 L'iscrizione che D. Bosco aveva letta in sogno hinc inde indicava chiaramente al di qua e al di là della via della Giardiniera. E al di là era il campo sul quale poi fu eretta la Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice e la casa Moretta. Questa aveva cantina e stalla, nove stanze abitabili a pianterreno, e per due scale si saliva al piano superiore, dove un lungo ballatoio dava accesso ad altre nove camere. In prossimità vi era un pozzo di acqua potabile. La casa avanti e dietro aveva un'estensione di terreno a prato, e la misura totale di quella proprietà constava di 58 tavole, 2 piedi, 10 once, pari a ettari 0, 22, 19. A levante questa proprietà confinava coi famoso prato dei fratelli Filippi, sul quale prospettava la porta d'entrata: a mezzodì col podere del sig. Rocci; a ponente colla strada di Valdocco, e a settentrione un prato parte del Seminario di Torino e parte del Sig. Rocci, quello dei sogni di D. Bosco. Il Sac. Giovanni Antonio Moretta padrone di questa casa, era morto nel 1847, e il suo esecutore testamentario l’aveva messa all'asta pubblica.
Abbiamo già detto come, crescendo ogni dì più i pericoli di pervertimento tra gli incauti giovinetti, D. Bosco, il Teologo Borel e i loro aiutanti fossero cresciuti altresì di ardore e di zelo per loro vantaggio. D. Bosco aveva visto allora più che mai il bisogno di ricoverarne un numero maggiore nell'incominciato Ospizio, e di vie meglio assicurare l'opera dell'Oratorio festivo. Così pure desiderava ampliare le scuole serali, specialmente per gli adulti; e vi riuscì come il lettore ha già appreso. Per tali effetti egli aveva cercato di comperare tutta la casa Pinardi, ma non gli veniva dato, perchè quel signore, benchè avesse scemate le sue pretese, domandava niente meno che sessanta mila lire, prezzo davvero ancora esorbitante.
In buon punto dunque veniva in vendita la casa Moretta, e D. Bosco si era risolto a comperarla a qualunque costo. Perciò il 9 marzo 1848 era andato in persona all'incanto, assegnato per una prima somma di 10, 000 lire e aumentando egli il prezzo di costo di cento in cento lire giunse alle 11, 800 le quali, non essendo state superate da altri offerenti, a lui rimase aggiudicato tutto lo stabile. Il 1° aprile egli ne era entrato in possesso con l'intenzione di trasportarvi l'oratorio e di allargarvi l'ospizio, e di poter disporre di un maggior numero di locali per ospitarvi con più facilità i forestieri. Per questi ebbe sempre un cuore grande, ammettendo alla sua mensa anche quegli estranei, al quali sperava tale accoglienza poter tornare vantaggiosa sia pel corpo come per l'anima.
Il 4 dicembre, per mano del notaio Galeazzi, si rendeva pubblico l'atto di deliberazione del 9 marzo. D. Bosco pagava un primo acconto di sole 601 lire e 75 centesimi e 396, 25 per i frutti, indizio certo che si trovava in strettezze. Tuttavia portava fino a 30 i giovanetti ricoverati, scelti tra i pi√π derelitti e pericolanti.
Mentre D. Bosco si occupava in questa impresa, nella capitale del mondo cattolico si erano svolti gravissimi avvenimenti. I rivoluzionari, che volevano disfarsi del Principe di Roma per atterrare in appresso l'autorità del Papa e abbattere la Croce, dopo avergli il 15 novembre in pieno meriggio pugnalato il primo Ministro Pellegrino Rossi, eccitavano il popolo ad inique pretese ed alla ribellione. Allora una turba di settari e loro adepti circonda il palazzo del Quirinale, dimora del Papa; gli disarma le guardie, vi appunta i cannoni, minaccia orribile saccheggio. I ribelli, armati di fucile, crivellano di palle il palazzo medesimo, e Monsignor Palma Segretario di Pio IX, colpito in fronte, gli cade morto da presso. In quei frangenti supremi che farà il Papa? Prenderà la fuga o si darà prigioniero e vittima ai ribelli?
Pio IX era tuttora incerto se dovesse rimanere in Roma a costo della propria vita, oppure salvarsi mediante la fuga, quando poche ore prima gli arriva dalla Francia un dono prezioso con una lettera affatto provvidenziale. Il dono era la piccola pisside, entro la quale Pio VI aveva portato con sè il SS. Sacramento come suo compagno e conforto, quando nel 1799 i Francesi, strappatolo da Roma, lo menarono oltre Alpi a morire in prigione nella città di Valenza. La lettera era di Monsignor Pietro Chatrousse Vescovo di detta città, il quale accompagnando il prefato dono al Pontefice, tra le altre cose gli diceva: “ Erede del nome, del seggio, della virtù, del coraggio, e quasi ancora delle tribolazioni del gran Pio VI, Voi, Beatissimo Padre, riponete forse ancora qualche pregio in questa tenue sì, ma importante reliquia, la quale spero non abbia più a servire al medesimo uso. Purea chi è dato scoprire gli occulti disegni di Dio nelle prove, che la sua provvidenza prepara a Vostra Santità?” .
Il Vicario di Gesù Cristo ricevette questo dono e questa lettera quale un avviso del Cielo, e dato bando ad ogni dubbiezza, stabilì di salvare se stesso e la dignità della Santa Sede mediante la fuga, mettendo in pratica il precetto, che Gesù Cristo medesimo ci lasciò nel Vangelo con queste parole: - Allorquando vi perseguiteranno in questa città, fuggite ad un'altra: Cum persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam. Pertanto la sera del 23 novembre, mentre il tempo nuvoloso e la notte oscura parevano rendere impossibile la partenza del Sovrano di Roma, Pio IX entra nel suo Oratorio privato e fa una calda preghiera a Gesù Crocifisso, raccomandandogli il suo Vicario. Dopo si alza, muta divise, e travestito ed accompagnato da un solo domestico, con una lanterna in mano, entra per una porta segreta, traversa lunghi corridoi, e con l'aiuto del Cielo riesce ad illudere la vigilanza dei suoi sgherri. Ad un luogo stabilito trova il conte Spaur, ambasciatore del Re di Baviera, che lo accoglie nella sua carrozza e lo conduce nel regno di Napoli. Pio IX giungeva sano e salvo in Gaeta, la sera del 25 novembre.
Così i due Principi, che al dire degli stessi loro avversari avevano iniziata l'era della libertà, furono i primi a subirne le amare conseguenze.
Se lo sfortunio del legittimo ed amato Sovrano accorò profondamente i giovani dell'oratorio, le inique scelleratezze commesse contro la persona dei Vicario di Gesù Cristo ne riempirono l'anima di dolore indicibile. Dirò a suo luogo la prova di figliale amore che gli hanno dato nel suo esilio, e come ne furono da lui ricompensati. I Vescovi del Piemonte indissero pubbliche suppliche, scrivendo bellissime parole sull'autorità Pontificia e sul danno che ne veniva all'Italia dall'essere il Papa spogliato dei suoi Stati. E scrissero eziandio al Pontefice esternando il loro dolore pel suo esilio, ammirandolo, confortandolo, assicurandolo che erano con lui clero e popolo, promettendo preghiere, chiedendo benedizione per sè, consiglio, conforto in tante lotte continue. Il partito liberale e settario aveva tentato di imporre loro silenzio, così minacciandoli su “L'Opinione”: “ Ora finalmente la somma delle pubbliche cose sarà in mano di tali che risoluti di estirpare il male dalla radice, colpiranno quei pastori che vollero lasciare la mistica verga per agitarsi cogli intrighi, colle seduzioni, coi raggiri, a pro di un partito in nazionale”. Ci voleva l'improntitudine calunniatrice di un settario per scrivere queste frasi, le quali però svelavano l'imminenza di una persecuzione.
A queste cause di vivo dolore per D. Bosco se ne aggiungeva un'altra. Il 6 dicembre moriva il Teol. Guala in età di 73 anni, rassegnato al volere di Dio e contento perchè lasciava la sua istituzione nelle mani di D. Cafasso, poco prima nominato Rettore della Chiesa di S. Francesco d'Assisi. Ebbe splendidissimi funerali, ai quali intervennero oltre a 400 sacerdoti in cotta, tra cui non mancò D. Bosco. Fra l'universale compianto fu portato al cimitero e seppellito in un terreno che egli stesso aveva comprato. Nel testamento ei lasciava a D. Cafasso le sue sostanze, che salivano a più centinaia di migliaia di lire; e questa eredità, unita a grandi somme che a lui affluivano da molte persone caritatevoli e doviziose, lo mettevano in grado di soccorrere largamente i poverelli e tutte le opere di carità e di religione.
Intanto la politica seguita dal Governo nulla promette di buono per la Chiesa e per lo Stato.
Il 16 dicembre 1848 Vincenzo Gioberti era stato posto alla presidenza dei Ministero col portafoglio degli esteri. Il desiderio e la necessità di trovare appoggio per la nuova guerra che si andava disponendo contro l'Austria lo fece correre invano a Parigi per cercare aiuto dalla Repubblica Francese; e questa negativa fu una delle ragioni che consigliava il Governo Piemontese a riavvicinarsi al Papa. Si cercava d'impedire a Pio IX di fare appello ad aiuti stranieri per restaurare il suo Governo, e nello stesso tempo di non permettere che il movimento repubblicano soppiantasse la monarchia. Mandò egli pertanto ambasciatori a Gaeta invitando il Papa a ritornare in Roma, scortato e custodito dalle truppe piemontesi, e a conservare il ministero democratico che vi era formato: e qualora ciò non fosse possibile, venisse a porre stanza in una città degli Stati Sardi a sua scelta. Non avendo il Papa acconsentito, Gioberti decise di occupare Ancona, ma Carlo Alberto non volle. Allora deliberò di fare entrare nella Toscana, agitata dai repubblicani, le schiere sabaude per restituirla al Gran Duca  ma essendo contrari al suo progetto gli altri Ministri, il 22 febbraio 1849 cadeva precipitosamente dal seggio ministeriale per non rialzarsi mai più. E probabile che egli non avesse voluto aderire pienamente agli ordini della setta.
Gioberti propendeva a dar forza alle idee di ordine e di moderazione e ciò non veniva approvato dai suoi colleghi del ministero. Questi nelle feste Natalizie, celebrate dai giovani dell'oratorio colla solita devozione e solennità, avevano preparata una strenna poco piacevole per il clero.
Il 25 dicembre 1848 il ministro Urbano Ratazzi osava mandare un superbo rabbuffo a tutti i Vescovi del Regno con una circolare, ricordando loro che negli scritti, nelle circolari, nelle pastorali debbono astenersi da qualsiasi espressione che possa essere interpretata contro persone rivestite di carattere politico, e che quando vogliono entrare in materie politiche si conformino alle viste, alle intenzioni e alle deliberazioni del Governo. Nello stesso giorno il Ministro delle Finanze Vincenzo Ricci indirizzava al direttori demaniali una lettera confidenziale in cui loro diceva: Premere al Governo avere un'esatta cognizione dei beni posseduti dalle corporazioni religiose, dall'Economato Generale, dalle mense vescovili, dai capitoli e da altri simili Istituti. Inoltre ingiungeva loro di prendere notizia sul numero e dimensione di tutte le campane delle Chiese, sul numero e qualità degli arredi sacri d'oro e d'argento o di altro metallo prezioso. Infine si raccomandava di eseguire tali ordini con riservatezza e circospezione. Tuttavia per allora il Governo non procedette più oltre. Non si cessava però di intentare a danno del clero nuove confische e nuove gravezze: e simulando ancora qualche rispetto all'immunità ecclesiastica, il Ministero trattava col Nunzio Apostolico per ottenere che la S. Sede concedesse al clero di partecipare al prestito obbligatorio ordinato a pagare i debiti della guerra, che ammontavano a settantadue milioni, cento novantatre mila lire.
Così finiva il 1848, e il 1849 non faceva presagire tempi migliori. D. Bosco tuttavia provava un grande conforto, nel veder ampliata l'opera sua con l'acquisto di casa Moretta. La Divina Provvidenza però gli permetteva che per allora potesse servirsene poco più di un solo anno, poichè casa Pinardi, e non altra, era destinata ad essere la sede dell'oratorio festivo e dell'ospizio. Egli infatti aveva dato mano a riattare i membri della nuova casa secondo il bisogno. Ma dopo alcuni esperimenti si venne a constatare che i muri pel materiale cattivo e la peggiore costruzione, non reggevano ai lavori, e fu giocoforza soprassedere. Inoltre per tale riattazione era necessaria una somma ingente, mentre non era stata ancor sborsata la maggior parte del prezzo dovuto per quella compera, cioè più di 11.000 lire, e ne correvano gli interessi. Nello stesso tempo bisognava che provvedesse quanto era necessario pel sostentamento dei suoi giovani. Le imposte accresciute, gli affari diminuiti, l'urgente bisogno di soccorrere le famiglie di tanti soldati morti in battaglia, la crescente miseria che si faceva sentire nel popolani, distraevano da lui molte elemosine. Egli, visto perciò che non poteva avere sì presto una casa sicura dove meglio rassodare e ingrandire il suo Istituto, si rassegnò aspettando tempo migliore. Decise quindi di rivendere la casa Moretta. Divisa questa in due lotti, come pure i terreni attigui, cedette ogni cosa a diversi acquirenti, e ne ritrasse un notevole vantaggio. La prima rivendita ebbe luogo l'8 marzo 1849 e la seconda il 10 aprile: le altre il primo di giugno. Così si liberò di quel debito e gli rimase ancora tanto da mantenere per qualche tempo il suo ospizio.
 
 
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