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Capitolo 43

Dicerie in disfavore dell'Oratorio - Il Marchese di Cavour e sue minacce - Nuovo ed ultimo diffidamento - L'Arcivescovo e il Conte di Collegno - La Questura fa sorvegliare D. Bosco - Fantasie consolanti.


Capitolo 43

da Memorie Biografiche

del 26 ottobre 2006

 Don Bosco ringraziava il Signore del bene morale prodotto da' suoi libri e della perseveranza allegra dei giovani nel frequentare l'Oratorio, bersagliato in tante maniere; nello stesso tempo però col suo sorriso dissimulava una nuova spina che dal principiare del mese di marzo erasi aggiunta alle altre. La gente di poco cervello vedendolo scorrazzare in quel modo da una parte e dall'altra colle turbe de' suoi giovani, prese a censurarlo aspramente come se li rendesse scioperati, li sottraesse all'obbedienza dei propri genitori, li avvezzasse ad una vita indipendente, senza prima verificare se avessero o no famiglia in Torino, od avendola se l'autorità paterna, si prendesse cura di loro. Si era notata eziandio la facilità colla quale si faceva da essi ubbidire. Siccome incominciavasi in quei giorni a parlare di sommosse e rivolte popolari in alcune parti d'Italia, così questa affezione ed obbedienza diede nuovamente appiglio alla ridicola voce, che D. Bosco potesse farsi con loro un uomo pericoloso, ed eccitare quandochessia una rivoluzione in città. Questo, tanto più che un certo numero di quei giovani, ora pii e di ottima condotta, prima realmente erano stati gente da prigione. A siffatti timori di rivolta i maligni avevano aggiunte calunnie ancora più perfide. Tali dicerie trovarono credenza presso le autorità locali, specialmente presso il Marchese di Cavour, padre dei famosi Gustavo e Camillo, allora Vicario di Torino, che è quanto dire Capo del potere urbano. Avendo egli qualche tempo prima, visto D. Bosco, nei prati così detti della Cittadella, seduto per terra tra un circolo di giovinetti, a cui cercava in bel modo di far entrare in capo qualche buon pensiero di religione e di morale, domandò: - Ma chi è mai quel prete in mezzo a quei monelli?

 - È D. Bosco - gli fu risposto.

 - D. Bosco! O egli è un pazzo, soggiunse il povero Marchese, - oppure è un uomo da essere condotto in Senato. E voleva dire, degno di essere messo nelle prigioni del palazzo, chiamato tuttora il Senato.

Con queste idee stravolte non farà più stupire che egli abbia fatto e detto quello che stiamo per narrare.

Adunque il Marchese fece chiamare D. Bosco al palazzo municipale, e dopo un lungo ragionamento sopra le fole che correvano riguardo all'Oratorio e al suo direttore, conchiuse col dire - Io sono assicurato che le radunanze de' suoi giovani sono pericolose, per buon ordine e per la tranquillità dei cittadini, e perciò io non posso più tollerarle. Prenda dunque, caro D. Bosco, il mio consiglio: lasci in libertà quei mascalzoni, perchè essi non daranno che dispiaceri a lei e fastidi alle pubbliche autorità.

D Bosco rispose: - Io non ho altre mire, signor Marchese, fuorchè migliorare la sorte di questi poveri figli del popolo. Io non domando danaro; domando soltanto di poterli raccogliere in qualche sito, e anche sotto qualche tettoia nei tempi cattivi, ove trattenerli in onesti divertimenti, per impedire che vadano girovagando per la città; e intanto istruirli nella Religione e nei buoni costumi. Con questo mezzo io spero di poter diminuire il numero dei discoli e gli inquilini delle prigioni.

 - Lei s'inganna, o mio buon prete; replicò il Marchese, e getterà al vento le sue fatiche. Io non posso assegnarle nessun luogo, perchè ovunque Lei va, abbiamo lagnanze. E poi, dove troverà i mezzi per pagare pigioni e sopperire alle spese che Le cagionano quei vagabondi? Le ripeto adunque che io non posso permetterle più oltre queste adunanze.

 - I risultati finora ottenuti mi assicurano che io non fatico invano. Molti giovanetti totalmente abbandonati furono già raccolti, liberati da evidente pericolo d'irreligione e d'immoralità, avviati all'apprendimento di un'arte o mestiere presso buoni padroni, con gran vantaggio loro, delle famiglie e della società. Per molti, le carceri più non furono la loro abitazione. I mezzi materiali poi fin qui non mi mancarono: questi sono nelle mani di Dio, il quale è solito fare molto con poco, anzi a trarre il tutto dal nulla, e talvolta si serve di spregevoli strumenti per compiere i suoi sublimi disegni.

 - Abbia pazienza, signor D. Bosco, mi ubbidisca senz'altro, e mi prometta di sciogliere la sua radunanza.

 - Conceda questo favore signor Marchese, non per me, ma pel bene di tanti giovanetti, che forse senza questo Oratorio andrebbero a finire malamente.

 - Orsù, basta; veniamo alla conclusione. Sa Ella alla presenza di chi si trova? Io sono il Vicario, e deve riconoscere la mia autorità.

 - Ed io la rispetto e la riconosco.

 - Sa fin dove possono estendersi i miei poteri? È un istante chiamar le guardie e farla condurre ove non desidera andare.

 - Oh! io non ho timore di lei, rispose D. Bosco, scherzando con quella bonarietà che eragli abituale.

 - Perchè non mi teme?

 - Così si trattano i bricconi, e sarebbe briccone chi volesse trattar da malfattore un povero prete innocente. Lei, signor Marchese, non è capace di commettere mai tale ingiustizia; quindi io non temo.

Questa nobile resistenza di D. Bosco dispiacque al Marchese, che alquanto adirato soggiunse: - Taccia, chè io non son qui per disputare con Lei. Il suo Oratorio è un disordine, - che io voglio e debbo impedire. Ignora Ella forse che ogni assembramento è proibito, ove non sia legittimamente permesso?

 - Il mio assembramento, rispose D. Bosco, non punto intimidito, non ha scopo politico, ma puramente religioso. Io non fo che insegnare il catechismo a poveri ragazzi, coi permesso e l'approvazione dell'Arcivescovo.

 - L'Arcivescovo è egli informato di queste cose?

 - Lo è pienamente, perchè finora io non ho dato un passo senza il suo consenso.

 - Se l'Arcivescovo Le dicesse di desistere da questa ridicola impresa, non opporrebbe Ella nessuna difficoltà?

 - Nessunissima: ho cominciato quest'opera e l'ho fin qui proseguita col parere del mio Superiore Ecclesiastico, e ad un semplice suo cenno l'abbandonerò issofatto.

 - Ebbene, Lei vada per ora; io mi porterò dall'Arcivescovo. Spero che Ella non vorrà ostinarsi contro gli ordini di Lui; altrimenti mi vedrò costretto a prendere misure severe. - E lo congedò.

D. Bosco uscendo dal palazzo di città erasi persuaso che avrebbe potuto passare co' suoi giovanetti almeno qualche tempo in pace; ma quale non fu il suo cordoglio, quando, giunto a casa, trovò una lettera con cui i fratelli Filippi lo licenziavano dal prato, appigionatogli per tutto, l'anno! “ I suoi ragazzi, scrivevano quei signori, calpestando continuamente il nostro prato, faranno perdere persino le radici dell'erba. Noi siamo quindi contenti di condonarle la pigione scaduta, purchè entro quindici giorni ci dia libero il nostro prato. Maggior dilazione non Le possiamo concedere ”. E si doveva chinare il capo, e trasferirsi altrove. Pareva una congiura studiosamente ordita; ma erano soltanto, prove, che il Signore mandava al caro nostro D. Bosco, per far meglio spiccare l'importanza dell'opera che gli aveva posta tra mano.

D. Bosco in questo stesso giorno si recò dall'Arcivescovo, per narrargli quanto eragli occorso col Marchese di Cavour, e il buon Prelato lo animò alla pazienza ed al coraggio. Andò a visitare eziandio il Conte di Collegno per raccomandargli i suoi giovani, e ne ottenne parole di conforto e promesse di protezione. Intanto il Marchese aveva potuto sapere dalla bocca stessa di Monsignor Fransoni, come D. Bosco realmente avesse sempre proceduto col suo consenso, nell'incominciare e nel dirigere l'Oratorio festivo; e intravide eziandio come l'Arcivescovo non si sarebbe indotto a dare una proibizione. Quindi, benchè fermo nel suo proposito, fece intendere cortesemente al buon Prelato, che avrebbe esaminata meglio la cosa, ed eziandio accordato il suo permesso a D. Bosco, ma con tali condizioni da assicurare l'ordine pubblico.

D. Bosco, di ciò informato, scrisse una lettera al Marchese, e dopo quindici giorni riceveva la seguente risposta:

 

 

Uffizio del Vicariato e Sovr'intendenza Generale di Politica e Polizia - N. 671

 

 Torino, addì 28 Marzo 1946

 

Molto R. Sig. P.ron. Osser.

 

Dell'argomento su cui la S. V. M.o R..a si compiace di tenermi discorso nella memoria del 13 corrente, già mi avevano fatto anche parola le LL. EE. Monsignor Arcivescovo, ed il Conte Collegno, e per quanto può da me dipendere sono dispostissimo ad assecondarla, e postochè Ella mi dimostra il desiderio di meco conferirne oralmente, potrà, ove non La incomodi, recarsi ad un tal fine al mio ufficio verso le due vespertine di lunedì 30 del corrente mese.

Frattanto mi do l'onore di rinnovarmi con distinto ossequio.

 

 

                                                                                                              Di V. S. M. R.a

Dev. ed obbliga.

Benso di Cavour

 

 

D. Bosco andò. Il Marchese, per la continuazione dell'Oratorio, pretendeva imporre condizioni che D. Bosco giudicava inaccettabili. Voleva limitare il numero dei giovani, proibire le loro camminate e l'entrata in corpo nella città, escludere assolutamente i più grandi come i più pericolosi. Alle calme ed umili osservazioni di D. Bosco egli replicava: - Ma che importa a Lei di questi mascalzoni? Li lasci nelle loro case! Non si prenda di queste responsabilità! - D. Bosco adunque si ritirò senza essere riuscito a dissipare il turbine che lo minacciava. Tuttavia egli in ogni sua parola erasi regolato in modo da non irritare l'animo del Marchese. Infatti l’ostinazione del Vicario proveniva dalla sua stessa perspicacia, perchè vedeva nell'Oratorio un'Opera, che, piccola nel suo esordire, per l'uomo che la dirigeva e per i mezzi che questi adoperava, sarebbe ben presto divenuta colossale, e avrebbe potuto in qualche circostanza essere adoperata per fini illegali. Senza questa persuasione non si sarebbe curato nè di D. Bosco nè del suo Oratorio.

Intanto la Questura fin dai primi giorni di marzo aveva ricevuto ordine di sorvegliarlo. Alla domenica verso le sei del mattino al giungere dei primi giovani, già si vedevano i carabinieri e le guardie di città passeggiare nei dintorni tenendoli d'occhio; comparivano sulle prode del prato, mentre D. Bosco continuava a confessare fino alle otto e mezzo; lo seguivano a certa distanza quando egli conduceva i suoi alunni alla santa Messa od a qualche passeggiata. D. Bosco rideva nel vedersi accompagnato come un sovrano da quella scorta di onore, ed era solito dire che, per questa e per altre avventure, il tempo più romantico dell'Oratorio fu quello delle radunanze nel prato.

Le contraddizioni non lo smuovevano dai suoi propositi: fu questo il carattere di tutta la sua vita. Dopo aver presa una risoluzione, e maturatala a lungo, o consigliata da' suoi. Superiori o da altri personaggi prudenti, non si arrestava fino a che non l'avesse condotta a compimento. Tuttavia ogni sua iniziativa non procedeva mai da un movente umano.

Nel sonno gli passavano davanti visioni luminose che ci narrò nei primi tempi a D. Rua e ad altri.

Ora contemplava una vasta casa con una chiesa, in tutta simile all'attuale dedicata a S. Francesco di Sales, che sul frontone recava la scritta: HAEC EST DOMUS MEA; INDE GLORIA MEA; e dalla porta di questa chiesa entravano ed uscivano giovani, chierici e preti. Ora a questo spettacolo nel medesimo sito ne succedeva un altro e compariva la piccola casa Pinardi, e intorno a lei portici e chiesa, giovanetti ed ecclesiastici in grandissimo numero. - Ma questo non è possibile, ripeteva fra sè D. Bosco; quella è tutt'altro che un'abitazione adatta per noi. Quasi direi di essere in preda ad un'illusione diabolica. - E allora aveva udito distintamente una voce che gli diceva: - E non sai che il Signore può colle spoglie degli Egiziani arricchire il suo popolo?

Altre volte sembravagli di essere nella via Cottolengo. A destra aveva casa Pinardi in mezzo all'orto e ai prati; a sinistra, casa Moretta quasi di fronte alla prima coi cortili e campi attigui, che dovevano più tardi essere occupati dalle Figlie di Maria Ausiliatrice. Due colonne si innalzavano sulla porta del futuro Oratorio, sulle quali D. Bosco lesse questa ripetuta iscrizione: HINC INDE GLORIA MEA: di qua e di là la mia gloria. Era evidentemente il primo accenno alla Congregazione sorella a quella dei Salesiani. E se da una parte egli vedeva questi ultimi, dall'altra non avrà forse viste le suore? Egli tuttavia nulla ne disse allora, essendo molto riservato nel dare tali spiegazioni.

Intanto il primo sogno fatto al Convitto era presso ad avverarsi. Tre dovevano essere le fermate o le stazioni di D. Bosco prima di giungere a stabile dimora. La prima era stata al Rifugio, la seconda ai Molini di Città; casa Moretta ed il prato attiguo sono la terza. Dio sia benedetto!

 

 

 

 

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