Capitolo 44

Prontezza di Giovanni nel rendere servigio ai compagni - Sua piacevole compagnia - Gli antichi amici del ginnasio - Vigoria di Giovanni Gravissimo pericolo corso.

Capitolo 44

da Memorie Biografiche

del 12 ottobre 2006

L’aspetto sempre ilare di Giovanni, le sue piacevoli maniere di trattare, la condiscendenza nel prestare servigio a chiunque abbisognasse dell'opera sua, ben presto gli attirarono pur l'affezione di tutti i seminaristi. Ed egli era felice della nuova vita, precisamente come chi vive in continui e squisiti banchetti.

Sempre pronto a scopare, trasportare oggetti da una camera all'altra, accomodare bauli, far berrette, radere barbe, tagliare capelli, rattoppare abiti stracciati e persino accomodare scarpe sdruscite, egli sembrava divenuto l'umile servo di tutti, e ciascheduno andava a gara nel dargli prova di riconoscente affetto. Fra le molteplici abilità sue, ei possedeva pur quella di assistere e medicare gl'infermi con non comune esperienza; inoltre, avendo da giovanetto imparato a cavare i denti con tanta destrezza da non far soffrire dolore di sorta, in simili casi tutti i compagni a lui ricorrevano.

Eziandio nelle dubbiezze, nelle malinconie, nelle difficoltà scolastiche, si veniva a cercare in lui il consigliere, l'amico ed il ripetitore delle lezioni non bene capite. E questa era pur una gran carità per i tardi di mente, pei quali soleva ancora fare sunti sugli autori, allorchè doveano subire gli esami e per l’ampiezza dei trattati si trovavano alquanto imbrogliati. Imprestava generosamente i suoi libri, che pure gli costavano tante privazioni, a chiunque glieli avesse richiesti. Non di rado preparava le prediche per quelli che, invitati dai parroci a recitarle nelle loro chiese in tempo di vacanza, o non avevano agio a scriverle, o non ancora abilità a comporle. D. Giacomelli narrava infatti che qualche anno dopo un compagno era stato incaricato di due panegirici, e Giovanni, vedendolo imbarazzato, si offerse a scriverglieli, come di fatto fece, e poi glieli diede perchè li mandasse a memoria. Nè solo finchè fu in seminario, ma eziandio più tardi in Torino ad una semplice richiesta imprestava i suoi quaderni e le sue prediche agli amici, perchè se ne giovassero come meglio loro piacesse; il che fu causa che molti suoi manoscritti andassero dispersi.

La virtù dell'eutrapelia, che in lui era connaturata, manifestava la tranquillità inalterabile della sua anima. Nel tempo della ricreazione tratteneva i suoi condiscepoli in ischerzi e burle oneste e piacevoli. Talvolta proponeva loro l'interpretazione di certi detti in lingua latina, che generalmente contenevano un pensiero morale. Tal'altra dava di mano al giuoco del bastone, che, appoggiato semplicemente sopra il dito pollice, maneggiavalo in tutti i sensi e facevalo saltare, roteare rapidamente e in fine ritornare immobile sopra il suo dito. Di quando in quando, cedendo alle insistenze dei compagni, nei primi anni, faceva eziandio alcuni giuochi di prestigio. Su questo punto D. Cafasso non aveva approvato il proponimento assoluto da lui fatto nel giorno della vestizione chiericale.

Aveva poi sempre nuove invenzioni per destar l'allegria. Un giorno annunzia ai suoi camerati come egli sia capace di farsi la barba con un rasoio di legno. I compagni, benchè assuefatti a sempre nuove sorprese, rispondono essere impossibile. Giovanni afferma assolutamente. Corrono scommesse, e vien fissata l'ora per farne la prova. Tutti corrono in sua stanza e lo trovano occupato con un vero rasoio a radersi. - E dov'è il rasoio di legno? - Oh bella! Il mio nome qual è? - Bosco! - Questo rasoio a chi appartiene? - È tuo! - Dunque è rasoio di Bosco, e voi avete perduto la scommessa. - Scommessa e dialogo erasi fatto in piemontese e in tale dialetto bosco risponde alla parola legno. I compagni sulle prime restarono sorpresi di non aver capita cosa tanto facile, ma finirono con dargli ragione e scoppiare tutti in una forte risata.

Nel raccontare le storielle Giovanni era di una gaiezza sì attraente, da non potersi immaginare: sapeva contarle tanto bene, da destare sempre l'ilarità di chi l'udiva. Però, d'indole e carattere serio qual era, anche nelle cose più ridicole, egli mai si vide ridere sgangheratamente.

Nel giorno onomastico del rettore del seminario egli veniva di solito incaricato di fare la poesia in greco. Una volta, mentre tutti aspettavano da lui un argomento serio, uscì fuori con un sonetto bernesco. Il primo verso era latino, il secondo francese, il terzo italiano, il quarto piemontese, e così via discorrendo. Fu una risata inestinguibile, sicchè non c'era verso continuar la lettura degli altri componimenti.

Egli era divenuto oggetto di meraviglia ai compagni per la facilità, colla quale componeva ed anche improvvisava a poesie. Ei possedeva nella sua memoria un tesoro inesauribile di versi e di rime. Le sue strofe, piene di brio, talora erano veramente disciplinate secondo le regole; in generale però, ispirate dall'estro, non erano troppo accurate in quanto a rime, misure o tronche, fatte solo per l'effetto del momento, che ottenevano colla bellezza dell'idea. Giustamente perciò egli era chiamato poeta estemporaneo. I suoi carmi erano sempre ispirati da argomenti religiosi e morali e sovente da gratitudine verso i benefattori.

Gli antichi amici del ginnasio civico di Chieri non lo dimenticavano Al giovedì la porteria del seminario si riempiva di giovanetti studenti, i quali venivano a portargli i loro quaderni e le loro pagine da esaminare. Ed egli, tutto lieto, correggeva, notava gli errori, spiegava le frasi, ripeteva loro le lezioni udite in iscuola. Non lasciava però mai che partissero da lui, senza qualche salutare pensiero. Così ci narrava D. Giacomo Bosco.

Ma aspettato con maggior desiderio da Giovanni era sempre Luigi Comollo, che in quell'anno faceva retorica. Comollo era ben degno di essere amato da ogni anima cristiana. Di ingegno svegliato, di indole dolcissima, esatto fino allo scrupolo ne' suoi doveri, illibato nei costumi, costante Del bene, amantissimo della preghiera e dei Sacramenti, era un vero angiolo, che attraeva i compagni a specchiarsi nella sua condotta. Spesse volte veniva in seminario a visitare Giovanni, e come rapida passava quell'ora, nella quale i due cuori amanti di Dio si palesavano i progetti di una vita che aveano consacrata alla salute delle anime! Giovanni non aveva segreti per Comollo, nè questi per Giovanni. E però in quell'anno che Giovanni stette diviso da Comollo, parte dall'amico stesso, parte dai compagni, venne a conoscere tutto ciò che operava o diceva l'amico, e ogni cosa conservava gelosamente nel suo cuore.

Anche i condiscepoli, collocati dai parenti in collegi lontani, o rimasti alle loro case, tenevano corrispondenza epistolare col nostro Giovanni. L'amicizia non si estingue per la lontananza, quando ha per alimento la carità. La maggior parte di quelle lettere vennero da Giovanni stesso distrutte. Fra alcune però che si conservarono, una ne trovammo nel suo scrittoio, che crediamo pregio dell'opera qui trascrivere. Gli fu spedita da un compagno, che studiava filosofia non si sa in quale altra casa di educazione. Eccola:

 

 

 

“26 gennaio 1836.

 

Carissimo amico,

 

Io ti avrei con piacere risposto molto più presto, se avessi potuto da qualcheduno farti avere la lettera nelle proprie mani, avendo inteso nella tua che ciò molto più ti gradisce. Per questo dovetti aspettare con mio dispiacere che mi si presentasse l'occasione.

Nulla di nuovo mi occorre da annunziarti, perchè, essendo chiuso fra quattro miserabili e strette mura, è cosa impossibile il poter sentire, oppure vedere di quando in quando qualche avvenimento, che mi molcisca quella nauseante noia e fastidio che di continuo ho indosso.

Sono, lasciami dir così, tra i martirii ed i fulmini, vale a dire che i professori nostri di continuo ci perseguitano. Quello di logica ha sempre in bocca i suoi castighi ed ha già castigati alcuni: l'altro di geometria vuole continuamente scagliare fulmini. Tutti e due poi ci contano due o trecento volte al giorno che non pochi di noi alla fine dell'anno saranno rimandati: dimodochè tutti i giorni siamo sempre sgridati or dall'uno, or dall'altro; e ci dicono che non hanno mai avuto da insegnare a tavole tanto rase quanto siamo noi, soggiungendo non sapere essi se siamo caduti dalla luna, o soltanto venuti l'altro giorno al mondo. Da ciò puoi intendere come ce la possiamo passare, perseguitati a questo modo continuamente.

Sono a salutarti per parte di Burzio, e ti prego a salutare tutti gli amici nostri, che teco convivono.

Di vivo cuore mi protesto e sono

 

Il tuo aff.mo servo ed amico

A. A.

 

Al Sig. Giovanni Bosco, Chierico nel Seminario di Chieri”.

 

 

 

Una lettera non si conserva a caso e non si custodisce gelosamente fra le altre carte d'importanza per tanti anni. Io credo quindi di mal non mi apporre dicendo ch’essa non sia stata distrutta unicamente perchè ricordavagli la necessità di trattare sempre i giovani con dolcezza e di cercar ogni mezzo per rendere loro gradita una casa di educazione. Non vi ha dubbio che la risposta di Giovanni sia stata conforme alla virtù dell'obbedienza e pazienza cristiana, perchè era suo sistema costante quello di sostenere l'autorità, ma senza ledere la carità, consolando chi soffriva, secondo l'avviso di S. Paolo: “Rallègrati con chi si rallegra, piangi con chi piange”. L'autore di questa lettera, fatto chierico, l'anno seguente, lo troviamo compagno di Giovanni nello stesso seminario di Chìeri.

Intanto Giovanni, mentre andava crescendo nello spirito di pietà, come ci attestano quanti lo conobbero in seminario, sei, bene non sentisse un gran miglioramento nella sanità corporale, tuttavia conservava quella forza straordinaria, che avealo fatto ammirare più volte dai suoi condiscepoli. Solamente usando le dita spezzava piastrelle di rame o di ferro. Un giorno, suonata l'ora dello studio, non si potè rinvenire la chiave della sala. La porta era robusta. I seminaristi tentavano con mille maniere e con grimaldelli di sforzare la serratura, ma non ci riuscivano. Il prefetto finalmente diè l'ordine di far venire il fabbro. Giovanni, che fino a quel momento era stato in disparte, si fece avanti e chiese:

- Volete che apra io? - Tu? E con qual mezzo? È impossibile! - Se il prefetto mi dà licenza, io l'aprirò di un colpo.

- Fa la prova - esclamò incredulo il prefetto. Giovanni allora assestò alla porta un pugno con uno spintone così formidabile, che la sfondò, e, svelta la serratura, lasciò libera l'entrata. I compagni restarono senza parola, contemplandolo stupefatti.

Ma questa stessa forza poco mancò che non gli cagionasse la morte, o almeno gli producesse gravi lesioni nelle viscere. Una sera, non so per qual motivo, lasciata la ricreazione, saliva le scale e, contro il suo costume, correndo con rapidità imboccava uno stretto ed oscuro corridoio. Un compagno, che calzava scarpe di panno, scendeva pur egli a precipizio, persuaso di non incontrare ostacoli in quel buio. L'uno non si avvide dell'altro e accadde un terribile scontro. Il compagno di rimbalzo fu gettato alcuni passi indietro, e Giovanni, rimasto in piedi ancora per qualche istante, esso pure stramazzò per terra. I seminaristi, notando la loro prolungata assenza, ne andarono in cerca e li trovarono ambedue immobili, fuori de' sensi, col sangue che loro colava dalla bocca, dalle orecchie e dal naso. Sollevati sulle loro braccia, li portarono nell'infermeria. Ci vollero più ore prima che Giovanni rinvenisse. Più sfortunato il compagno, in sul far dell'alba era ancor privo de' sensi, e quando ritornò in sè, pareva divenuto fatuo, sicchè temevasi che il suo cervello fosse rimasto stravolto. Solo in sulla sera, con gaudio di tutti, passava quell'intronamento, e senza averne alcuna conseguenza, ambedue poterono ritornare fra i compagni.

Nel corso di questa storia incontreremo altri fatti di simil genere, cagionati vuoi da infermità, vuoi da cause fisiche esterne, vuoi dalla malizia degli uomini, nei quali per certo Giovanni Bosco, senza il soccorso speciale della divina Provvidenza, avrebbe dovuto rimaner morto. Ma il Signore nei suoi misericordiosi disegni, aveva stabilito di concedergli ancora cinquantadue anni di vita, che egli spese tutti alla sua maggior gloria ed al bene delle anime.

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