Le vacanze del chierico Giovanni Bosco - Festino di campagna - Il suono del violino - La caccia - Modello di chierico in vacanza - Ripetizioni ad alcuni studenti - Lo studio della storia sacra, della geografia, dell'ebraico e del francese - Si ripete il sogno fatto a Morialdo - Predizione avverata.
del 13 ottobre 2006
Nello svolgere la nostra narrazione abbiamo ammirata più volte l'umiltà di D. Bosco, il quale nelle sue memorie si chiama in colpa di varii fatti, che pure in sè nulla presentano di veramente peccaminoso, o sono scusabili coll’inavvertenza e coll'ardore dell'età giovanile. Meditando noi però le sue pagine e trovandole in contraddizione per questo lato con quanto di lui dissero i suoi coetanei, siamo venuti a questa conclusione: aver cioè D. Bosco voluto eziandio rappresentare in sè, con tinte molto vive, i difetti, ne' quali sogliono cadere e i pericoli che facilmente ponno incontrare i giovanetti, gli studenti, i chierici volonterosi di far bene, ma inesperti. Sono avvertimenti e lezioni dettate dal padre a' suoi figli, acciocchè non iscoraggiati dalle continue lotte coll'amor proprio, colle tendenze di un'indole difficile, colle inclinazioni del cuore, cogli ostacoli che sorgono al conseguimento del retto fine, tendano costantemente coll'umiltà, coll'obbedienza, colla pietà e collo studio alla perfezione e riescano finalmente servi fedeli del Signore, disposti ad ogni opera buona.
Ciò risulta ancora da alcuni aneddoti, che gli accaddero nelle vacanze e de' quali scrive in questi termini: “Un gran pericolo pei chierici sogliono essere le vacanze, tanto più in quel tempo che duravano quattro mesi e mezzo, dalla festa di S. Giovanni Battista fin dopo quella d'Ognissanti. Io impiegava il tempo a leggere e scrivere; ma, non sapendo ancora trar partito dalle mie giornate, ne perdeva molte senza frutto. Cercava di ammazzarle con qualche lavoro meccanico. Faceva fusi, cavigliotti, trottole, boccie, pallottole al torno; cuciva abiti, tagliava e cuciva scarpe; lavorava nel ferro, nel legno. Era muratore e legatore da libri. Ancora presentemente avvi nella casa mia di Morialdo uno scrittoio, una tavola da pranzo con alcune sedie, che ricordano i capi d'opera di quelle mie vacanze. Ali occupava pure a falciare l'erba ne' prati, a mietere il frumento nel campo, a spampinare, a smoccolare, a vendemmiare, a vineggiare, a spillare il vino e simili. In tutti questi lavori mi ero già esercitato nelle vacanze precedenti, prima che fossi chierico. Mi occupava pure de' miei soliti giovanetti, ma ciò poteva solamente fare nei giorni festivi. Radunatili nel mio cortile alla sera, dopo alcuni giuochi, loro indirizzava una breve allocuzione. Provai però un gran conforto a fare catechismo a molti miei compagni, che trovavansi ai sedici ed anche ai diciassette anni digiuni affatto delle verità della fede. Mi sono eziandio dato ad ammaestrarne alcuni nel leggere e nello scrivere, con assai buon successo; poichè il desiderio, anzi la smania d'imparare mi traeva giovanetti di tutte le età. La scuola era gratuita, ma metteva per condizione assiduità, attenzione e la confessione mensile. In principio alcuni, per non sottoporsi a queste condizioni, cessarono, la qual cosa tornò di buon esempio ed incoraggiamento agli altri.
” Mentre poco fa diceva che le vacanze sono pericolose, intendeva parlare per me. Senza che se ne accorga, ad un povero chierico spesso accade di trovarsi in gravi pericoli. Io ne fui alla prova. Una volta venni invitato ad un festino in casa di alcuni miei parenti. Non voleva andare; ma, adducendosi che non eravi alcun chierico che servisse in chiesa, ai ripetuti inviti di un mio zio credei bene di accondiscendere e ci sono andato. Compiute le sacre funzioni, cui presi, parte a servire e cantare, ce ne andammo a pranzo. Sino ad una parte del desinare andò bene; ma, quando si cominciò ad essere un po' brilli di vino, si misero in scena certi parlari, che non potevansi più tollerare da un chierico; provai a fare qualche osservazione, ma la mia voce fu soffocata. Mi alzai da mensa, presi il cappello per andarmene; ma lo zio si oppose; un altro si mise a parlare peggio e ad insultare tutti i commensali. Dalle parole si passò ai fatti: schiamazzi, minacce, bicchieri, bottiglie, piatti, cucchiai, forchette e poi coltelli si univano insieme a fare, un baccano orribile. In quel momento io non ho avuto più altro scampo che darmela a gambe. Giunto a casa, ho rinnovato di tutto cuore il proponimento già fatto più volte di stare ritirato, se non si vuole cadere in peccato”.
Oh! quanta ragione ha lo Spirito Santo di dire che: “il troppo vino fa le contese, l'ira e molte rovine; il vino bevuto in copia è l'amarezza dell’anima, fa ardito lo stolto ad offendere, snerva le forze ed è cagione di ferite: in un convito dove si beve, non riprendere il prossimo e nol disprezzare nella sua allegria, non dirgli parole d'ingiuria e nol pressare col chiedere restituzione di una cosa tua”. Insomma in tali circostanze bisogna o far come loro o tacere; e allora è meglio restar a casa propria. Non si deve quindi frequentare i convivii dei beoni!.
“Fatto di altro genere, ma eziandio spiacente, mi succedette a Croveglia, frazione di Buttigliera; Volendosi celebrare la festa di S. Bartolomeo, fui invitato da altro, mio zio (di nome Matteo, il quale giunse poi all'età di 102 anni) ad intervenire per aiutare le sacre funzioni, cantare ed anche suonare il violino, che era stato per me un istrumento prediletto, al quale pero’ aveva di già rinunziato. Ogni cosa andò benissimo in chiesa. Il pranzo era a casa di quel mio zio, priore della festa, e fino allora eravi nulla da biasimare. Era intervenuto eziandio il parroco. Finito il desinare, i commensali m’invitarono a suonare qualche cosa a modo di ricreazione. Mi rifiutai. Gli altri insistettero che volevano una suonata dalla mia mano maestra. Risposi che avea lasciato a casa il mio violino e che qui presentemente non avea istrumento di sorta. - In quanto a ciò si trova presto il rimedio, saltò su a dire un convitato; il tale nel paese possiede un violino; andrò a prenderlo e tu suonerai. - E in un lampo andò e tornò col violino. Io voleva ancora scusarmi: Almeno, disse un musicante, mi farà l'accompagnamento. Io farò la prima, ella farà la seconda parte. Miserabile! non seppi rifiutarmi e mi posi a suonare e suonai per un tratto, quando odo un bisbiglio ed un calpestio che segnava moltitudine di gente. Mi faccio allora alla finestra, e miro una folla di persone, che nel vicino cortile allegramente danzava al suono del mio violino. Non si può esprimere con parole lo sdegno, da cui fui invaso in quel momento. - Come, dissi ai commensali, io che grido sempre contro ai pubblici spettacoli, io ne sono divenuto promotore? Ciò non sarà mai più. Prendete, portate subito questo violino al suo padrone, ringraziatelo e ditegli che non ho più bisogno. Levatomi di là, tornai a casa, presi il mio violino, gli montai sopra coi piedi, lo feci in mille pezzi, nè me ne volli mai più servire, sebbene siansi presentate occasioni e convenienze nelle funzioni sacre. Di ciò avea fatta promessa solenne e la mantenni. Più tardi insegnai ad altri il modo di suonare questo istrumento, ma senza che io lo prendessi in mano.
”Ancora un episodio avvenutomi alla caccia. Lungo, l'estate andava in cerca di nidiate, di autunno uccellava col vischio, colla trappoletta, colla passeriera, e qualche volta anche co1 fucile. Un mattino mi sono dato ad inseguire una lepre, e camminando di campo in campo, di vigna in vigna, trapassai valli e colli per più ore. Finalmente giunsi a tiro, di quel povero animale e con una fucilata gli ruppi le coste, sicchè la povera bestiolina cadde, lasciandomi in sommo abbattimento in vederla estinta. A quel colpo corsero i miei compagni, e mentre essi rallegravansi per quella preda, portai uno sguardo su di me stesso e mi accorsi che era in manica di camicia, senza sottana, con un cappello di paglia, per cui faceva la comparsa di un contrabbandiere e ciò in sito lontano, oltre a due miglia da casa mia. Ne fui mortificatissimo, chiesi scusa ai compagni dello scandalo dato con quella foggia di vestire, me ne andai tosto a casa e rinunciai nuovamente e definitivamente ad ogni sorta di caccia. Coll'aiuto del Signore questa volta mantenni la promessa. Dio mi perdoni quello scandalo.
” Questi tre fatti furono per me una terribile lezione, e d'allora in poi mi sono dato con miglior proposito alla ritiratezza, e fui davvero persuaso che chi vuole dedicarsi schiettamente al servizio del Signore bisogna che lasci affatto i divertimenti mondani. È vero che spesso questi non sono peccaminosi; ma è certo che pei discorsi che si fanno, per la foggia di vestire, di parlare, di operare contengono sempre qualche rischio di rovina per la virtù, specialmente per quella delicatissima della castità”.
Questi sono i giudizii, che umilmente D. Bosco pronunziava sulle sue vacanze; ma ben diversamente sentivano di lui quanti ne furono testimoni. Narrava il viceparroco D. Ropolo: “Nelle vacanze autunnali il chierico Bosco prendeva tutte le cautele per conservare il fervore e lo spirito del seminario, occupandosi continuamente nello studio ed anche in lavori manuali, che non erano sconvenienti alla solitudine del Susambrino e dei Becchi e che gli erano necessari per rinfrancare alquanto la indebolita sua salute. Non si permetteva mai un istante di ozio. Era fedele osservatore di tutte le pratiche divote proprie della vita chiericale: meditazione, letture spirituali, rosario, visita al SS.. Sacramento, assistenza giornaliera alla santa Messa e frequenza ai SS. Sacramenti. Essendo la sua casa lontana dalla parrocchia, e perchè trattenuto da qualche impedimento e specialmente dal suo stato infermiccio, in qualche giorno festivo non poteva assistere alla prima Messa. Allora egli veniva a far la sua Comunione alla Messa ultima, che si celebrava verso le undici, con grande edificazione dei fedeli. Si prestava con prontezza a servire ad ogni funzione religiosa. Tutte le domeniche faceva il catechismo in parrocchia alla classe dei giovanotti con grande zelo e con sua viva soddisfazione. Se la campana suonava i segni dei santo viatico, egli era sempre pronto ad avviarsi alla chiesa e si affrettava per arrivarvi in tempo, dovendo percorrere i tre chilometri che dividono il Susambrino dalla parrocchia. Là metteva la cotta, prendeva l'ombrello ed accompagnava il SS. Sacramento, qualunque fosse la distanza alla casa dell'infermo. Non si dispensava dall'assistere alle predicazioni parrocchiali, alle quali prestava tanta attenzione, che le ripeteva letteralmente ai compagni chierici con somma loro meraviglia. Il suo contegno era composto e inappuntabile, perchè conosceva l'importanza del buon esempio. Per tutto ciò era tenuto in concetto straordinario da tutti i suoi conterrazzani”.
Egli passava intanto gran parte del suo tempo col teologo Cinzano, che volevagli un bene dell'anima, e col quale aveva contratto molta famigliarità. In canonica Giovanni era pronto ad ogni servizio, mentre tutti i libri della biblioteca erano stati messi a sua disposizione. Il buon vicario, ricco di scienza filosofica, teologica e storica, coltivava sempre con amore gli studi letterari. Singolarmente versato nelle lettere latine, ne possedeva l'intiera raccolta de' classici, e, quel che è più, li leggeva, anzi li studiava anche quando era già maturo di anni. Quest'uomo, così intelligente e dotto, tanta stima aveva del nostro Giovanni, che soleva ripetere non aver mai, dal primo istante che lo conobbe, osservato in lui alcunchè di ordinario o comune, ma sempre qualche cosa di straordinario.
A dare questa opinione di lui concorreva anzitutto quella gran padronanza, che egli aveva acquistato sopra di se stesso. Giovanni Filippello infatti ricordava che un giorno il chierico Bosco, aspettando nella sala della canonica per avere udienza dal parroco, era messo in burla da due studenti, i quali pure attendevano per essere introdotti ed avere certe carte. Esortato a difendersi e a far stare a segno que' due insolentelli, rispose: Lasciale che si divertano: sono giovani e d'altronde i loro scherzi non mi fanno male. Aggiunge il Prof. Francesco Bertagna: “Giovanni Bosco faceva ripetizione più volte alla settimana a cinque o sei giovani studenti di Castelnuovo, i quali venivano a lui al Susambrino alcuni in gruppo, altri separatamente e in ore diverse, gli uni per esercitarsi nelle materie studiate nell'anno antecedente, gli altri per essere preparati a percorrere il nuovo corso, al quale erano stati promossi. Alcuni de' loro parenti offrivangli una piccola somma mensile, onde provvedevasi del necessario per andare decentemente vestito. Altri ricevevano ripetizione per amicizia o per carità, senza dargli compenso di sorta. Ma la prima lezione era quella dell'amore di Dio e dell'obbedienza a' suoi comandamenti, e non finiva mai la scuola senza esortarli alla preghiera, al timor del Signore ed a fuggire il peccato e le occasioni di peccare”.
Finchè non fu sacerdote, ogni giorno il chierico Giovanni Bosco soleva ascendere la cima della vigna proprietà Turco, nella regione detta Renenta, e passarvi molte ore della giornata all'ombra degli alberi che la incoronavano. Quivi si dedicava a quegli studi, cui non avea potuto attendere nel corso dell'anno scolastico: specialmente allo studio del Calmet, storia del Vecchio e del Nuovo Testamento, della geografia dei Luoghi Santi e de' principii della lingua ebraica, acquistandone sufficienti cognizioni. Ancora nel 1884, ricordavasi dello studio fatto su questa lingua, e noi lo abbiamo udito in Roma, con nostro estremo stupore, entrar in quistione, con un sacerdote professore di lingua ebraica, sul valore grammaticale e sulla spiegazione di certe frasi originali dei profeti, facendo confronti coi testi paralleli di varii libri della Bibbia. Si occupava eziandio della traduzione dei Nuovo Testamento dal greco ed incominciava a prepararsi alcune prediche. Prevedendo il bisogno di conoscere eziandio le lingue moderne, si die' in questo tempo ad imparare la lingua francese. Dopo il latino e l'italiano, egli ebbe sempre una predilezione speciale per le tre lingue ebraica, greca, francese. Più volte abbiam sentito D. Bosco dire: - I miei studii li ho fatti nella vigna di Giuseppe Turco alla Renenta. E il fine de' suoi studi era di rendersi degno della sua vocazione ed abilitarsi alla istruzione ed educazione della gioventù. Difatti un giorno avvicinatosi a Giuseppe Turco, col quale era stretto da grande amicizia, mentre lavorava intorno alle viti, questi prese a dirgli: - Ora sei chierico, ben presto sarai prete: e poi che cosa farai? - Giovanni rispose: - Non ho inclinazione a fare il parroco e neppure il vicecurato; ma mi piacerebbe raccogliere intorno a me giovani poveri ed abbandonati per educarli cristianamente ed istruirli. - Incontratolo un altro giorno, gli confidò come egli avesse fatto un sogno, dal quale aveva inteso come col volgere degli anni egli si sarebbe stabilito in un certo luogo, dove avrebbe raccolto un gran numero di giovanetti per istruirli nella via della salute. Non spiegò il luogo, ma sembra che alludesse a quanto raccontò per la prima volta nel 1858 a' suoi figliuoli dell'Oratorio, fra i quali eravi Cagliero, Rua, Francesia ed altri. Aveva visto la valle sottostante alla cascina del Susambrino convertirsi in una grande città, nelle cui strade e piazze scorrevano turbe di fanciulli schiamazzando, giuocando e bestemmiando. Siccome egli aveva in grande orrore la bestemmia ed era di un carattere pronto e vivace, si avvicinò a questi ragazzi, sgridandoli perchè bestemmiavano e minacciandoli se non avessero cessato; ma non desistendo essi dal vociare orribili insulti contro Dio e la Madonna Santissima, Giovanni prese a percuoterli. Senonchè gli altri reagirono e, correndogli sopra, lo tempestarono di pugni. Egli si diede alla fuga; ma in quella ecco venirgli incontro un Personaggio, che gli intimò di fermarsi e di ritornare a quei monelli e persuaderli a state buoni e a, non fare il male. Giovanni obbiettò le percosse avute e il peggio che gli sarebbe toccato, se fosse ritornato sopra i suoi passi. Allora quel Personaggio lo presentò ad una nobilissima Signora, che si faceva innanzi, e gli disse: Questa è mia Madre; consígliati con lei. La Signora, fissandolo con uno sguardo pieno di bontà così parlò: Se vuoi guadagnarti questi monelli, non devi affrontarli colle percosse, ma prenderli colla dolcezza e colla persuasione. E allora, come nel primo sogno, vide i giovani trasformati in belve e poi in pecorelle e in agnelli, ai quali egli prese a far da pastore per ordine di quella Signora. Era il pensiero del Profeta Isaia tradotto in visione: “Daranno gloria a me le bestie selvatiche, i dragoni, gli struzzoli (mutati in figliuoli di Abramo). Questo popolo l'ho formato per me; egli annunzierà le mie laudi (la mia possanza, la mia misericordia)”.
Forse è questa volta che egli vide l'Oratorio con tutti i caseggiati, che erano pronti ad accoglierlo coi suoi biricchini. Infatti D. Bosio, nativo di Castagnole, parroco di Levone Canavese, compagno di D. Bosco nel seminario di Chieri, venuto per la prima volta all'Oratorio nel 1890, arrivato in mezzo al cortile, circondato dai membri del Capitolo superiore della Pia Società di S. Francesco di Sales, girando lo sguardo attorno ed osservando i molteplici edifizii, esclamò: Di tutto ciò, che ora vedo qui, nulla mi riesce nuovo. D. Bosco in seminario mi aveva già descritto tutto, come se avesse veduto coi propri occhi ciò che narrava e come io vedo adesso con mirabile esattezza esistere. E parlando si impossessava di lui una tenerezza profonda al rammentare il compagno e l'amico, Eziandio il teologo Cinzano attestava a D. Gioachino Berto e ad altri avergli detto con sicurezza il giovane Bosco, quando era ancor chierico, che egli in tempo avvenire avrebbe avuto dei preti, dei chierici, dei giovani studenti, dei giovani operai ed una bella musica.
A questo punto non possiamo far a meno di fissare lo sguardo sul progressivo e razionale succedersi dei varii sorprendenti sogni. Ai 9 anni Giovanni Bosco viene a conoscere la grandiosa missione, che a lui sarà affidata; ai 16 ode la promessa dei mezzi materiali, indispensabili per albergare e nutrire innumerevoli giovani; ai 19 un imperioso, comando gli fa intendere non esser libero di rifiutare la missione affidatagli; ai 21 gli è palesata la classe de' giovani, della quale dovrà specialmente curare il bene spirituale; ai 22, gli è additata una grande città, Torino, nella quale dovrà dar principio alle sue apostoliche fatiche e alle sue fondazioni. E qui, come vedremo, non si arresteranno queste misteriose indicazioni, ma continueranno ad intervalli fino che sia compiuta l'opera di Dio. Si dovran dir forse questi sogni mere combinazioni di fantasia? E una prova che Giovanni Bosco era accetto a Dio e che la protezione della Vergine SS. non gli mancava fin da quei tempi, in qualsivoglia, occasione a Lei ricorresse, è il fatto seguente. La regione di Castelnuovo era sovente devastata dalla tempesta, che per dieci anni di seguito aveva distrutto interamente il raccolto dell’uva. La famiglia Turco se ne lamentò col chierico Bosco ed egli rispose con umile sicurezza: - Finchè io sarò qui alla Renenta non temete: la tempesta non cadrà più: preghiamo solamente la Madonna ed Ella ci proteggerà.
- E infatti dà quel punto per un certo numero di anni più non cadde la grandine. Sembrava che la presenza di Giovanni in quei luoghi portasse benedizione. Così affermava Giuseppe Turco.
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