D. Bosco è licenziato dal Rifugio - Lettera della Marchesa al Teologo Borel - Intera confidenza in Dio; amore alla povertà evangelica; esimia prudenza nel tutelare il proprio onore - Contrasti noti e segrete elemosine - Prime camere prese ad affitto in casa Pinardi.
del 27 ottobre 2006
 Da circa otto mesi la Marchesa Barolo dimorava in Roma, attese le gravi difficoltà incontrate nel far approvare le regole de' suoi Istituti Religiosi. Ma le preghiere continue innanzi al SS. Sacramento, le visite insistenti al Santo Padre Gregorio XVI, ai Cardinali, e ad altri prelati influenti, ed una lettera commendatizia di Re Carlo Alberto, ottennero finalmente dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari ciò che ella desiderava. Ciò pure avvenne con grande stupore di molti, che avevano creduto impossibile il conseguimento di tale favore. Il 6 maggio 1846 la Marchesa rientrava in Torino colle Costituzioni modificate ed approvate, accolta con grandi feste dalle Suore di S. Anna, dalle Maddalene e da altri grati alle sue beneficenze. D. Bosco coi preti del Rifugio fu a darle il ben tornato, e in parte da lei, in parte da Silvio Pellico, suo compagno di viaggio, conobbe quale ardua impresa fosse quella di ottenere, dal prudente temporeggiare della S. Sede l'approvazione di un novello Ordine religioso. Per lui questo, racconto doveva essere come un preavviso ed una norma negli anni avvenire; ma nello stesso tempo gli fu cagione di viva gioia, ricordandogli le promesse misteriose avute in sogno. Infatti col suo consueto sorriso diceva, scherzando, alla Marchesa: - Mi dia molti danari, mi dia dei milioni e vedrà che cosa sono per fare: mi alzerò tanto, da coprire colle mie ali tutto il mondo. - La Marchesa, già resa consapevole delle opposizioni del Municipio di Torino contro l'Oratorio festivo, e delle dicerie propalate sul conto di D. Bosco, stupì di queste parole, e andata dalle Suore di S. Giuseppe, narrò quasi piangendo ciò che D. Bosco le aveva detto; e soggiungeva: - Pregate per lui; temo che quel santo uomo realmente, a lungo andare, impazzisca! - Perciò risolvette di indurre Don Bosco a mettere un limite ai suoi faticosi lavori. Vedendo come la sua sanità andasse deperendo a vista d'occhio, chiamatolo a sè, dopo averlo imperiosamente consigliato a prendersi più mesi di assoluto riposo in qualche salubre e solitario paese, gli offerse la somma di circa cinquemila lire, perchè si assoggettasse ad una cura che essa giudicava ed era necessaria. - Signora Marchesa, le rispose D. Bosco rispettosamente, La ringrazio della sua caritatevole esibizione; ma io non mi sono fatto prete per curare la mia sanità. - Il Teologo Borel, che era presente e che conosceva il cuore di D. Bosco, ne rimase tanto ammirato, che spesse volte ricordava questa risposta come prova della santità del suo amico: e, senza nominarlo, la ripeteva eziandio nelle istruzioni ai sacerdoti ed ai chierici.
Non ne fu però soddisfatta la Marchesa. Sincera nella sua proposta, aveva sperato tuttavia che D. Bosco, allontanandosi da Torino per molto tempo, avrebbe dimenticati i suoi giovani. Se prima non erasi mostrata aliena che egli attendesse eziandio all'Oratorio, ora temendo inconvenienti dall'accostarsi che facevano talora i ragazzi al Rifugio o all'Ospedaletto, aveva risoluto che D. Bosco s'impegnasse unicamente per i suoi Istituti. Troppo assorbita dalle proprie opere e dal suo genio esclusivo, non aveva compreso lo spirito di D. Bosco, come nemmeno aveva saputo comprendere quello del Venerabile Canonico Giuseppe Benedetto Cottolengo
Ferma come era nelle sue decisioni, un giorno portossi nella camera di D. Bosco e così gli parlò: - Io sono assai contenta della cura che V. S. si prende de' miei Istituti, e La ringrazio di avervi introdotto il canto delle sacre laudi, il canto fermo, la musica, ed insegnato nelle scuole l'aritmetica e il sistema metrico, e più altre cose di grande utilità.
 - Non occorre punto che mi ringrazi, signora Marchesa, rispose D. Bosco, giacchè il sacerdote, avendo da lavorare per obbligo di coscienza, io non ho fatto che il mio dovere, e da Dio ne attendo la mercede, seppur me la sono meritata.
 - Voglio anche dire, anzi ripetere, che mi rincresce assai che la moltiplicità di sue occupazioni abbiano alterata la sua sanità. Non è sperabile che Ella possa continuare la direzione delle Opere mie e quella dei ragazzi abbandonati, tanto più che il numero di questi è ora cresciuto fuor di misura. Io sono quindi a proporle che Ella faccia soltanto quello che è d'obbligo suo, cioè la direzione dell'Ospedaletto, e cessi dal recarsi nelle carceri, al Cottolengo, e sopratutto lasci ogni cura dei fanciulli. Che ne dice?
 - Signora Marchesa, Iddio mi ha finora aiutato e spero che non mancherà di aiutarmi ancora; perciò Ella non tema sul da farsi, chè tra il Teologo Borel, D. Pacchiotti e D. Bosco si combinerà di compiere il tutto, con sua soddisfazione.
- Ma io non posso più tollerare che Ella si ammazzi; tante e sì svariate occupazioni, da volere a non volere, torneranno a detrimento della sua sanità e de' miei Istituti. E poi, le voti che corrono intorno... alle sue facoltà mentali, mi costringono a consigliarle...
 - A consigliarmi che cosa, signora Marchesa?
 - O di lasciare il suo Oratorio, o il mio Ospedaletto Ci pensi, e poi mi risponderà a suo bell'agio.
 - La mia risposta è già pensata, e io sono in grado di fargliela fin d'ora: la S. V. ha danari e mezzi molti, e troverà facilmente sacerdoti quanti ne vuole per dirigere i suoi Istituti. Pei poveri fanciulli non è così, e perciò io non posso e non debbo abbandonarli. In questo momento se io mi ritiro si perde il frutto di molti anni. Quindi per lo innanzi io continuerò a fare volentieri pel Rifugio quello che mi sarà possibile, ma vi cesserò dal mio impiego regolare, per darmi più di proposito alla coltura dei giovanetti.
 - E dove andrà Lei ad abitare? e senza stipendio come potrà vivere?
 - Andrò dove la Provvidenza mi chiama. Dio non mi lasciò mancar nulla fin qui, e confido che non mi verrà meno neppure per l'avvenire.
 - Ma Ella è rovinata di salute; la sua testa non ne può più, ed ha bisogno di quiete. Ascolti dunque il mio consiglio di madre, signor D. Bosco, e io le continuerò lo stipendio, e lo aumenterò anche se vuole: Ella vada a passare alcun tempo in qualche sito, uno, tre, cinque anni, quanto farà di bisogno: si riposi; e quando sia ben ristabilito, ritorni al Rifugio, e sarà sempre il benvenuto. Altrimenti V. S. mi mette nella dispiacevole necessità di darle il congedo dalla mia casa. Se mi obbliga a questo passo, Ella pei suoi giovanetti andrà ad ingolfarsi nei debiti; allora varrà da me per soccorsi, ed io protesto fin da questo momento che mi rifiuterò ad ogni sua domanda. Vi rifletta sopra severamente.
 - Io vi ho già riflettuto da gran tempo, signora Marchesa; la mia vita è consacrata al benessere dei poveri giovanetti, e niuno mai mi farà deviare dalla strada che il Signore mi ha tracciata.
 - Dunque Ella preferisce i suoi vagabondi a miei Istituti? Se è così, V. S. resta congedata fin da quest'istante: oggi stesso provvederò chi La debba sostituire.
A questo punto Don Bosco le fece osservare che un licenziamento così precipitato avrebbe dato occasione a sospetti disonorevoli, e che sarebbe stato meglio operare con calma, e conservare fra loro quella stessa carità che avrebbero voluto aver mantenuta quando si sarebbero trovati al tribunale di Dio.
A queste parole la Marchesa si calmò alquanto e conchiuse dicendo: - Ebbene Le darò tre mesi di tempo, dopo i quali Ella lascerà ad altri la direzione del mio Istituto.
Don Bosco accettò la proposta, e pieno di fiducia in Dio si abbandonò alla sua Provvidenza sempre amorosa. E questa confidenza assicurava la riuscita della sua impresa, poichè disse lo Spirito Santo: “Maledetto l'uomo che confida nell'uomo e fa suo appoggio un braccio di carne”.
La Marchesa però non si diede per vinta, e tentando di stornarlo dal suo proposito colla prospettiva di un avvenire di miserie, mandò a lui Silvio Pellico, suo segretario, dicendogli. - Rinnovate a D. Bosco le mie proposte. Se accetta, bene; io farò tutto ciò che egli vuole. Se si ostina, ripetetegli che non venga mai e poi mai alla mia porta per chiedere elemosina. Si troverà ben presto in bisogno, lo prevedo; ma io, non gli darò nè un soldo nè un centesimo. - D. Bosco non si lasciò smuovere, e fece rispondere alla Marchesa: - Protestarsi dolente di cagionar dispiacere ad una così buona signora verso la quale aveva tante obbligazioni; ma conoscere egli come il Signore lo chiamasse alla missione dei fanciulli, e temere di far contro alla santissima sua volontà abbandonandoli. Essere questo il solo motivo pel quale era costretto a non piegarsi alle offerte generose della Marchesa.
D. Cafasso e il Teologo Borel non tardarono ad essere informati di questo disgustoso incidente. La Marchesa dopo un abboccamento con D. Cafasso, dal quale certamente nulla seppe di quanto D. Bosco avevagli confidato, così scriveva al Teologo Borel:
 
“III. e Rev. Sig. Teologo,
 
“ Un abboccamento che ho avuto con D. Cafasso mi fa credere che una spiegazione è necessaria fra Lei e me, Rev.mo signor Teologo; e mi pare più conveniente farla in iscritto che in parole; tanto più che quando ho l'onore di parlarle, non mi permette di esprimerle la mia stima per la sua persona, la mia ammirazione per la sua virtù, e la mia riconoscenza per le cure che con tanto zelo ha preso e continua a prendere de' miei stabilimenti. Quando l'Ospedaletto è venuto a crescere il numero di questi stabilimenti, abbiamo creduto che sarebbe stato necessario di fissare un cappellano al detto Ospedaletto. Io non poteva mettere la mia confidenza meglio che in Lei. Scelse l'ottimo D. Bosco e me lo presentò. Piacque anche a me dal primo momento e gli trovai quell'aria di raccoglimento e di semplicità propria delle anime sante. La nostra conoscenza cominciò nell'autunno 1844, e l'Ospedaletto non doveva aprirsi, e non si è aperto, che nell'agosto 1845. Ma il desiderio di assicurare l'acquisto di un così buon soggetto, fece anticipar la sua entrata nello stipendio del suo impiego. Poche settimane dopo che fu stabilito con Lei, M. R. Sig. Teologo, tanto la Superiora del Rifugio come io, abbiamo veduto che la sua salute non gli permetteva nessuna fatica. Si ricorderà quante volte Le ho raccomandato di averne riguardo e lasciarlo riposare ecc., ecc. Non mi dava retta; diceva che i preti dovevano lavorare ecc.
“ La salute di D. Bosco peggiorò sino alla ma partenza per Roma; intanto egli lavorava, sputava sangue. Fu allora che ricevetti una lettera da Lei, Sig. Teologo, dove mi diceva che D. Bosco non era più nel caso di coprire l'impiego confidatogli. Subito risposi che io era pronta a continuare a D. Bosco il suo stipendio, con patto che non facesse più nulla: e son pronta a tener la mia parola. Ella, Sig. Teologo, crede che non è far nulla confessare, esortare centinaia di ragazzi? Io credo che ciò nuoce a D. Bosco e credo necessaria che s'allontani abbastanza da Torino, per non essere nel casa di stancare così i suoi polmoni. Perchè quando stava a Gassino, questi ragazzi andavano a confessarsi da lui ed egli li riconduceva a Torino. Ella ha tanta carità, Sig. Teologo, che sicuramente mi sono meritata l'opinione sfavorevole che ha di me, facendomi chiaramente conoscere che io voglio impedire la dottrina che si fa la domenica ai ragazzi e le cure che se ne prendono durante la settimana. Credo l'opera ottima in sè e degna, delle persone che l'hanno intrapresa; ma, credo da una parte che la salute di D. Bosco non gli permetta di continuare, e d'altra parte credo che la radunanza di questi ragazzi, che prima aspettavano il loro Direttore alla porta del Rifugio e adesso lo aspettano alla porta dell'Ospedaletto, non è conveniente.
“ Senza parlare di tutto quello che è successo per il passato, ed in che il M. Rev. Sig. Durando è stato intieramente del mio sentimento, parlerò solamente di quello che è succeduto ancora ieri. Fui avvisato dalla Superiora dell'Ospedaletto che si era introdotta, con una famiglia d'un'ammalata, una figlia di mala vita, uscita di mala grazia, come diciamo, dal Rifugio, venendovi anche con lei la madre di una figlia del Rifugino, a cui la figlia fu levata per consiglio del Curato dell'Annunziata. Furono tutte e due congedate da me. Pochi momenti prima aveva trovata alla porta dell'Ospedaletto un drappello di ragazzi, e domandando loro che facevano là, mi risposero che aspettavano D. Bosco. Fra loro ce n'erano alcuni piuttosto grandi. Dunque quella figlia di cattiva vita e quella donna rimandata dall'Ospedaletto, che erano molto malcontente, sono passate in mezzo a questi ragazzi. E se questa avesse detta qualche parola del suo mestiere ai discepoli di D. Bosco?
“ Per riassumere: 1° Approvo e lodo l'opera dell'istruzione ai ragazzi, ma trovo soggetta a pericolo la radunanza alle porte de' miei stabilimenti per la natura delle persone che ivi si trovano. 2° Siccome credo in coscienza che il petto di Don Bosco ha bisogno di un riposo assoluto, non gli continuerò il piccolo stipendio, che egli vuol ben gradire da me, fuorchè a condizione che si allontani abbastanza da Torino, per non essere in occasione di nuocere gravemente alla sua salute; la quale mi preme tanto più, quanto più lo stimo.
“ Io so, Molto Rev. Sig. Teologo, che non siamo dello stesso sentimento, su questi punti: se non sentissi la voce della mia coscienza, sarei pronta come al solito a sottomettermi al suo giudizio.
“ Le rinnovo l'attestato dell'inalterabile venerazione e dei profondo rispetto con cui ho l'onore di essere
“ Della S. V. Ill.ma e R.ma
18 Maggio 1846.                                                   
                                                                                 Dev.ma serva
Marchesa Barolo nata Colbert”.
 
 Questa lettera svela la fermezza, ma eziandio la grande carità del suo nobile cuore. Perciò non si trattenne dall'andare a visitare D. Bosco un giorno, nel quale era occupato in varie faccende nella nuova cappella tettoia. D. Bosco in quel tempo non aveva nella casa Pinardi stanza alcuna per sè, non essendo ancora scaduto il termine dell'affitto di nessuno degli inquilini. La Marchesa osservò quella stamberga, entrò in quella specie di rimessa; contemplò per un istante il luogo povero e disagiato; e, nulla sapendo della missione celeste di D. Bosco, giudicò che per capriccio ed anche per spirito di contraddizione, egli rifiutasse le sue generose offerte per crearsi uno stato così miserabile. D. Bosco, avvisato del suo arrivo, le si era fatto incontro, e la Marchesa appena lo vide, incominciò a dirgli senza complimenti: - E ora che cosa Lei potrà fare qui se io non Le porgo aiuto? Non ha un soldo! Lo so! E con tutto ciò non vuole arrendersi alle mie proposte? Peggio per lei! Pensi bene prima di decidere: si tratta di tutto il suo avvenire!
Singolare contrasto fu questo tra D. Bosco e la Marchesa Barolo. Egli aveva accettato come transitorio l'ufficio di Cappellano e Direttore all'Ospedaletto. Colle fanciulle esercitava il sacro ministero solo per dovere e per motivo di carità, mentre verso i giovani sentiva per di più una santa inclinazione ispirata dalla grazia Divina. Perciò, sebbene l'attuale suo impiego gli presentasse grandi attrattive di agiatezza, di onori e di materiali vantaggi per tutta la vita, pure egli prediligeva per sè la povertà evangelica della sua vocazione, dicendo al Signore: - Inclina il cuor mio verso di tue testimonianze e non verso l'amore delle ricchezze. E dal suo proposito non lo distoglieva la certezza di perdere la grazia e la benevolenza di chi era larghissima verso ogni opera di carità. Irremovibile quindi nella sua decisione, si mostrava freddo alle insistenze della nobile Matrona; impassibile alle sue rimostranze. Pronto, come vedremo a prestare servizio alle opere di lei, non sarebbesi mai piegato a chiederle un soccorso, che potesse vincolarlo colla gratitudine, a danno del suo Oratorio. La Marchesa da parte sua, ostinata in ciò che credeva esser bene, non poteva perdonare a D. Bosco, pur stimandone la virtù, che egli volesse abbandonare i suoi Istituti. Vedeva con ciò sfumare il caro progetto di formare una specie di Congregazione di preti, ai quali avrebbe affidati i suoi stabilimenti, perchè mantenessero lo spirito della fondazione; mentre in D. Bosco aveva intuito le doti necessarie per realizzare, come Direttore, questo suo desiderio. Perciò ella, così potente per l'appoggio del Re e di tutte le autorità, per le sue ricchezze, per la nobiltà della sua famiglia, per la popolarità procuratagli dalle sue beneficenze, non poteva non risentirsi della resistenza inespugnabile di D. Bosco. I suoi famigliari facilmente se ne erano accorti, ed ella stessa confidava il suo malumore alle persone amiche che venivano a visitarla. Così la cosa a poco a poco giungendo a cognizione di molti faceva buon giuoco a D. Bosco, il quale voleva che il suo onore rimanesse senza macchia. Il congedo inaspettato dal Rifugio poteva far nascere chi sa quali sospetti sul conto, suo, qualora la gente non ne conoscesse, con prove assolute, il vero motivo. Non dimenticava il monito dei Libri Santi: “Tien conto del buon nome”: E questa era la ragione di certi suoi modi, e di certe sue pensate e, dirò quasi, provocanti risposte, perchè dalla bocca stessa della Marchesa si udisse la parola di propria giustificazione.
Infatti continuava a farle visita, ma si usavano reciprocamente maniere diplomatiche, La Marchesa gli parlava con, sussiego e D. Bosco le rispondeva con serietà. Talora accaddero scene abbastanza lepide. La Marchesa con grande calma, ma con un sorriso alquanto sardonico, gli diceva al primo suo entrare nella stanza di ricevimento Si trova nella miseria, non è vero?
 - Oh no, rispondeva D. Bosco, con affabilità ma in contegno grave e riserbato; non son venuto a parlarle di danaro; conosco già le sue intenzioni e non voglio disturbarla con simili importunità. Tanto più che io non ho bisogno di niente... e se mi permette una parola, che aggiungo senza intenzione di offenderla... io neppure ho bisogno di Lei, signora Marchesa!
 - Sì, eh? Replicava essa; ecco il superbo!
 - Io, soggiungeva D. Bosco, glielo ripeto! non voglio il suo danaro: so però dirle che, mentre ella conoscendomi stretto dalla necessità, pure non si smuove a soccorrermi, io sono di ben altro animo verso di lei. So dirle che facendo una supposizione inammissibile, se la signora Marchesa cadesse nella miseria ed avesse bisogno di me, io mi caverei persino il mantello dalle spalle e il pane di bocca per soccorrerla.
La Signora restò per un istante confusa, ma ripigliando la sua consueta vivacità; - Lo so, disse, lo so, che Lei ostenta di non aver bisogno di me e non vuole le mie grazie! Anche il Can. Cottolengo faceva lo stesso: il mio danaro non lo voleva.
E la buona Patrizia burbera in apparenza, mantenne la sua irrevocabile parola di non dar più alcuna elemosina a D. Bosco personalmente; ma non era sua intenzione negare ogni soccorso all'Oratorio. Perciò in modo segreto gli faceva di quando in quando consegnare qualche somma, ma proibendo a' suoi messi di palesare il nome della benefattrice. Infatti in un registro autografo del Teol. Borel, ove egli teneva memoria delle elemosine ricevute per l'Oratorio festivo, il 17 maggio 1847 nota aver la Marchesa date per mezzo di D. Cafasso 810 lire per la celebrazione di alcune messe; e nel giugno di questo stesso anno aver imprestati all'Oratorio i tappeti del Rifugio per la festa di S. Giovanni. Nel giugno poi del 1851 registra altre 50 lire date a lui dalla stessa Marchesa. Queste elargizioni erano consegnate a D. Bosco dal Teologo, mentre altre, però a quel che pare non troppo frequenti, gli furono probabilmente presentate per mano di persone diverse, e a lui non famigliari. Chi conobbe il carattere e le abitudini di questa nobile Signora afferma, che la cosa non può essere passata altrimenti.
Aggiungeremo inoltre come la Marchesa fosse donna di insigne pietà e in fondo sinceramente umile, non ostante l'indole vivace. Quindi allorchè D. Bosco, andato a visitarla, congedavasi, ella si metteva sempre in ginocchio chiedendo di essere benedetta. Tale è la testimonianza di D. Giacomelli il quale aggiungeva colla semplicità delle anime buone:
 - Così non usava fare con me.
D. Bosco frattanto sul finire del mese di maggio preoccupavasi del come procurarsi l'alloggio, dovendo nell'agosto sgombrare dall'Ospedaletto. Era impensierito eziandio pel nuovo genere di vita al quale doveva adattarsi. Nelle scuole, in seminario, in parrocchia, al Convitto, al Rifugio si era sempre trovato in famiglia e da qui innanzi sarebbe stato solo. Egli però sapeva alzare lo sguardo a Maria SS., e da questa celeste Madre aveva sempre ottenuto opportunamente aiuti e grazie.
Non tardò quindi a risolversi. Fin da quando ebbe occupata la tettoia trasformata in cappella, suo primo pensiero fu di stabilirsi in quella casa, liberandosi dai pericolosi vicini, poichè eziandio casa Pinardi era luogo d'infamia e di disordine. Se il volere del Signore non si fosse chiaramente manifestato, D. Bosco sarebbe stato condannabile di solenne imprudenza. Pure ei si accinse subito all'opera. Era questione di tempo e di danaro. In quanto al tempo, occorreva pazienza; in quanto al danaro, non bisognava badare a sacrifici. Era necessario far sloggiare quella poco onorevole gente, rendendone impossibile il ritorno.
Il Sig. Pinardi aveva affittata a Pancrazio Soave tutta la parte della sua casa destinata ad abitazione, composta di undici stanze, cinque al piano superiore, coi sottotetti, e sei al piano terreno; e questi, ritenute alcune stanze per la fabbrica dell'amido e per suo alloggio, aveva cedute le altre in subaffitto. D. Bosco aperse trattative col Soave. Di mano in mano che i vari inquilini finivano le loro locazioni, oppure se ne andavano, egli cercava di rendersi padrone delle loro stanze, pagandone il fitto il doppio per lo meno del loro valore. Ai 5 di giugno egli prendeva a pigione tre camere attigue del piano superiore verso ponente, in ragione di cinque lire ciascuna al mese; e la durata del contratto era fissata dal 1° di luglio 1846 fino al l° di gennaio 1849. Egli contentavasi di ritirarne le chiavi, senza servirsene o mettervi piede. Al Soave convenivano questi contratti, ma diceva sovente a D. Bosco: - Venga ad abitarle queste camere!
 - Per ora non occorre, rispondeva sempre D. Bosco; sono poche e non mi bastano: le abiterò quando potrò occupare tutta la casa! - Il suo fine nobilissimo però era di non coabitare con persone sospette, e non esporre a dicerie la sua dignità sacerdotale.
 
 
 
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