Apertura dell'Oratorio dell'Angelo Custode - Primordi difficili - I Direttori - Imprudenza di un catechista e sue conseguenze - Frutti consolanti - D. Bosco, D. Verri, D. Olivieri e i fanciulli africani riscattati - Speranze di future missioni per la salvezza eterna dei Moretti - Eroica decisione di D. Biagio Verri presa nella Cappella dell'Oratorio di Valdocco - Sua grande stima per le virtù di D. Bosco.
del 15 novembre 2006
 Non è cosi facile tener dietro con ordine alle incalzanti nuove opere che D. Bosco intraprendeva o proseguiva simultaneamente a gloria di Dio, le une di natura diversa, le altre omogenee e fra loro collegate. Nella seconda metà del 1849 egli si era eziandio occupato nell'aprire un suo terzo oratorio festivo in Vanchiglia.
L'oratorio, o ricreatorio, che dir si voglia, di Don Cocchis era stato chiuso. Riaccesa la guerra con l'Austria si eccitò in quei giovani, già usi a maneggiare il fucile e la spada, un grande ardore bellicoso; quindi, ansiosi di poter dalle manovre passare ai fatti e misurarsi col nemico, domandarono ed ottennero di marciare alle patrie battaglie. In numero di circa 200, accompagnati da D. Cocchis, che non poteva reggere al pensiero di abbandonarli soli a quello sbaraglio, partirono da Torino, colle armi chieste ed ottenute dal Governo. Nella loro fantasia speravano essi di potersi coprire di onorata polvere: ma disgraziatamente dopo alcuni giorni di cammino, passati per Chivasso e giunti a Vercelli, non trovarono nè munizioni, nè viveri, nè luogo ove dormire. Il Capo Divisione non voleva riconoscerli come soldati, poichè non gli erano stati trasmessi ali avvisi dalla Capitale. Nello stesso tempo giungeva la notizia della rotta dell'esercito a Novara. Non avendo potuto giungere al campo dell'onore, non v'era per essi altra via da prendere che quella già percorsa; consegnate quindi le armi, ritornarono indietro alla rinfusa. Invano chiedevano cibo ai contadini, i quali li respingevano dalle loro case temendo che fossero assassini di strada, e li inseguivano per i campi. Quando, mezzo morti per la stanchezza e per la fame, furono in vista di Torino, essendo ancora giorno alto, si nascosero dietro i rialti di terra e nei burroni per non essere visti e burlati, e caduta la notte, rientrarono quietamente e alla spicciolata nelle loro case. L'Oratorio rimase chiuso perchè D. Cocchis per qualche tempo aveva vissuto in luogo nascosto; poi era partito per Roma, dopo l'entrata dei Francesi, per mettersi a disposizione di Propaganda Fide Senonchè, mutata idea, aveva fatto ritorno in Torino il 13 ottobre ove unito coi Teologi Tasca e Bosio progettava un ospizio di beneficenza per i poveri artigianelli, e ne ricoverava i primi due nella casetta del portinaio del suo Oratorio in Vanchiglia, pagando egli la pensione. Questa fu la culla del grande Istituto degli Artigianelli, il cui edificio venne poi eretto in corso Palestro, dagli infaticabili cooperatori di D. Cocchis i Teologi Roberto Murialdo e Giuseppe Berizzi. Intanto D. Cocchis, non avendo di che pagare il fitto e mantenere que' giovani, dei quali cresceva il numero, doveva, come D. Bosco, industriarsi pel loro vitto e vestito. Or questa sollecitudine, congiunta alle varie occupazioni della
parrocchia della SS. Annunziata, finì per impedirlo totalmente dal riaprire il detto Oratorio.
Questo dunque stava già sospeso da parecchi mesi, quando D. Bosco e il Teol. Borel, consci dei gran bisogno di un cotale istituto in quella parte della città, prese le necessarie intelligenze con D. Cocchis medesimo, subentrarono nel locale già tolto in affitto a tale uopo, e con l'approvazione chiesta ed ottenuta per iscritto da Mons. Fransoni riaprirono il detto Oratorio sotto il titolo dell'Angelo Custode.
Consisteva in una grande area chiusa, annessa alla casa dei proprietari, con due tettoie l'una al lato di mezzanotte e l'altra al lato di ponente; un casino di due camere soprapposte sull'angolo formato dalle due tettoie; un camerone eretto in prosecuzione della tettoia a ponente, verso mezzogiorno, che D. Bosco adattò ad uso cappella, con attiguo ripostiglio che serviva per sagrestia. Il fitto convenuto fu di 900 lire annue e non è a dire quanto dovette adoperarsi il buon servo di Dio in questa nuova impresa.
Con l'aiuto del parroco della SS. Annunziata, il Teol. Luigi Fantini, la riapertura fu fatta in ottobre intorno alla festa di S. Raffaele Arcangelo, ricorrente il 24; e per la grande devozione che D. Bosco nutriva verso gli Angeli Custodi, ci dispose che ogni anno se ne celebrasse in Vanchiglia la festa con grande solennità. Tanto per le sacre funzioni e pratiche di pietà, quanto per i giuochi e i mezzi di emulazione si adottò lo stesso orario, metodo e regolamento, che facevano, sì bella prova negli Oratori di S. Francesco di Sales e di S. Luigi, dei quali fu considerato come fratello. Ma assai costò di pazienza e di fatiche a coloro che furono destinati a questo Oratorio, e come sentirono il bisogno di invocare sovente l'Angelo Custode secondo le raccomandazioni che ne aveva fatte loro D. Bosco.
Il vecchio borgo di Vanchiglia col suo nucleo di catapecchie le cui mura screpolate ed annerite dal tempo minacciavano di crollare ad ogni istante, era come la fortezza di uomini nemici dell'ordine, avidi della roba altrui, spinti da un feroce istinto al male, pronti a fatti di sangue. Là erano confinati il delitto, la miseria e il mercato del vizio. Là era nata, là si ramificò, là divenne grande e temuta la Cocca, della quale abbiamo già parlato. Vanchiglia era luogo in cui nessuno all'imbrunire volgeva il piede. Nemmeno le guardie osavano affrontare quelle fitte schiere di malfattori. Come un castello cui fosse stato alzato il ponte levatoio, a nessuno nella notte era dato libero il passo, se non apparteneva alla Cocca.
I preti e i catechisti di D. Bosco presero il posto, loro assegnato. Il primo Direttore fu il Teol. Carpano, trasferitosi dall'Oratorio di S. Luigi, che si era ampliato grandemente. Quivi a lui succedette in questo uffizio l'ottimo sacerdote Pietro Ponte da Pancalieri, che lo governò con paterna sollecitudine fino al 1851. Era coadiuvato dall'abate Carlo Morozzo, che poi fu elemosiniere del Re e Canonico della Metropolitana, dal Sac. Ignazio Demonte, dall'Avvocato Bellingeri, dal Teol. Felice Rossi e dall'Avvocato D. Berardi.
Intanto in Vanchiglia le prime difficoltà sorsero dagli stessi giovani beneficati, corrispondendo con ingratitudine insubordinazione, insulti e minacce, contro la stessa persona dei Sacerdote. Degni figli dei loro padri, indisciplinati e villani nelle ricreazioni, pronti a fuggire facendo violenza al portinaio quando il campanello li invitava alla chiesa, disturbatori e turbolenti quelli che si era riuscito a condurre alla predica o al catechismo, schernitori dei buoni avvisi che loro venivano dati, sembrava che dovessero rendere inutili le premure di quelli che zelavano il loro bene. Eppure la carità doveva trionfare. Infatti, colla costante amorevolezza, col dissimulare gli sgarbi ricevuti, col far loro opportunamente qualche dono, coi procurare nuovi divertimenti, colle feste, col distribuire loro colazioni e merende, col trarre a parte quelli che sembrava avessero un cuore migliore, si riuscì a padroneggiarli. D. Bosco diverse volte venne a visitarli, e colla sua incantevole parola e le sue promesse compì l'opera. Alcuni incominciarono ad accostarsi ai sacramenti, e a poco a poco il loro esempio attrasse gli altri, e, la maggior parte prese ad amar l'Oratorio, come attestò D. Reviglio Felice. Fra i catechisti, che vi prestavano la loro opera, accondiscese per qualche anno ali' invito di D. Bosco il Teol. Giov. Batt. Bertagna, ora Arcivescovo. Il giovane Rua Michele, ancor secolare, vi si recò in sui primordi più volte, e stupì della moltitudine di que’ giovani, grandi e piccoli.
Dopo il Teol. Carpano, che non vi stette gran tempo e che nel 1853 era eletto a cappellano a S. Pietro in Vincoli, successore al defunto D. Tesio, vi fu impiegato il suo coadiutore Teol. Giovanni Vola. A lui per fare il catechismo e per i trattenimenti dei giovani D. Bosco dava per compagno Brosio Giuseppe, il Bersagliere, incaricandolo di prestargli mano forte. Brosio lasciava relazione per iscritto di qualche disturbo avvenuto in quei giorni, in questi termini.
“ Incominciai a divertirli insegnando loro la ginnastica e la manovra alla bersagliera, divertimento il più favorito di quei tempi per la gioventù vivace; e di fatti quasi tutti i giovani lo avevano scelto e si passava la festa allegra e tranquilla.
 ”I Barabba, cioè la confederazione dei monelli, non poteva però vedere di buon occhio questo oratorio, perchè decimava la loro Cocca; e così tutte le domeniche venivano all'oratorio a fare le loro bravure, insultando, schernendo e anche dando scappellotti ai giovani che frequentavano le nostre radunanze.
 ”Una festa comparvero in numero di circa quaranta, armati di pietre, bastoni e coltelli per entrare nell'interno dell'oratorio, del che il Teol. Vola si prese tanta paura, che tremava come una foglia. Io, vedendo che que' malviventi erano risoluti di menar le mani, pensai di mettermi in difesa, perchè guai se uno di quelli si fosse accorto di essere temuto.
 ”Chiusi la porta dell'oratorio, e fatto nascondere in una camera sicura il Teol. Vola, radunai tutti i giovani più grandi dando a ciascuno uno dei fucili di legno che servivano per le esercitazioni, quindi li divisi in squadriglie, con ordine che se i Barabba entravano nel cortile fossero tutti pronti ad un mio segnale convenuto, li attaccassero da tutte parti contemporaneamente e giù legnate senza misericordia. Radunati in quel mentre tutti i ragazzi più piccoli, che piangevano di paura, li nascosi in chiesa, e andai di guardia alla porta d'entrata, per vedere se cedeva agli urtoni poderosi coi quali tentavano gli assalitori di gettarla a terra.
 ”Il portinaio della casa dell'oratorio e altre persone che si trovavano nella strada, udendo i propositi vociati del Barabba di venire ad eccessi, andarono ad avvisare i soldati di cavalleria acquartierati poco lontano, e questi accorsero colle sciabole sguainate accompagnati da quattro carabinieri. I Barabba si diedero alla fuga.
 ”Avendo poi saputo questi farabutti che io era stato bersagliere e pronto per difendermi a qualunque cimento, non venivano più ad insultarci da vicino, ma in lontananza ci balestravano sassate. Tuttavia mentre ci mostravamo inaccessibili alla paura, non curanti delle loro minacce, nello stesso tempo ci astenevamo da ogni ricatto o rappresaglia, senza mai dimostrarci offesi delle loro brutalità. Così una parte di costoro incominciarono a calmarsi, poi a frequentare l'oratorio, e infine nell'eccellente condotta divennero gli esemplari di tutti. Degli altri che si ostinarono a minacciarci, alcuni, per delitti commessi, finirono in galera, e due furono impiccati nel circolo Valdocco vicino all'Oratorio di S. Francesco di Sales. D. Bosco andò a confortarli ed a confessarli in carcere ”.
Al Teol. Giovanni Vola successe il sacerdote Grassino, il quale pure, con tutto lo zelo possibile, promosse l'incremento di quell'Oratorio, poscia il Teol. Roberto Murialdo. Questo zelante e pio sacerdote torinese, coadiuvato dal suo degno cugino il Teol. Leonardo e dai catechisti che ogni festa D. Bosco gli mandava da Valdocco, continuò parecchi anni nel difficile incarico, e coi consiglio e colla mano proseguì a far prosperare d'assai quell'Istituto. Il numero dei giovani saliva spesso sino a 400 e talora oltre i 500 così che poco tempo dopo si dovette prolungarne la Cappella.
L'associazione o Cocca di Vanchiglia, la quale era ancora potente, aveva cessate le ostilità contro l'Oratorio, e molti anzi dei suoi affigliati lo frequentavano. Ma i Direttori di questo dovevano usare molta prudenza nel parlare e nel trattare con loro. Un'esortazione fatta in pubblico di staccarsi da quella biasimevole congrega, venuta immancabilmente a cognizione dei capoccia, avrebbe fatte rinnovare le violenze. D'altra parte era di molto diminuita la perversità della sua indole, per l'influenza esercitata dall'Oratorio; ma restava sempre lo spirito di solidarietà, che univa quelli dello stesso Borgo, e in qualche circostanza poteva diventar pericoloso.
Grandi e piccoli erano stretti in lega tale, che l'offesa fatta ad uno, era offesa di tutti, e tutti pronti a vendicarla. S'intende che ciascuno era fornito di coltello ed anche a serramanico. Una Domenica un giovanetto della Cocca aveva ricevuto uno schiaffo da un catechista, dimentico delle tante ammonizioni di D. Bosco, e la Cocca in massa non tardò ad irrompere furibonda nel cortile in cerca di quel catechista, il quale per fortuna riuscì a nascondersi. Nella Domenica seguente, temendosi qualche rappresaglia, i superiori cambiarono i catechisti e i chierici assistenti. Il sacerdote che in quel giorno ebbe l'incarico della direzione, così lasciò scritto: “ Nell'Oratorio dell'Angelo Custode si celebrava la festa di S. Luigi; ma in tempo della funzione era tale il baccano in cappella, da non permettere che si udissero distintamente coloro che cantavano in orchestra. Usciti appena di chiesa, ecco sopraggiungere una turba di giovanastri, che manomettendo i giuochi, con aria provocante passeggiava nel cortile. Alle finestre delle case dei dintorni si erano affacciate varie femmine da trivio, che si scambiavano parolacce cogli invasori da far vomitare i cani. Intanto io aveva raccolto in un crocchio i più piccoli, per impedire con un racconto che prestassero attenzione a quelle infamie. Precauzione inutile. Quelli della Cocca  vengono verso di me ed io sono costretto ad andar loro incontro. Essi mi circondano e con gesti di irritante dispregio muovono molteplici interrogazioni, che solo il diavolo potrebbe avere l'impudenza di fare. Come cavarmi d'imbroglio? Rimproverarli non era il momento, poichè essi cercavano un pretesto per attaccar briga. Perciò ricorsi ad uno stratagemma; siccome essi interrogavano in piemontese io presi a parlare in italiano, acciocchè si persuadessero che io non capiva il dialetto. Essi, dopo aver riso villanamente schernendomi, finalmente si tacquero, e mentre io credeva di tener un po' di ragionamento per indurli a migliori consigli, a un tratto sento odore di fumo. Avevano, quei che mi stavano dietro, messa sotto la mia veste della paglia dandovi fuoco. Rapidamente mi ritrassi di qualche passo, e con un piede spensi la fiamma. Essi erano un centinaio, e bisognava avere pazienza. A sangue freddo proseguii la mia conversazione, tenendo le braccia conserte; quando un ragazzetto di quattro anni, grazioso come un angiolo, penetra in mezzo al crocchio, mandato forse da suo padre che era presente, mi si avvicina e con mia meraviglia vedo che mi toglie prima da una tasca e poi dall'altra due fogli accartocciati di carta accesa. - Costoro a quel che pare mi vogliono bruciar vivo! pensai: e dopo aver chiamato consiglio alla Madonna, dissi: - Orsù abbiamo parlato abbastanza. Vogliamo fare una partita?
   - Adesso il prete vuol giocare! – si dicevano sogghignando a vicenda; - e a qual giuoco?
 - A correre alla barra rotta. Dividiamoci in due schiere. - Si tirò la sorte, e alla parte avversaria gridai: - Vi sfido!
Sul principio il giuoco fu un po' rimesso; quindi i miei competitori si misero nell'impegno di farmi prigioniero, ma non ci riuscirono neppure una volta. Ora un pilastro, ora un'altalena, ora un gruppo di giovani mi serviva per riparo e per dare di volta. Allora il giuoco diventò animatissimo: chi non giocava, stava spettatore. I battimani si succedevano. - Non corre troppo, dicevano di me, ma corre a tempo.
Venuta la sera, tutta la Cocca si dileguò, meno quattro dei caporioni. Invitai in porteria i quattro rimasti, e feci recare del vino. Essi mi guardarono fissi in volto e rifiutarono di bere. Quando mi avviai per ritornare in Valdocco ed era notte fatta, costoro si offersero di accompagnarmi. Accettai: lungo la strada si parlò dell'importanza di essere buon cristiano, senza far nessuna allusione a ciò che era accaduto; ma giunto alla porta di casa, essi mi presero la mano, la baciarono e mi dissero: - Perdoni gli sgarbi di quest'oggi! - E si allontanarono. Poveri figli! Di cuore, di intelligenza, ma guasti dalla malizia degli uni e dalla non curanza degli altri ”.
Questi disturbi, rari però, non impedivano che in quell'Oratorio le cose procedessero d'ordinario regolarmente, e il frutto che se ne ricavava per le anime non fu punto inferiore a quello che ottenevasi in Valdocco e a Porta Nuova. D. Michele Rua ancor studente e poi chierico e sacerdote, vi si recava per l'assistenza, pel catechismo, per la predicazione e gli altri uffici del sacro ministero, e sì vide sempre corrisposto dai giovani con tanta cordialità e confidenza da formare uno dei più soavi ricordi della sua vita. Egli e D. Giuseppe Bongioanni ne furono gli ultimi Direttori.
Così l'Oratorio dell'Angelo Custode continuò felicemente nel sito medesimo e sotto l'alta direzione di D. Bosco per circa venti anni. Il primo aprile del 1858 egli aveva rinnovata la locazione direttamente coi proprietari per nove anni, cioè fino al primo aprite 1867 per l'annuo fitto d 650 lire. Nel 1866 fu eretta la nuova parrocchia di Santa Giulia, fabbricata quasi tutta per opera della caritatevole Marchesa Giulia Barolo, e il sobborgo di Vanchiglia, staccato dalla parrocchia della SS. Annunziata, fu compreso nella circoscrizione di quella di Santa Giulia. La benemerita e ricca signora, fondando questa parrocchia, aveva lasciato pure per testamento che vi andasse unito un Oratorio per raccogliervi i giovanetti nella Quaresima e nei giorni festivi, destinando a tale fine un legato. Quando l'Oratorio di Santa Giulia fu aperto, D. Bosco scorgendo come uno pareva che bastasse al bisogno di quella regione, e non volendo che il suo comparisse come un contro altare a quello della parrocchia chiuse l'antico dell'Angelo Custode sul finir del 1866, applicandone i sacerdoti ed i chierici nell'Oratorio di S. Giuseppe in Borgo S. Salvario, dove maggiormente se ne sentiva il bisogno.
Dato così un breve cenno sul terzo Oratorio di D. Bosco in Torino non dobbiamo passare sotto silenzio una preziosa amicizia da lui contratta nel 1849, la quale continuò a tener acceso in lui un vivo pensiero verso le missioni evangeliche ai popoli infedeli e specialmente ai fanciulli dell'Africa.
Il Venerabile servo di Dio Nicolò Giovanni Battista Olivieri da Voltaggio in Liguria, mosso a compassione della sorte misera dei poveri bimbi di Africa, gementi sotto il giogo d'inumani padroni, ma tocco ancora più dallo stato Infelicissimo delle anime loro, aveva consacrato tutta la sua vita e le sue sostanze al riscatto dei moretti. Nel maggio del 1849 egli sbarcava a Genova, conducendo con sè dall'Egitto un certo numero di piccoli schiavi comprati, e avendo così consumato ogni suo avere si accingeva a viaggiare per l'Italia e per la Francia in cerca di elemosine per continuare quell'opera santa. Giunto a Milano colle sue morette, chiese qualcuno che lo accompagnasse a questuare, e un giovane e santo prete, D. Biagio Verri, accettò volentieri la proposta e prese ad aiutare l'opera del riscatto con abbondanti elemosine.
Ma il Verri in questo stesso anno aveva stretto amicizia con D. Bosco, ammirandone la santa vita, e di tempo in tempo soleva recarsi a Torino a passare qualche giorno nell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Mise quindi in relazione l'Olivieri con D. Bosco, il quale nel suo zelo desiderava di abbracciare tutto il mondo e convertirlo alla Fede. Infatti il 29 ottobre 1849 egli accettò in casa il moro Alessandro Bachit. Altri giovani mori nel corso degli anni ei riceveva dal Padre Olivieri acquistati sui mercati di Alessandria d'Egitto. Facendoli buoni cristiani non si può dire con quanta pazienza e con quante dimostrazioni di paterna tenerezza ei li trattasse; il che faceva a bello studio conoscendo quanto profondamente questi infelici soffrissero di nostalgia. Così D. Rua e D. Reviglio si adoperarono eziandio nel raccomandare le morette presso qualche Istituto di suore, e alcune ne fece accogliere ove sapeva che quali amate figliuole, avrebbero vissuto in santità tutti i loro giorni.
Per verità non era questo attualmente il campo di un suo vasto apostolato; tuttavia ben sì può dire il principio dì una missione per lui e per i suoi figli destinata dalla Provvidenza Divina. Infatti i giovanetti mori erano eziandio sempre l'oggetto delle sue aspirazioni; e nei sogni, come diremo poi, si vedeva circondato dalle turbe di questi, i quali a lui domandavano la salute eterna. E come preludio di questo avvenimento felice, nei nostri ospizi, e specialmente in quelli dei Brasile, i figli dei vecchi schiavi Africani siedono senza distinzione alla stessa mensa dei figli dei paese, mentre la Repubblica di Liberia in Africa e quella di Haiti nelle Antille chiesero a D. Bosco Missionari Salesiani per i loro giovanetti, ottenendo promessa che non sarebbero dimenticati.
Dirò ancora di più, che nell'Oratorio di Valdocco fu decisa la continuazione dell'Opera dell'Olivieri. Questo santo apostolo, invecchiato, stremato di forze, aveva bisogno di un compagno che l'aiutasse nella travagliosa sua missione e D. Biagio Verri sentissi ispirato a coadiuvarlo. Tuttavia prima di risolversi volle nell'orazione consultare Iddio per conoscere se era da Lui un tal desiderio. Senz'altro partì da Milano e venne a passare qualche giorno con D. Bosco. “ Fu qui nella nostra Chiesa di S. Francesco di Sales, scrisse D. Bosco, che il Verri risolvette di cooperare con l'Olivieri alla pia opera del riscatto. Una sera mi chiese licenza di passare la notte innanzi a Gesù in Sacramento, poichè aveva da chiedere a Lui consiglio. Stette in chiesa fino all'alba in continua e profonda orazione, e, quando le porte di questa si apersero, ne uscì fermamente deciso di consacrare la sua vita alla eterna salvezza dei piccoli schiavi ”.
La voce di Dio si era fatta sentire chiaramente in quella memorabile notte, e D. Verri, venduta ogni sua possessione e postone il prezzo in mano all'Olivieri, nel dicembre del 1857 partiva con lui alla volta dell' Egitto. Morto l'Olivieri in Marsiglia nel 1864, egli continuò l'opera santa e difficile del riscatto. Quanto egli abbia sofferto nei viaggi continui, nella sua estrema povertà, nel chiedere soccorsi ai fedeli di ogni parte d'Europa, nel collocare presso pii istituti quelle sue povere creature, mantenendone molte a proprie spese, nel sopportare con calma quelle indoli selvagge e talora resistenti alla carità, tornerebbe arduo pur il descriverlo. Basti dire che furono circa due migliaia le morette e i moretti da lui redenti, e ognuno d'essi gli costò 500 lire di sola compra. Ritornando in Italia più volte venne ancora all'Oratorio di Torino con i suoi moretti, e alcuni di questi vennero affettuosamente fatti accogliere ed istruire. Una giovane mora da lui condotta fu ricoverata presso le figlie di Maria Ausiliatrice in Nizza Monferrato.
Finalmente D. Verri, consumato da lunga e dolorosa malattia, giungeva dalla Francia in Torino il 23 ottobre 1884, e prese alloggio nella pia casa del Cottolengo, ove per un sfinimento apoplettico fu trasportato sul letto. Si fecero accendere candele alla Consolata e a Maria SS. Ausiliatrice; si cercò di vedere D. Bosco per raccomandare l'infermo alle sue preghiere, ma trovandosi pur egli ammalato, si lasciò quell'incarico ad un suo sacerdote. D. Bosco non potè recarsi presso al santo amico, il quale volava al cielo la notte che seguiva il 25 ottobre.
Nelle sue vesti, in un portafoglio gli si trovò un biglietto diretto a D. Bosco in questi termini.
 
Molto Rev.do D. Bosco,
 
Se il Signore le dà a conoscere cose gravi o cose piccole, che dispiacciano in oculis suis nell'anima del sottoscritto, noli, quaeso, abscondere a me sermonem tuum pro pace animae meae.
 
                                                                             2 Luglio 1882.
Devot.mo in Ges√π e Maria
D. Biagio  Verri
A. M. D. G.
   
                                                                             
 
P. S. Preghiera di due righe di risposta su questo foglio medesimo (al Cottolengo).
 
 
D. Bosco in calce del biglietto scriveva la risposta:
Bono animo esto, et vade in pace. Noli timere. Tale era il concetto che della santità di D. Bosco aveva un sacerdote di eroiche virtù, ed esaltato dal Signore di favori e fatti miracolosi, da essere persuaso che per mezzo di lui avrebbe conosciuti i reconditi giudizi di Dio.
 
 
 
 
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