Sessione straordinaria nell'Università per i diplomi d'insegnante nel ginnasio inferiore - Ricotti non ammette agli esami i chierici e i preti dell'Oratorio - Un suo viaggio provvidenziale alla campagna - Il Preside supplente ritiene valevoli i certificati del Seminario - Cinque diplomi di professore meritati da quei dell'Oratorio - Tre difficili ma splendidi esami di licenza liceale e nuove ammissioni all'Università - D. Bosco tiene in grande onore gli studi - I suoi alunni e i loro memorabili esami di licenza ginnasiale: testimonianze di illustri professori - Disgrazie e morte del Comm. Gatti.
del 01 dicembre 2006
  Intanto si avvicinava il tempo fissato alla sessione straordinaria nell'Università per coloro che volessero conseguire il diploma di professore delle tre prime classi ginnasiali. Si erano preparati con speranza di buona riuscita i sacerdoti D. Rua Michele, D. Fusero Bartolomeo, D. Ruffino Domenico; e i due chierici Bonetti Giovanni e Ballesio Giacinto. Essi avevano dato opera a preparare tutti i certificati necessari, ma fra questi si richiedeva quello di promozione all'esame di licenza liceale. I cinque aspiranti, avevano subito felicemente l'esame di Filosofia nel Seminario di Torino, il quale come abbiamo detto, per più anni erasi riguardato equivalente al liceale. Di questo adunque presentavano i certificati della Curia. Ma il Comm. Ricotti, Rettore dell'Università, il quale continuava ad avere prevenzioni contro l'opera di D. Bosco, non li riconobbe validi e non volle ammetterli. Forse egli e qualche altro provavano dispetto di aver dispensati dall'esame di licenza liceale i quattro ammessi al corso di lettere nel mese di luglio. Così svaniva la speranza che l'Oratorio e Mirabello potessero avere insegnanti legali.
Che fare? Il tempo incalzava, né vi era modo di avere altri certificati. Solamente la preghiera poteva spianare questa difficoltà, e di fatto la spianò. Qualche giorno dopo si venne a sapere che il Rettore era andato in campagna e perciò doveva succedergli a reggere l'Università, in sua assenza, il più anziano fra i presidi delle varie facoltà. E questi fu quello della facoltà teologica Serafino Angelo, professore di Teologia speculativa. Ritentata perciò la prova, il supplente, persona molto assennata e dabbene, visitate tutte le carte dei candidati dell'Oratorio, non credette accampare alcuna difficoltà. Anzi soggiunse: - In Seminario so che si fanno gli studi con maggior coscienza che in certi Collegi Governativi. Vennero ammessi tutti quanti. Gli esami furono dati dal giorno 15 al 20 settembre. Qualcuno riportò i pieni voti e gli altri ottennero votazioni molto soddisfacenti.
Era questo per l'Oratorio un secondo trionfo; ma D. Bosco toccando con mano che sarebbe stato impossibile nell'avvenire giovarsi dei certificati del Seminario per la filosofia, onde conseguire diplomi o farsi ascrivere all'Università, aveva deciso di presentare da qui innanzi i suoi alunni all'esame di licenza liceale.
E incominciò nel 1864, destinando a questa prova Jarac Tommaso Luigi, Perucatti Placido e Rinaudo Costanzo.
Egli però sapendo come avrebbe incontrato impedimenti al suo progetto pel malo animo de' suoi avversarii, andava da Nicomede Bianchi, preside allora del liceo del Carmine, per renderselo meno ostile. Come D. Bosco gli ebbe detto che veniva per raccomandare alla sua bontà tre alunni, egli, facendo pompa d'imparzialità, rispose che non poteva accettare raccomandazioni, e che l'unica raccomandazione possibile era la scienza e lo studio dei giovani esaminandi; la legge essere chiara; esso tenersi strettamente alla legge; i giovani adempiano a quanto prescrive la stessa legge e l'esito del loro esame sarà sicuro. D. Bosco ripigliò essere egli venuto a bella posta per supplicarlo di voler tutelare i giovani in conformità della legge stessa; se essere informato come nella commissione esaminatrice vi fosse qualcuno mal prevenuto contro i suoi alunni, quindi raccomandarsi alla conosciuta lealtà e rettitudine del preside, perchè dissipasse ogni pregiudizio dalla mente degli esaminatori: essere venuto pure per dare tutti quelli schiarimenti che fossero creduti necessarii sul metodo del suo insegnamento e sulla legalità dei suoi insegnanti; concludeva non aver bisogno di favori, non voler chiedere eccezioni, perchè era persuaso i suoi giovani non averne di bisogno.
 - Quando è così, osservò Nicomede Bianchi, la cosa non potrà andare che bene. Stia tranquillo, faccia coraggio ai giovani: ed io le assicuro che non saranno fatte parzialità di sorta. - Intrattenutosi alquanto e con molta affabilità a chiedere varie notizie intorno all'Oratorio, rinnovò le sue promesse quando D. Bosco prese congedo. Erano però sospette. Rinaudo infatti si presenta ai lavori in iscritto di lingua latina e questo lavoro è rigettato. Se ne chiede il motivo e si ha per risposta che essendo troppo ben fatto deve senz'altro essere stato copiato. D. Bosco negava quest'asserzione e per i suoi molti impegni Rinaudo fu ammesso all'esame verbale; ma quivi gli vien rimproverato quel lavoro come non fosse opera sua. Rinaudo assicura e protesta che è suo e dopo le sue vive istanze gli esaminatori decidono che rifaccia la composizione in quella stessa sala. Rinaudo prende subito la penna. Il tema era invariato. Lo rifà con nuovi argomenti, nuovo svolgimento di idee, nuove frasi, sicchè quella seconda prova riuscì di gran lunga migliore della prima. Allora gli esaminatori meravigliati furono costretti a promuoverlo con pieni voti. Anche per gli altri due l'esame fu molto severo, ma ottennero essi pure una bella promozione.
Tempo dopo questi tre si presentarono per l'esame d'ammissione al corso di Lettere e superarono con gran lode la prova. Questi fatti dimostravano, a chi voleva intenderla, come nell'Oratorio si tenessero in grande onore gli studi classici ed erano una smentita solenne a certe gazzette e a certi inquisitori.
E qui per dimostrare con quale ardore si studiasse nell'Oratorio, faremo una digressione. Negli anni seguenti altri alunni di D. Bosco si presentarono nei licei di Torino e destarono l'ammirazione degli esaminatori. Oltre a ciò D. Bosco, benchè allora non fosse obbligatorio l'esame di licenza ginnasiale, mandava non di rado sul finir dell'anno scolastico i più distinti de' suoi studenti a subire l'esame di Rettorica nei pubblici ginnasii, dove essi riportarono sempre splendide promozioni. Ne fece testimonianza anche il Professore Bacchialoni Carlo, Direttore del Ginnasio di S. Francesco di Paola. Quando poi l'esame di licenza ginnasiale venne imposto per legge, come necessario per entrare in liceo, tutti gli anni i giovani dell'Oratorio si presentavano in numero di trenta, quaranta e più agli esaminatori governativi, e riuscivano non di rado i primi, superando nei voti che ottenevano gli allievi di tutte le scuole pubbliche e private di Torino.
Il professore Antonino Parato, Direttore del Ginnasio Monviso, ora Massimo d'Azeglio, era pieno d'entusiasmo per la riuscita degli studenti dell'Oratorio, i quali in maggior numero erano esaminati dalla sua Commissione. Oltre essere diligentemente preparati su tutte le materie, un certo numero di essi, animati dai loro professori con qualche volumetto di premio, avevano studiato a memoria autori classici, prosatori e poeti. Lo studio era la loro occupazione continua.
Il suddetto professore ripetè molte volte a Don Celestino Durando, parlando di questi esami dei giovani dell'Oratorio, non potersi immaginare il vantaggio immenso che avevano causato agli alunni delle scuole civiche destando l'emulazione: questi però non essere riusciti a superar quelli.
Di tanto fiorire dell'Oratorio, evidente benedizione di Dio, ne erano spettatori quelli stessi che avevano ordinate od eseguite le perquisizioni. Di alcuni di costoro noi abbiamo narrate le sciagurate vicende che funestarono la loro vita; e qui non ci pare fuor di luogo il segnalate eziandio un avvenimento, nel quale si scorge la giustizia di Dio aver fatto pesare tremenda la sua mano sopra colui, che più colpevolmente attentò alla distruzione dell'Opera di D. Bosco. Narrando le disgrazie che gli accaddero, lo facciamo con profonda commiserazione e coll'unico scopo che servano di utile ammaestramento a chi legge e a quelle persone o pubbliche o private, che volessero opporsi alle opere di Dio.
Chi aveva spiegato contro l'Oratorio uno zelo veramente degno di miglior causa era stato il Cavaliere, indi Commendatore Stefano Gatti. Cominciò egli a darne prova sino dal 1860, come abbiamo a suo luogo narrato, e D. Bosco non fu di certo debitore alla sua benevolenza se allora e di poi le sue scuole non furon chiuse, e disperse più centinaia di poveri giovanetti dell'Oratorio. Sempre largo in parole di cortesia e promesse di protezione, in segreto fece tutto il male che potè. Si diede a pubblicare calunnie sui giornali ostili alla religione e alla morale. Richiese alcune copie della vita di Savio Domenico “ per edificarmi, scriveva, con quelle eroiche virtù ” ma in realtà per farne tema di burla e disprezzo, con molti articoli pubblicati nel giornale Astigiano detto Il Cittadino. Egli si argomentava di riuscire alla rovina dell'Oratorio, come pur troppo era riuscito alla rovina di molti altri Istituti non dissimili, ma il poveretto fu deluso nella sua speranza. Dal giorno che egli confuso, non trovando più la porta, andò a mettere il capo nell'armadio, pare che la fortuna gli volgesse le spalle, ed un poeta direbbe che quell'armadio fu per lui un vaso di Pandora, contenente tutti i malanni del mondo. Infatti alcun tempo dopo cominciò ad avere una dolorosa sventura nella sua moglie, che, rotolando da una scala, si ruppe tutta la vita.
Nel trasporto poi della capitale da Torino, indi da Firenze a Roma, il Gatti sperava di migliorare ancor la sua sorte, e la sua attività l'avrebbe meritato, ma egli aveva dei conti aperti colla divina Provvidenza; quindi è che, caduto in uggia ai superiori ed agli eguali non solo non progredì in carriera, ma ne andò discendendo ogni di più. Anzi, dopo alcun tempo, per le mene di un suo competitore, si vide financo privato d'impiego e posto in disponibilità. Questo inatteso contraccolpo, questo crudele disinganno influì sinistramente sopra le sue facoltà mentali; ed il pover'uomo si fece da prima cupo e melanconico; di poi ebete e folle, e infine perdette affatto il bene dell'intelletto. In questo stato ora piangeva come un ragazzo, ora smaniava come un energumeno, sicchè muoveva alla più alta compassione quanti lo vedevano e lo udivano.
Avendo sempre innanzi l'ombra del suo nemico, non rifiniva di gridare: Ah! mi hai rovinato. Più volte tentò suicidarsi.
Condotto ad una casetta presso Felizzano, sua patria, che in altri tempi gli aveva servito di amena villeggiatura, invece di migliorare, il mentecatto peggiorò al pulito che divenne furioso. Colà, in un momento di maggiore alienazione, diede un terribile calcio alta sua povera consorte, e poscia presala per la testa, la sbattè più volte e sì fortemente nel muro, che l'uccise, sfracellandole il cranio. Poco dopo finiva egli pure sua vita, privo di ogni umano conforto.
Potremmo qui rammentare la catena dolorosa delle sventure piombate sul capo di quelli che più irosamente assaltarono l'esistenza dell'Oratorio; ma facciamo punto per ora, bastando il sin qui esposto a raffermare il giudizio già espresso altrove, cioè che parve Iddio aver promesso anche a D. Bosco quello che già prometteva al patriarca Abramo: - Benedirò quei che ti benedicono e maledirò quei che ti maledicono: Benedicam benedicentibus tibi, et maledicam maledicentibus tibi.
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