Capitolo 6

D. Bosco manda alunni studenti al Cottolengo - Le prime tre classi ginnasiali nell'Oratorio - Avviso ai maestri ed agli assistenti - Conferenza a tutti i chierici - Assistenza continua e prudente agli alunni - I giovani attorno a D. Bosco nell'ora della sua refezione - Le scuole di filosofia ed un inconveniente - Le massime eterne ricordale ai giovani - La vita dei Papi dal pulpito - Predica di S. Cecilia - Morte dell'Abate Aporti.

Capitolo 6

da Memorie Biografiche

del 30 novembre 2006

 Si è all'apertura dell'anno scolastico 1858 - 59. Compiute le accettazioni di nuovi alunni, accolto Albera Paolo, di None, destinato da Dio ad essere uno dei primari Superiori della Pia Società, Don Bosco continuava eziandio a far scelta di giovanetti per la classe degli studenti al Cottolengo, accompagnandoli con un suo biglietto. Uno di questi è a noi pervenuto diretto al Sig. Ch. Frattini, assistente dei Tommasini nella piccola casa della divina Provvidenza.

 

Carissimo Frattini,

 

Il giovane Meotti Antonio è venuto a vedere se avvi qualche speranza per lui nella casa della divina Provvidenza. Tu lo puoi vedere, presentarlo alla bontà del vostro Venerato Sig. Padre, e poi farai ciò che meglio al Sig. Padre e a te sembrerà nel Signore.

Il padre del ragazzo è disposto di pagare f. 10 mensili.

Dio benedica te e le tue fatiche, prega per me che ti sono, di cuore.

Da casa, 22 ottobre 1858.

                                                                                                   Aff.mo

Sac. Bosco Giovanni.

 

 

Nell'Oratorio gli studenti di umanità e di rettorica continuavano ad andare alle scuole di D. Picco. In casa professore della prima classe ginnasiale fu il Ch. Pettiva Secondo, della seconda il Ch. Turchi Giovanni, della terza il Ch. Francesia Giovanni.

D. Bosco al principio, e più volte nel corso dell'anno, soleva fare conferenze agli assistenti e ai maestri di scuola e di laboratorio, inculcando vivamente il pensiero dell'anima dei loro allievi; e diceva: - I nostri giovani vengono all'Oratorio; i loro parenti e benefattori ce li affidano coll'intenzione, che siano istruiti nella letteratura, nelle scienze, nelle arti e ne' mestieri; ma il Signore ce li manda, affinchè noi ci interessiamo delle loro anime, ed essi qui trovino la via dell'eterna salute. Perciò tutto il resto deve da noi considerarsi come mezzo; e il nostro fine supremo farli buoni, salvarli eternamente.

Di una di queste conferenze, fatta a tutti i chierici dell'Oratorio verso il fine del 1858, conservossi memoria per iscritto.

Io qualche volta ho piacere di parlare a tutti i figli dell'Oratorio, alcune volte a quelli soltanto della casa, spesse volte ai soli studenti o ai soli artigiani, talora poi in particolare ai Chierici.

Oramai possiamo dire che il nostro anno scolastico è incominciato e perciò io bramo assai di incominciare, come facevamo l'anno scorso, ad intrattenermi qualche poco con voi, almeno una volta alla settimana. Il momento più prezioso che possiamo avere si è a quest'ora dopo le orazioni. Io non voglio qui farvi una predica; quel che voglio dirvi, ciò che desidero con tutto il mio cuore, ciò che vi raccomando si è, che voi mettiate in pratica quello, che fu tante volte raccomandato da S. Paolo, anzi che Dio stesso raccomandò a Mosè, allorchè discendeva dal monte. Siate modelli, siate veri modelli a tutti i figli dell'Oratorio. Voi dovete essere come tante false righe sulla cui traccia devono scrivere e camminare tutti gli altri figliuoli. Perciò dovete regolarvi in modo, che gli altri specchiandosi in voi possano restare edificati. Dovete procurare non solo di giovare altrui coi consigli, ma colle opere, coll'esempio. Che vale che voi raccomandiate agli altri che frequentino i SS. Sacramenti, se vedono che voi li frequentate poco? Se vi vedono divotamente accostarvi ai Sacramenti, se vi vedono composti e modesti in chiesa, oh! allora sì che dal vostro esempio potranno attingere onde alimentare le anime loro. Se per cattiva sorte udissero un chierico fare discorsi non troppo modesti, che si lascia sfuggire qualche paroletta, che sia alcun poco oltraggiosa della bella virtù della purità, ahimè, ahimè, che danno, che scandalo! Dice S. Giovanni Grisologo che un ministro del Signore è simile ad una pianta. Oh! che bel vedere fa, dice questo santo, una pianta in un bel giardino tutta circondata da siepi, che spande i suoi frondosi rami carichi di ottimi frutti. Chiunque le si avvicina resta soddisfatto dal vedere i rami così ricchi di bei frutti. Al contrario ponetemi questa pianta che alta e superba invita a sè tutti quelli che la mirano, in un vago giardino, ma scarsa affatto di bei frutti, allora vedrete che tutti sdegnati non potranno a meno che maledirla perchè occupa inutilmente un così vago luogo. Tali siamo noi. I popoli volgono a noi gli occhi e aspettano frutti buoni e se non vedono alcun frutto, oh! quale scandalo ne prenderanno! S. Ambrogio ci assomiglia alla luna. Egli dice che noi dobbiamo essere tante lune. La luna non splende di luce sua propria, ma la piglia dal sole, se ne serve per lei, quindi la dona alla terra. Così siamo noi. Noi del nostro abbiamo niente, ma dobbiamo ricevere dal sommo Iddio, dal sole di giustizia quella divina parola, che illumina le menti, e dopo essercene serviti per nostra santificazione, dobbiamo spargerla per illuminare tutti gli uomini, i quali aspettano di essere da noi indirizzati sulla via, che li conduce al cielo. Sant'Agostino soggiungeva: Volete voi sapere che cosa indichi quella toga con cui si vestono i giovani Romani? Non credete già che significhi essere entrato quel giovane nei 17 anni; non indica soltanto questo; ma bensì che sotto quella toga vi è la scienza, vi è la virtù, vi sono tutte quelle buone doti di cui debbono essere adorni coloro, che la vogliono indossare. Così è pur di noi. Sotto questo abito noi dobbiamo portare quelle virtù, che merita un abito sì divino. Giosuè doveva passare il Giordano. Dio gli disse: - Manda innanzi i sacerdoti coll'arca: entrino nel fiume tenendola sulle spalle e le acque del Giordano si divideranno ed il tuo esercito passerà. - Così fecero i sacerdoti, e le acque si divisero; le superiori si alzarono come un alto muro, le inferiori, proseguendo il loro cammino, lasciarono asciutto l'alveo, e tutto l'esercito d'Israele passò al di là del Giordano. Così dobbiamo pur far noi. Noi dobbiamo coll'arca della Divina alleanza, colla S. Religione, con buone massime, con amorevoli parole, con santi esempi fare in modo, che gli uomini sani e salvi passino da questo mondo all'eternità. Adunque facciamo tutto quello che possiamo per fare del bene alle anime. Intorno a voi vi sono molti giovani che vi tengono d'occhio continuamente, adoperatevi con tutto il vostro potere per bene indirizzarli e col buon esempio e colle parole, e coi consigli e cogli avvertimenti caritatevoli. Se così fate in quest'anno, sebbene il numero dei chierici non sia più grande di quello degli anni scorsi, io sarò tuttavia contento; ed il Signore non potrà a meno che benedire me, voi e tutta la casa, continuando come sempre ha fatto, ad aiutarci col potente suo braccio, prosperando tutte le nostre fatiche. Amen. Così sia.

 Nelle conferenze non stancavasi di raccomandare loro l'assistenza coscienzosa dei giovani, poichè pretendere che le debolezze umane non valicassero le soglie dell'Oratorio, sarebbe stato un disconoscere il mondo. Ed egli ne dava loro l'esempio. Vegliava sempre come sentinella costante, ma prudente, al fine di prevenire il male, o vincerlo qualora avesse gettato qualche radice nella casa. Nei primi venti anni dell'Oratorio compariva dappertutto e talora quando meno era aspettato. Nelle camere, nei laboratori, nelle scuole, nei refettori, nei luoghi meno osservati e più reconditi. Osservava anche le minime cose. Voleva sapere tutto e vedere tutto.

Due giovani dopo il pranzo si fermavano soli nel loro refettorio per alcuni istanti esaminando il libro della lettura. Erano stimati buoni; ma ecco la voce amorevole di D. Bosco che li chiamava.

Altri si erano appartati da tutti per intrattenersi di qualche loro progetto, o preparando una merenda, o qualche giuoco di quattrini, e D. Bosco all'improvviso sopraggiungeva: - Che cosa fate qui? Andate in ricreazione coi vostri compagni.

Un allievo passeggiava tenendo per mano un compagno o mettendogli un braccio sulla spalla. D. Bosco gli si avvicinava e scherzando gli dava un colpo sul braccio o sulle dita, dicendo: - Sapete la regola di non mettervi le mani addosso? Giuochi di mano, giuochi da villano.

Un giorno vide un giovanetto che nel cortile aveva, intrecciato il suo braccio con quello di un assistente, il quale lasciò fare. Egli attese che quel chierico fosse solo e chiamatolo allora a sè: - Oggi, gli disse, ebbi una forte tentazione di darti due schiaffi in pubblico! Hai capito?

 - Sissignore!

 - E ciò mi basta: e tu sta attento.

Su questo punto D. Bosco era delicatissimo.

In molti casi la sua vigilanza era inesplicabile e pareva splendesse in lui una speciale virtù visiva, della quale ci riserviamo a dare più ampie spiegazioni. Spesse volte mentre era tutto occupato nello scrivere o nel pregare in chiesa, o intrattenendosi, coi giovani, o anche in tempo della refezione, a un tratto chiamava a sè uno de' suoi anziani e dicevagli segretamente: - Va nella tale camerata; vi sono tre (e faceva i nomi) che, chiusa la porta, leggono un giornale poco buono: di' loro che escano subito.

Altra volta ad un allievo giudizioso: - Corri a dire all'assistente che nel tal luogo, dietro ai portici, vi sono alcuni nascosti. Che li faccia saltar fuori.

Poi altre volte ancora a qualche chierico: - Ascendi in cima alle scale, troverai il tale e il tale. Di' loro che D. Bosco sa tutto.

Questi fatti si rinnovarono non di rado e sempre si verificava aver D. Bosco indovinato e luoghi e persone e circostanze. Ma comunque egli esercitasse l'uffizio dell'Angelo Custode, ne imitava la discreta e paziente condotta. Per i pretesti più naturali del mondo che coonestavano le sue apparizioni, per la sua bontà e semplicità, per le continue dimostrazioni di affetto e di stima verso di tutti senza eccezione, per l'oblío di mancanze scoperte e perdonate, non si destava nei giovani nessuna diffidenza. Infatti bastava che egli si presentasse in qualche luogo della casa perchè corressero intorno a lui.

Commovente spettacolo accadeva tutti i giorni dal principio della fondazione dall'ospizio fino circa al 1870 dopo il pranzo e specialmente dopo la cena, quando per caso non vi fosse qualche forestiere di riguardo nel refettorio dei superiori. Era questo una sala sotterranea lunga e bassa con una semplice fila di tavole in mezzo. Gli alunni venuti fuori del loro refettorio si accalcavano nel vestibolo di quello di D. Bosco, aspettando che i chierici avessero finita la preghiera del ringraziamento; e non appena udivano il Dominus del nobis suam pacem, Amen, urtata la porta, si precipitavano entro. Qui succedeva un grazioso scontro, si licet parva combonere magnis, simile a quello dell'Orenoco col flusso dell'Atlantico. I giovani volevano entrare, i chierici uscire, ma dopo qualche istante prevalevano i giovani, che gareggiavano a chi primo arrivasse presso a D. Bosco seduto all'estremità della sala in fondo. I chierici erano obbligati ad appoggiarsi ai muri laterali per lasciarli passare e non essere travolti. Qui accadeva una scena inesprimibile. I più fortunati si sono già stretti a D. Bosco in modo che i più vicini appoggiano il loro capo sopra i suoi omeri. Dietro a lui si vede una siepe di faccette allegre, che gli fanno larga spalliera. Intanto è presa d'assalto la fila di tavole, che prima erano state sparecchiate in fretta, e su quella innanzi a Don Bosco, varie file di giovani seduti colle gambe incrociate a mo' degli orientali; dietro a questi molti altri inginocchiati, in ultimo, sempre sulle tavole, una turba in piedi. Chi non vi può salire, prende le panche, le accosta ai muri e vi monta sopra; ed ecco due lunghe file di occhi vivaci, che si fissano in D. Bosco. I più tardivi riempiono tutto lo spazio tra le panche e le tavole. Sembra che nessuno possa più giungere ad avvicinare D. Bosco; eppure alcuni piccolini tentano la prova. Si mettono a correre carponi sotto le tavole ed ecco le loro testoline sporgere tra la tavola e la persona di D. Bosco, che faceva loro una carezza.

Sovente D. Bosco essendo stato trattenuto in camera dal lavoro, aveva incominciato solo allora a prendere un po' di cibo. Eppure li accoglieva con festa e, assordato dai loro canti e dalle grida, in quell'ambiente respirato da tanti petti, che a stento rimaneva acceso il lume, finiva il suo povero pasto, rivolgendo un sorriso affettuoso, uno sguardo affabile, un motto d'incoraggiamento agli uni ed agli altri. Non si mostrava mai contrariato dall'insistente importunità de' suoi figli; anzi provava rincrescimento, quando qualche visitatore non necessario veniva a rubargli la dolcezza di questi famigliari trattenimenti.

Talora faceva atto di voler parlare a tutti, ed all'istante cessava quella confusione di voci, e in mezzo al più profondo silenzio narrava un breve aneddoto, proponeva una questione, faceva un'interrogazione, finchè la campana scioglieva l'assemblea coll'invito alla scuola di canto o alla preghiera.

La confidenza dei giovani non riceveva adunque alcun scapito dalla continua vigilanza del superiore, pi√π gradita di quella di altri assistenti.

Intanto anche per i chierici erano incominciate le scuole del Seminario, sempre occupato dall'autorità militare, che aveva lasciato libero un solo, ma ampio ammezzato per la classe degli studenti di teologia. Quindi i professori dei corsi filosofici davano lezione nelle loro case private in ora però troppo mattutina e non comoda per gli allievi. Perciò D. Bosco, con una lettera rispettosa, si rivolgeva al Rev.mo Canonico Vogliotti, Provicario diocesano e Rettore del Seminario.

 

Ill.mo Sig. Rettore,

Mi raccomando alla nota di Lei bontà, per un favore che riguarda ai nostri chierici Filosofi. L'ora attuale della scuola li mette in disaccordo coll'orario della casa specialmente per la messa.

Se i signori Professori T. Mottura e C. Farina volessero aver la bontà di trasferire il principio della scuola alle 9 matt. sarebbe tutto aggiustato.

Qualora però tal cosa incagliasse le occupazioni dei prefati signori, mi aggiusterei in qualche modo per uniformarmi alle loro lezioni.

Sempre con pienezza di stima e di gratitudine mi professo.

Di V. S. Ill.ma

Da casa, 16 novembre 1858.

Obb. servitore

Sac. Bosco Giovanni.

 

Ma a questo e ad altri inconvenienti, che potevano pur riuscire di scapito alla necessaria vigilanza, D. Bosco rimediava colla potenza della sua parola. Le massime eterne erano infallantemente quelle, che per le prime faceva risuonare all'orecchio dei nuovi alunni. Una sera del mese di novembre, nel 1858, Reano Giuseppe raccoglieva dal labbro di D. Bosco e ci tramandava la sua parlata: - Due cose solo io temo: il peccato mortale che dà la morte all'anima, e la morte corporale che sorprende chi si trova in disgrazia di Dio. - Quindi fece pausa per l'estrema commozione che lo agitava e dopo qualche istante ripigliò: - Io temo che qualcheduno de' miei figli non abbia ad essere vittima della propria trascuranza nelle cose dell'anima! E la morte non risparmia nessuno. Dal principio del mondo fino ai giorni nostri quanti patriarchi, principi, re, conquistatori (e alcuni ne andava enumerando) fecero la loro comparsa sulla terra e scesero nella tomba con tutte le moltitudini dei popoli loro contemporanei! Miliardi di uomini che ora sono polvere! Persuadiamoci, cari giovani, che verrà anche per noi il giorno della morte ed essa verrà come un ladro! Quando uno meno ci pensa, penetra in casa e lascia cadere la falce sul filo della vita…… Aggiustiamo pertanto i nostri conti col fare una buona confessione……..

La morte non fa anticamera da nessuno, nemmeno dai re, dai papi  Attenti!… Mors non tardat… E poi?…L'eternità!… -

E il santo timor di Dio, ispirato dalle parole di Don Bosco, era guida e freno alla condotta dei giovani, li addestrava a robuste virt√π e li rendeva degni della protezione di Maria SS.

Anche l'amore alla Chiesa e al Papato si manteneva sempre vivo ne' loro cuori colla narrazione delle vite dei Papi, che D. Bosco teneva ogni Domenica mattina. Giunto a tratteggiare la vita di S. Urbano I, si dilungò per ben tre feste consecutive a descrivere l'eroismo di S. Cecilia. Conoscendo D. Bosco perfettamente la topografia di Roma imperiale, le costruzioni de' palazzi patrizii, de' loro atrii, portici, sale, fontane, e i costumi degli antichi Romani, li sapeva rappresentare al vivo alle fervide immaginazioni dei suoi uditori. Un di questi ragionamenti il Ch. Bonetti Giovanni volle far la prova a riportarlo in carta, e questa dopo circa trent'anni a noi la rimetteva. Scrisse ciò che ricordò, ma è sufficente per dare un saggio del metodo descrittivo e dei dialogi, che D. Bosco usava adoperare in pulpito, giovandosi di ogni più piccola circostanza, onde abbellire con frutto i suoi ragionamenti.

Ne giudichi il nostro lettore.

Sotto l'Imperatore Alessandro Severo la Chiesa dovette sostenere una furiosa persecuzione. Papa Urbano I per schivare tutti i pericoli erasi ritirato nelle catacombe, in un luogo lontano tre miglia da Roma. Queste catacombe sono luoghi sotterranei dove si seppellivano i corpi dei Santi martiri e dove in tempo di persecuzione si nascondevano i cristiani. Viveva in quei tempi una donzella appartenente ad una delle prime famiglie di Roma. Questa chiamavasi Cecilia e professava celatamente la religione cristiana, poichè i suoi parenti erano idolatri. Essa amava molto la musica e suonava gli organi, istrumento differente da quello usato ora da noi; cantantibus organis Caecilia Domino decantabat. Cantava lodi al Signore, nulla bramando di più che intrattenersi col suo Dio e dirgli: Sia sempre il mio cuore immacolato, perchè io non resti confusa. Questa giovane erasi consacrata con voto a Gesù Cristo, a lui promettendo di mantenersi vergine per tutta la vita. Intanto i suoi genitori avevano pensato di accasarla con un giovane di alto lignaggio di nome Valeriano. Appena Cecilia udì che i parenti l'avevano promessa ad uno sposo terreno, non poco si conturbò e pensava tra sè il modo di sbrigarsi da questo imbroglio. Essa se ne stava sempre ritirata nelle sue camere, sfuggiva gli spettacoli ed aveva sempre con sè di giorno e di notte i santi vangeli, che formavano la sua delizia. Pregava continuamente il Signore perchè l'aiutasse in quel frangente; ed ecco che si sente tutta piena di coraggio ed ispirata ad abbandonarsi con vera fiducia nelle mani del suo diletto sposo Gesù; ed esclamò: - Sono felice e sicura: so io quello che debbo fare ! - Intanto si avvicinava il giorno delle nozze. Venne Valeriano a trovarla ed ella trattolo da parte gli disse: - Valeriano, ho un segreto da manifestarti! -

Valeriano premurosamente rispose: - Di pure, o Cecilia, ciò che vuoi, giacchè io ti sarò compagno fedele.

 - Io te lo confiderò, ma tu promettimi di non palesarlo ad alcuno.

 - Palesami pur tutto, che nessuno saprà mai da me il tuo segreto.

Allora Cecilia così gli disse: - O Valeriano, io mi sono consacrata ad un'altro sposo, ad uno sposo celeste. Se tu venissi mai a recarmi qualche offesa, io ho un Angelo che sempre mi custodisce, il quale all'istante ti fulminerebbe.

 - Tu hai un angelo che sempre ti sta a fianco? ma io nol vedo.

 - Vuoi tu vederlo?

 -   Lo bramo ardentemente.

 -   Se tu vuoi vedere il mio angelo devi prima credere in Gesù Cristo figliuolo di Dio, il quale per salvare gli uomini discese dal cielo sulla terra e versò tutto il suo sangue per noi. Tu devi credere che vi è un Dio solo creatore del cielo e della terra e di quanto avvi in cielo e in terra: che questo Dio premia i buoni e castiga i cattivi. Quindi lavarti colle acque purificanti e solo dopo questo lavacro potrai vedere il mio angelo.

Valeriano che non aveva mai udito parlare di Gesù Cristo e pieno di desiderio di veder l'Angelo: - Ma da chi, esclamò, io debbo andare per farmi purificare ?

E Cecilia: - Se tu veramente ami di essere purificato, va lungo la via Appia lungi tre miglia da Roma tertio ab urbe lapide. Là vedrai dei poveri che ti chiederanno la elemosina. Tu di loro: “Dov'è il venerando vecchio?” Essi subito ti insegneranno dove esso si trova e a lui ti condurranno. Quando egli ti abbia purificato, ritornerai e vedrai il mio Angelo.

Così egli fece. Quella parola venerando vecchio era la parola d'ordine dei cristiani per indicare il Papa, e perchè i gentili non sospettassero il ricovero di Urbano I. Valeriano giunse al terzo migliario e quivi trovò quel gruppo di poveri, i quali non erano tali, ma cristiani così trasvestiti:

 - Dov'è il venerando vecchio ? disse loro: - Vieni con me, gli rispose uno di quei poveri; seguimi! - Poco distante vi era l'entrata di una caverna, celata da un gruppo di alberi e da vermene pendenti. Rimossi i rami Valeriano seguiva la guida in un andito oscuro. Quivi la guida presa una lampada, l'accese e ambedue si misero in cammino per uno stretto corridoio, e fatti alcuni giri e imboccata una scala ripida, che scendeva nelle viscere della terra, si trovarono ben presto ai piedi di essa. Qui incominciavano le catacombe, ossia il luogo dove si seppellivano i martiri, le quali tengono un estensione immensa di miglia e miglia. Valeriano si avanzava per quella galleria, nella quale sbucavano centinaia di altri corridoi: la lampada della guida illuminava con scarsa luce quei sotterranei. A destra e a sinistra si vedevano, le une sopra le altre, incassate ne' loculi del muro le tombe dei martiri, le quali avevano sulle lapidi scolpiti o dipinti i segni del loro martirio. - Costui, diceva la guida, indicando la tomba, ebbe il capo tronco dal carnefice; quest'altro fu sbranato dalle belve feroci nell'anfiteatro: quello fu arso a lento fuoco: questi morì essendogli stato colato in bocca il piombo liquefatto. - E così continuava ad accennargli i varii generi di supplizi, verghe, graticole, croci, coi quali coloro che dormivano in quei sotterranei avevano confessato G. Cristo. I cristiani in mezzo a quelle tombe gloriose tenevano le loro assemblee, celebravano i loro riti e spesse volte mangiavano e dormivano. Valeriano nel vedere quei trofei di virtù così sublime, della quale ancora non conosceva il pregio, quasi sveniva per l'orrore e pensava fra sè: - Povero me; in qual luogo son venuto a gettarmi! - Nulla di meno si fece coraggio e continuò il suo cammino. Giunse finalmente ad un luogo alquanto spazioso, ove si incrociavano varie gallerie, il quale luogo presentava l'aspetto di un tempio. Colà eravi un altare, molte lampade accese e una folla di cristiani, che assistevano alle sacre funzioni. La guida condusse subito Valeriano presso il Pontefice Urbano, che sedeva sopra una cattedra circondata dal clero. La fisionomia, del Papa, improntata di benevolenza, il suo sguardo sereno, affettuoso, confortò non poco Valeriano. Il Papa scorgendo questo sconosciuto, che non si era ancora pienamente rimesso dal suo sbigottimento, con dolce ed amorevoli parole gli fece animo e quando gli domandò per qual fine avesse chiesto di lui, Valeriano rispose: - Io sono sposo di Cecilia. Essa mi narrò come al suo fianco stesse un Angelo invisibile a sua difesa. Io desideravo di vedere quest'angelo del cielo ed ella mi rispose, che per vederlo bisognava che venissi da te e mi facessi purificare.

Quando Urbano intese il nome di Cecilia e che era dessa la quale aveva mandato a lui Valeriano, tutto commosso si prostrò per terra e pregò. Tutti i Cristiani avevano imitato il Pontefice e pregavano. Quand'ecco all'improvviso apparisce un vecchio venerando, con un'aria maestosa, imponente, celestiale. Valeriano intese essere quello un personaggio soprannaturale, e colto da spavento cadde per terra. Chi era costui ? Egli era l'apostolo S. Paolo comparso per confortare Urbano nelle sue tribolazioni e per incoraggiare Valeriano.

 - Alzati Valeriano, e sta di buon animo! - disse S. Paolo. Valeriano uomo di guerra e pieno di coraggio, pure in quell'istante tremava come un fanciullo. Sentendosi chiamar per nome, alzò alquanto il capo, diede uno sguardo a quell'essere misterioso e poi si levò in piedi. Allora S. Paolo gli presentò un libro dicendogli - Leggi! - Valeriano aperse il libro e vi lesse queste parole: Una sola legge, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra; un solo signore e redendolo, Gesù Cristo.

 - Credi tu queste cose? - gli disse S. Paolo.

 - Sì, le credo con tutte le forze dell'anima! - rispose Valeriano.

 - Se tu le credi puoi ricevere il santo Battesimo e quindi recarti da Cecilia e vedere l'Angelo. - Ciò detto S. Paolo disparve.

Allora Papa Urbano amministrò al convertito il S. Battesimo, lo vestì della veste candida e, siccome appena appena spuntava l'alba, così vestito lo rimandò a Cecilia.

Valeriano giunto alla porta del palazzo di Cecilia, assediata da numerosi clienti venuti per augurare il buon giorno al padrone e ricevere la sportula, senza trovare a quell'ora nessun ostacolo dai servi ostiarii, s'innoltra negli atrii e va direttamente alla camera della santa vergine. Quivi si arresta vicino alla soglia e solleva alquanto la tendina, che velava l'entrata. Quale spettacolo contemplarono i suoi occhi! Cecilia inginocchiata pregava e accanto a lei ritto in piedi il suo Angelo. Quell'Angelo risplendeva di una luce, che, come un sole, illuminava quella camera. La bellezza del suo volto, la ricchezza delle sue vesti, il magnifico variopinto colore delle sue ali, era tale che non è dato a lingua umana di farne la descrizione. Le ali vicino alle spalle incominciavano con ogni sorta di intrecci mirabili di lavoro divino e terminavano alle estremità con vivissimi colori simili a quelli dell'iride. A tal vista Valeriano esitava se entrar dovesse, ma già quasi avvezzo alla presenza degli abitanti del cielo, per l'apparizione veduta poc'anzi di San Paolo, si fece animo ed entrò. Subito andò a porsi in ginocchio accanto all'Angelo, cosicchè l'Angelo restava in mezzo fra Cecilia e Valeriano. Valeriano sebbene fosse tutto pieno di fervore, tuttavia abbagliato da quella luce sfolgorante, a stento pregava e la sua attenzione restava alquanto distratta dal celeste personaggio. Dopo che ebbe fatta un po' di preghiera, ecco l'Angelo trarre fuori due bellissime corone di rose e metterle una sul capo di Cecilia e l'altra sul capo di Valeriano. Disse quindi: - Conservate, o giovani, queste corone, che vi ho recate dal giardino del Paradiso, colla purezza del cuore e colla santità della vita. Le vostre preghiere sono state esaudite davanti al Signore: chiedete pure quel che desiderate e vi sarà concesso. Allora Valeriano: - Ti chiedo la conversione di mio fratello Tiburzio.

 - Se questo solo brami rispose l'Angelo, ti è già concesso e disparve.

In questo mentre si ode il passo di Tiburzio, che si avvicina alla porta, ed entra: - Oh! che deliziosa fragranza io sento in queste sale! Da quali fiori, da quali aromi si spande tale odore? In vita mia non ho mai sentito il simile.

Allora Valeriano: - Lo sappiamo ben noi donde viene. Devi sapere che un momento fa discese un angiolo dal cielo e mise due corone di rose sui nostri capi.

 - Ma dove sono che io non le vedo? esclamò.: e intanto guardava di qua, guardava di là e vedeva nulla. - Dove sono adunque queste rose che voi dite? Sento l'odore, ma le corone, che bramerei di contemplare, non le vedo. - E non poteva darsi pace.

Allora Cecilia: - Se tu vuoi vedere queste corone, prima devi credere che vi è un solo Dio creatore del cielo e della terra, che questo Dio ha mandato dal cielo il suo divin figliuolo Gesù, il quale fondò una religione tutta santa, tutta pura; e poi devi essere lavato da un acqua, che purifichi da tutte le macchie l'anima tua.

 - Come? Vi è ancora altro Dio più potente degli dei di Roma?

Gli rispose Valeriano: - O Tiburzio, ben mi stupisco che tu con tutta la tua scienza creda che i nostri idoli siano potenti! Essi son fatti dagli uomini!

 - È vero ciò che tu dici; ma chi è costui chè mi darà quest'acqua ?

Egli è un vecchio venerando, che si chiama Urbano.

 - Come Urbano? Quello che odo chiamarsi Papa dai Cristiani?

 - Appunto.

 - Oh non sono così stolto da presentarmi a costui. Se io fossi scoperto dai pretoriani, sarei subito condotto alla morte. E poi corrono voci così sinistre sul conto dei cristiani.

- Calunnie dei tristi, o mio caro. Urbano è un angiolo. Un uomo più affettuoso, più semplice, più dotto non l'ho mai incontrato da che vivo. Va, vedilo, parlagli e sarai contento.

 - A quel che pare tu forse.... ma non è possibile.... Io son giovane.... voglio godere la vita.... non sai che la morte sta sul capo di chi tratta coi cristiani?.... No; io non andrò giammai da Urbano.

 - Aspetta, o Tiburzio, aspetta. Questo tuo timore sarebbe ragionevole, se noi avessimo a vivere solamente in questo mondo, se colla morte per noi tutto finisse. Ma tu devi sapere che, l'anima nostra è immortale, che quel Dio onnipotente, che ha fatto il cielo e la terra, ha altresì creato un paradiso, dove si gode eternamente una felicità inesprimibile da coloro soltanto che l'avranno servito in questa vita; ma devi sapere eziandio, che vi è un luogo dopo la morte dove si soffrono tutti i tormenti che puoi immaginarti e per tutta l'eternità, da coloro che questo Dio non vollero conoscere, adorare, amare ed obbedire.

 - E chi mai può assicurarmi che vi sia un'altra vita ?

Cecilia prese la parola ed essendo molto istruita recò le prove tratte dalla ragione, dalla rivelazione e dagli stessi autori pagani per dimostrare l'esistenza della vita futura, la felicità eterna che aspetta i giusti, la miseria eterna nella quale cadranno gli iniqui. Tiburzio che aveva ingegno e cuore, coll'aiuto della grazia di Dio, intese la forza di questi argomenti, fu persuaso, e disprezzando la morte: - Se la è così esclamò, ditemi dov'è Urbano e subito vi andrò, acciocchè ancor io possa guadagnarmi la felicità eterna e sfuggire l'eterna morte.

Allora Valeriano gli disse: - Vieni ed io ti condurrò. Sta, certo che dopo quel lavacro salutare tu proverai una gioia, che tale hai mai provata e mente umana non può immaginare. -

Andarono; Tiburzio fu battezzato, vide esso pure l'Angelo.

Fin qui D. Bonetti.

Il giorno 24 novembre, Domenica, i musici celebrarono la festa di santa Cecilia; e ne tessè le lodi il Diacono Giuseppe Re, ora Canonico della Metropolitana di Torino.

Pochi giorni dopo, il 29 moriva d'apoplessia fulminante, in Torino, l'abate Ferrante Aporti, il quale, come abbiamo già detto, aveva introdotti in Piemonte i nuovi metodi d'insegnamento e le scuole normali. Senatore del regno, proposto, ma non accettato dal Papa per Arcivescovo di Genova, aveva tenuto l'ufficio di Presidente della Regia Università di Torino fino alla pubblicazione della legge del 22 giugno 1857. Nonostante certe sue opinioni e l'abito secolaresco, deve dirsi però a sua lode, che non prese parte a nessuna legge contraria alla Chiesa, e che perciò più d'una volta i giornali libertini gli tennero il broncio.

 

 

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