Capitolo 64

Preparativi della partenza per Roma - Commissione di D. Cafasso - Dolore e preghiere dei giovani - In treno: un giovanetto ebreo - Il Ch. Savio in Alessandria - A Busalla: un vecchio montanaro - Genova: D. Montebruno e il Collegio degli Artigianelli - Il Padre Cottolengo - In mare: trista notte per D. Bosco Livorno: un giovane cameriere compassionevole - Arrivo a Civitavecchia - La dogana - Visita al Delegato Pontificio - La S. Messa ai Domenicani - In vettura; a Palo; la ricetta per le febbri; - un carabiniere - Arrivo a Roma - Casa De Maistre.

Capitolo 64

da Memorie Biografiche

del 29 novembre 2006

 Don Bosco, fatte copiare con bel carattere dal chierico Turchi Giovanni le regole del suo ideato sodalizio, da presentarsi al Papa, il giorno 9 di febbraio otteneva dal Provicario Generale, il Canonico Celestino Fissore, licenza per iscritto di uscire e rimanere fuori diocesi per due mesi. Dal Governo procuravasi il passaporto. Aveva stabilito di andare a Roma per via di mare e fare ritorno per via di terra attraversando la Toscana, gli Stati di Parma, Piacenza, Modena e il Regno Lombardo Veneto.

Amici e lettere venivano ad augurargli un buon viaggio e a pregarlo di commissioni. In un biglietto così gli diceva uno dei più antichi catechisti dell'Oratorio:

 

Il sottoscritto prega il M. R.do D. Bosco a voler celebrare una santa messa, ove gli sia possibile senza disturbo, a sua intenzione, all'altare di S. Francesco Zaverio nella Chiesa del Gesù in Roma il giorno 12 marzo; o se non può in tal giorno in uno dei giorni della novena che si fa al predetto santo detta della Grazia, la quale comincia il 4 e termina il 12 del detto mese.

Torino, il 15 febbraio 1858.

 

Zaverio Provana di Collegno.

 

Intanto i chierici e i giovani apparivano mesti per dover stare più mesi senza vedere il loro buon padre e D. Bosco per tranquillarli una sera diceva loro: - Voi siete inquieti temendo che qualora D. Bosco venisse a mancare, potreste rimanere abbandonati. Non istate in apprensione. In ogni cosa la volontà di Dio è sempre pel nostro meglio. Vi sono altri ottimi sacerdoti disposti a venire tra voi per esservi padre; e pochi giorni sono il Canonico Gastaldi, che voi conoscete, mi disse che non avrebbe nessuna difficoltà a stabilirsi nell'Oratorio e fare le mie veci. Il vostro avvenire è dunque assicurato. Tuttavia, se a voi rincresce la mia partenza, io pure sono dolente nel dovermi allontanare per qualche tempo da voi. Ma ciò io sono costretto a fare per vostro grande vantaggio. Uno dei motivi che mi conduce a Roma è quello di ottenere dal Papa speciali favori a parecchi dei vostri più insigni benefattori, i quali mi hanno promesso di continuare a soccorrervi. - E dopo aver parlato con entusiasmo del Papa, e fatte loro varie raccomandazioni pel mantenimento dell'ordine nella casa, li mandò a riposo.

Il Canonico Anfossi era presente a questo discorso, come pure il giovane Giacomo Costamagna di Caramagna, entrato pochi giorni prima nell'Oratorio, cioè il 12 febbraio.

  Disposta ogni cosa per la partenza, D. Bosco recavasi al Convitto Ecclesiastico per ricevere gli ordini e le commissioni di D. Cafasso, il quale gli consegnò una supplica pel Sommo Pontefice, della quale aveva già a lungo tenuto ragionamento col suo discepolo. Noi qui esponiamo il pensiero di D. Cafasso, ricavandolo dalla sua preziosa biografia scritta dal Can. Giacomo Colombero.

L'ardente desiderio che D. Cafasso nutriva di assicurare a sè e ad altri l'ingresso immediato al Paradiso, senza toccare le pene del Purgatorio, lo portò a riflettere come non ostante le molte concessioni d'indulgenze plenarie in articulo mortis fatte dalla Chiesa, succede tuttavia non di rado che qualcuno muoia, senza conseguire così grande benefizio. E ciò o perchè manca il sacerdote ad impartire le necessarie benedizioni, o perchè il moribondo non ebbe cura di farsi iscrivere a tempo nelle compagnie arricchite dell'indulgenza plenaria in articulo mortis, ovvero perchè la morte sorprende in circostanze tali in cui è sprovvisto di oggetti indulgenziati, oppure anche sopravviene così improvvisamente da non lasciar tempo a compiere qualcuno degli atti ordinariamente richiesti dalla S. Chiesa per l'acquisto di tale indulgenza. Per queste condizioni egli pensò di far arricchire dell'indulgenza plenaria un atto tale che esercitato per una volta tanto in vita, perseverasse e si compisse a così dire di per sè nel momento del morire, cosicchè annessa l'indulgenza a tale compimento, la si conseguisse senza bisogno d'alcuna nuova azione da parte del moribondo. E studiando un atto capace di tali condizioni e di gran merito ad un  tempo, acciocchè fosse causa sufficiente per ottenere tale indulgenza, credette trovarlo nell'accettare mentre si è in vita qualunque genere di morte sia per piacere al Signore, ed accettarla per compiere la sua santa volontà. Compita questa risoluzione essa continua finchè non si revoca, perchè voluntas semel habita perseverat donec retractetur, dimodochè se soppravviene la morte mentre uno è in tale stato di animo, essa resterà perciò stesso accettata nel momento in cui succede, ed ecco quindi compiuto l'atto cui è annessa l'indulgenza. Che questa accettazione poi sia un'azione di gran merito è dottrina chiara di sant'Alfonso il quale scrive che: “L'accettare la morte per adempire la volontà divina e dar gusto a Dio è un atto di virtù il più eccellente che esser possa (Vittorie dei martiri. Vol. I, Rifles. n. 24)”.

Che se tanto è della semplice accettazione della morte in generale per adempire la volontà di Dio, più eccellente ancora si è l'accettare volentieri qualunque genere di morte allo stesso fine, perchè tale disposizione d'animo estendesi a qualunque morte per quanto dolorosa, ignominiosa e ripugnante all'umana natura.

   Ben ponderate tutte queste massime Don Cafasso pensò di domandare al Sommo Pontefice che l'atto d'accettare la morte con tutte le circostanze che giusta la volontà di Dio l'accompagneranno, ed accettarla per compiere il divino beneplacito fosse arricchito dell'indulgenza plenaria in articulo mortis, a nessun altra condizione che quella di tale accettazione fatta nel corso della vita e non revocata prima di morire. D. Bosco dopo aver promesso a D. Cafasso che avrebbe fatto del suo meglio per ottenergli dal Santo Padre un così segnalato favore, volle confessarsi. Fu sua pratica costante, ogni qualvolta si metteva in cammino per una regione alquanto lontana, accostarsi al Sacramento della Penitenza prima di partire, ancorchè non fossero ancor passati gli otto giorni dopo l'ultima sua confessione.

  Il domani, 18 febbraio, giorno per sempre memorando, D. Bosco si alzò di buonissima ora, e celebrò la Santa Messa. Nella notte era caduto quasi un palmo di neve, sopra due palmi che già coprivano il terreno; ma risoluto di partire egli pure, come usavasi in quel tempo dalle persone prudenti, prima di cimentarsi a questo viaggio, in allora abbastanza pericoloso, volle fare il suo testamento a fine, diceva egli, di non lasciare incaglio di sorta intorno alle cose dell'Oratorio, qualora la Provvidenza volesse chiamarmi all'eternità, dandomi in cibo ai pesci del Mediterraneo. - Il notaio venne, ma in ritardo, e sebbene ci fosse necessità di trovarsi allo scalo della ferrovia per tempo, D. Bosco non volle differire questo affare. Buzzetti Giuseppe e Rossi Giacomo, il maestro della scuola diurna elementare, servirono di testimoni. La cosa fecesi con tutta fretta.

Alle otto e mezzo del mattino, mentre ancora nevicava, colla commozione che prova un padre, D. Bosco si strappava da' suoi alunni. Molti di questi, vedendolo uscire dall'Oratorio, ne piangevano a calde lacrime, quasi temendo di non più rivederlo. Nell'uscir di casa D. Bosco, come quasi sempre, erasi munito del segno della Santa Croce dicendo: - Ed ora andiamo in nomine Domini e si affrettò per giungere alla ferrovia, non ostante che difficile fosse il camminare.

  Lo accompagnava come segretario il Ch. Michele Rua; ma come figli affezionati, cogli augurii più fervidi, colla mente e col cuore, gli fecero compagnia tutti i giovani dell'Oratorio. Da quel giorno, ogni mattina una eletta schiera dei più devoti facevano la santa comunione, moltissimi la visita al SS. Sacramento nelle ore di ricreazione, e non pochi praticavano eziandio varie mortificazioni, a fine di ottenergli un viaggio felice. Le preghiere ed i sacrifizi di tanti figliuoli affettuosi tornarono graditi al Signore, che li accolse e benedisse largamente il nostro buon padre.

D. Bosco, giunto allo scalo, osservò se fosse arrivato il Ch. Angelo Savio; ma questi non compariva. Savio era stato il primo, fra quelli dell'Oratorio, nel subire, e con buon esito, l'esame per le patenti di maestro elementare; e D. Bosco avevalo destinato a fare scuola per un anno in un Ospizio di carità pei poveri giovanetti nella di Alessandria, cui doveva eziandio prestare vigilante assistenza, della quale mancavano. Ei faceva quel sacrifizio per accondiscendere alle vive istanze degli amministratori di quell'Istituto, appoggiate probabilmente dal Canonico della Cattedrale, suo grande amico, Braggione Carlo. Il chierico Savio in quella stessa mattina doveva recarsi alla sua destinazione.

A D. Bosco e al Ch. Rua si era unito per compagno di viaggio il Sig. D. Mentasti, eccellente pittore, al quale alcuni suoi quadri avevano procurato una bella fama.

     Alle dieci si ode il fischio della locomotiva. D. Bosco si era seduto vicino ad un fanciullo di dieci anni, e vedendolo grazioso e parlantino, intavolò tosto con lui un discorso. In breve dalle parole del padre che gli stava a fianco e dalle parole del fanciullo medesimo si accorse che era ebreo. Il padre lo assicurava che egli faceva la, quarta elementare; ma la sua istruzione non eccedeva quella della nostra seconda. Egli era però d'ingegno svegliato. Il padre godeva che D. Bosco lo interrogasse, e lo invitò a farlo ragionare intorno alla Bibbia. D. Bosco prese a fargli domande sopra la creazione del mondo, dell'uomo, sul paradiso terrestre e sulla caduta dei nostri progenitori. Il fanciullo rispondeva abbastanza bene; ma D. Bosco rimase molto meravigliato quando si accorse che egli non aveva alcuna idea del peccato originale e nemmeno della promessa di un Redentore.

     - Non c'è nella tua Bibbia, gli disse D. Bosco, quanto Iddio promise ad Adamo nell'atto che lo scacciava dal paradiso terrestre?

     - Non c'è, gli rispose il giovanetto; favorisca dirmelo.

     - Ecco: Iddio disse al serpente: Perchè tu hai ingannata la donna, sarai maledetto fra tutti gli animali, ed uno che nascerà dalla donna ti schiaccerà il capo.

     - Chi è quest'uno di cui qui si parla?

     - Quest'uno è il Salvatore che doveva liberare il genere umano dalla schiavitù del demonio.

     - Quando verrà il Salvatore?

     - Non verrà più. Egli è già venuto, ed è quello che noi chiamiamo .......

     Qui il padre lo interruppe, e disse: - Queste cose noi non le studiamo, perchè non riguardano alla nostra legge.

     - Voi però fareste bene, gli osservò D. Bosco, di farle studiare, perchè sono contenute nei libri di Mosè e dei profeti a cui voi prestate fede.

     - Va bene, rispose l'altro, ci penserò; ma gli domandi qualche cosa d'aritmetica.

     Vedendo D. Bosco che l'Ebreo non desiderava che parlasse di religione a suo figlio, mutò ragionamento e gli fece vari discorsi intorno a cose indifferenti, in modo però che il padre, suo figlio ed altri che erano insieme in quello scompartimento ebbero a ricrearsi e a ridere non poco.

     Alla stazione di Asti il fanciullo doveva discendere, e non sapeva come distaccarsi da Don Bosco. Aveva le lagrime agli occhi, teneva per mano il buon prete e tutto commosso gli potè solamente dire: - Io mi chiamo Sacerdote Leone di Moncalvo: si ricordi di me; andando a Torino spero di poterle fare una visita. -Il padre forse poco soddisfatto da quella dimostrazione di simpatia, per distrarre il figlio gli disse che, per secondare un desiderio da lui manifestato, aveva cercato in Torino la Storia d'Italia, ma che non gli era stato dato di poterla trovare in nessuna libreria. Quindi rivoltosi a D. Bosco lo pregò di farne la ricerca e di mandargliene in regalo una copia; e D. Bosco promise che ritornato da Roma gli avrebbe spedita una Storia d'Italia composta per istruzione della gioventù.

   Ad Alessandria D. Bosco vide il Ch. Angelo Savio che usciva da un carrozzone e lo potè ancor salutare e dargli qualche avviso; la qual cosa gli fece piacere perchè si pensava che Savio non fosse giunto a tempo per la partenza.

   Dopo la stazione di Serravalle la macchina correndo velocemente tra le gole degli alti e ripidi Apennini, per viadotti e gallerie si fermò a Busalla. Qui salirono e si assisero vicini a D. Bosco due montanari. Uno di essi era pallido infermiccio e muoveva a pietà. L'altro aveva un'aria vivace e, sebbene toccasse i settant'anni, palesava la vigoria di un giovinotto di venticinque anni. Egli aveva le brache corte e le uose quasi sbottonate, in guisa che vedevansi le gambe, le ginocchia nude e sferzate dal freddo. Era in maniche di camicia colla sola maglia e una giubba di grosso panno che portava come per cerimonia sopra le spalle. D. Bosco, che amava intrattenersi colla gente del popolo, dopo averlo fatto discorrere di varie cose gli disse: - Perchè non vi aggiustate questi abiti in modo da difendervi dal freddo?

   L'altro rispose: - Veda, signore; noi siamo montanari e siamo abituati al vento, alla pioggia, alla neve e al ghiaccio. Non ci accorgiamo quasi nemmeno della stagione invernale. I nostri ragazzi camminano anche oggidì coi piedi nudi in mezzo alla neve e ci vanno anche per divertirsi senza badare al freddo o al caldo. - D. Bosco poi diceva: - Da ciò ebbi prova novella che secondo si dà più o meno al corpo, più o meno il Corpo è disposto a ricevere. Coloro che ad ogni cosa sensibile vorrebbero porvi riparo, si mettono nella necessità di patire gravi incomodi, a cui l'uomo abituato è insensibile.

   La neve intanto diminuiva a mano a mano che il treno si avvicinava alla riviera di Genova. Prima si videro ripe verdeggianti, poi giardini con fiori, e finalmente i mandorli fioriti e i peschi coi bottoni presso ad aprirsi. Ma ecco Genova, ecco il mare! e il treno entra nella stazione.

   Il cognato dell'Abate Montebruno con alcuni giovani attendeva D. Bosco e il Ch. Rua, che appena discesi, andò loro incontro con grande bontà, consegnò ai giovani i bagagli dei due viaggiatori, e questi condusse in Carignano all'Opera pia degli Artigianelli. D. Montebruno li accolse con festa; ma essendo già le tre e mezzo pom. e non avendo D. Bosco preso altro in tutto quel giorno che una tazza di caffè puro, si posero tosto a mensa e quindi visitarono la casa, le scuole, i laboratorii e i dormitori. Sembrava a D. Bosco di trovarsi nell'antica casa Pinardi, tanta rassomiglianza aveva questa con quella. Il numero dei ricoverati in Carignano era di trenta, e altri venti qui lavoravano e mangiavano, andando a dormire nella primiera abitazione in Canneto. Il loro vitto a pranzo era una capace scodella di minestra, e a colazione e a cena una pagnotta che mangiavano facendo ricreazione.

   Vista ogni cosa, D. Bosco intrattenutosi alquanto con D. Montebruno sui progetti di unione delle loro opere, uscì col Ch. Rua per la città; ma levatosi un vento molesto, dopo alcuni giri andò a S. Maria di Castello, ove i Domenicani hanno il loro convento. Il Padre Cottolengo, fratello del venerabile fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza in Torino, parroco di quella antichissima chiesa, usò tutte le finezze di cortesia ai due graditi visitatori, li fece servire di qualche bibita e li obbligò a stare con lui alla refezione e al riposo. Passarono una bellissima sera, e D. Bosco e il Padre Cottolengo rimasti soli protrassero la loro conversazione fino ad un'ora dopo la mezzanotte.

  Il mattino D. Bosco disse la S. Messa nella Chiesa dei Padri Predicatori ad un altare dedicato al B. Sebastiano Maggi, frate Domenicano morto da oltre tre secoli. Il suo corpo è un prodigio continuato, perchè si conserva intero, flessibile e con un colore che lo diresti defunto da pochi giorni. Molti ex - voto e altri segni di grazie ricevute pendono intorno a quell'altare, oggetto di grande venerazione e méta di un concorso numeroso di fedeli, che vengono ad implorare le grazie del Signore, per intercessione del suo fedel servo.

  D. Bosco sperava di partire il giorno 19 al mattino, ma fu deluso nella sua aspettazione. Il vento contrario aveva impedito l'arrivo del bastimento, su cui egli doveva imbarcarsi e perciò suo malgrado dovette attendere fino al cader del giorno. Si può dire che le ventiquattro ore passate in Genova furono per lui una vera bilocazione. Col corpo era a Genova, ma col pensiero sempre a Torino, giacchè pensava che, previsto questo contrattempo, avrebbe potuto passare un giorno di più in famiglia.

         Trattavasi poi di andare a far vidimare il passaporto. Il cav. Scorza, Console Pontificio risiedente in Genova, accolse D. Bosco con molta cortesia e volle egli stesso spedire le carte alla polizia. Cercò pure di fargli avere qualche sconto sui posti del battello, ma non fu possibile. Perciò limitossi a dargli alcune commissioni per Civitavecchia e per Roma, con una lettera commendatizia al Delegato Pontificio in Civitavecchia.

  D. Bosco adunque dopo di aver fissati i posti sopra il battello a vapore detto Aventino, andò a pranzo col suo chierico presso i padri Domenicani, che gli usarono mille gentilezze e gli diedero varie lettere per Civitavecchia e per Roma. Di qui ritornò col suo compagno sul colle di Carignano per congedarsi dal Montebruno; e alle sei e mezzo di sera dava l'addio a parecchi distinti ecclesiastici che eransi radunati nella casa degli Artigianelli per augurargli un buon viaggio. Fra questi era il santo prete, il zelantissimo apostolo dei fanciulli, ritornato da poco tempo dalle missioni di Aden nell'Arabia, D. Luigi Sturla.

  I medesimi giovanetti di quel Collegio, allettati e dalle buone parole di D. Bosco e dall'aggiunta che egli aveva fatto di una pietanza a sue spese al loro pranzo ordinario di quel giorno, erano diventati suoi amici. Sembrava che provassero rincrescimento nel vederlo partire. Parecchi di loro lo accompagnarono fin sulla riva del mare, e saltando con destrezza in una barchetta, vollero essi stessi remigando, condurlo al piroscafo. Il vento era assai gagliardo: i nostri due viaggiatori, non avvezzi al mare, temevano di essere capovolti ad ogni alzarsi di flutto; e i giovani ridevano.

  Dopo venti minuti, D. Bosco e il Ch. Rua, giunti al battello, montarono a bordo e portato il loro equipaggio in una sala, ambedue sedettero in silenzio per riposarsi dopo le scosse sofferte sulla barchetta, ed osservando curiosamente un luogo sul quale si trovavano per la prima volta. Questa fermata portò un inconveniente.

  Erano giunti là nel momento che i viaggiatori pranzavano, e ignari delle costumanze di bordo, non erano andati cogli altri. Quando fecero domanda di prender cibo si udirono rispondere che le mense erano già sparecchiate. Il Ch. Rua perciò dovette cenare con una mela, una pagnottella ed un bicchiere di vino; D. Bosco pure mangiò un pezzetto di pane e bevette un sorso di quel vino.

    Dopo tale refezione andarono sul ponte per farsi un'idea dell'Aventino. Era una nave delle più grosse che fossero in porto. Soleva partire da Marsiglia, passava a Genova, a Livorno, a Civitavecchia, a Napoli, a Messina e quindi a Malta. Toccando di nuovo i medesimi porti faceva ritorno a Marsiglia.

   Intanto erano state assegnate ai due nostri viaggiatori le rispettive cuccette nella cabina. Erano le dieci, quando si tolsero le ancore e il battello, spinto dalla macchina e da un vento favorevole, cominciò a correre con grande velocità verso Livorno. In alto mare D. Bosco fu assalito dal male che cagiona il moto della nave, dal quale fu tormentato per circa due giorni. L'unica cosa che gli potè recare alcun conforto fu mettersi a letto e stare, quando lo stomaco glielo permetteva, col corpo lungo e disteso.

   La prima notte però quell'incomodo lo prostrò a segno da non poter più reggere nè in letto nè fuori di letto; gettatosi giù della cuccetta, andò a vedere se anche il Ch. Rua non patisse per qualche disturbo. Il buon figliuolo però, che non aveva sofferto alcun incomodo, ad eccezione di un po' di languidezza, si levò tosto e volle prestare a D. Bosco l'assistenza che in quel momento gli occorreva.

   Sul fare dell'alba del 20 febbraio il piroscafo entrava nel porto di Livorno. I passeggieri potevano smontare a terra e fermarsi dalle sette del mattino fino alle cinque della sera, a condizione però di far vidimare il passaporto; e ciò importava pagare diritti, mance e soffrir noie che non aveano più fine.

Sebbene D. Bosco desiderasse di visitare la città, dire messa e andare a salutare qualche amico, tuttavia nol potè fare. Anzi, dopo esser venuto sul ponte per qualche istante, dovè ritornare nella sua cuccetta, rinunziare ad ogni sorta di alimento e starsene alla buona ventura. Un giovane cameriere intanto, per nome Charles, cominciò a guardarlo con occhio di compassione. A quando a quando gli andava vicino offrendogli il suo servizio. D. Bosco vedendolo così buono e cortese si fece a discorrer con lui, e fra le altre cose gli domandò, se non temesse di esser deriso venendo spesso a visitare il prete, mentre era osservato da molti signori. - No, rispose il cameriere in lingua francese, vede che nessuno fa le meraviglie, anzi tutti lo mirano con bontà, mostrando desiderio di poterlo in qualche modo sollevare. D'altronde la mia buona madre mi ha tante volte raccomandato di usare gran rispetto ai preti e che questo era un mezzo per guadagnarci la benedizione del Signore.

  Il bravo Charles, sempre nel desiderio di sollevare D. Bosco, andò a chiamare il dottore di bordo. Il dottore venne e le sue maniere affabili sollevarono alquanto il paziente.

     - Comprendete il francese? disse il dottore.

     - Io comprendo, disse D. Bosco, tutti i linguaggi del mondo, anche quelli che non sono scritti, fino al linguaggio dei sordomuti. - D. Bosco diceva questo per sollevarsi un po' da una specie di letargo che pareva lo sorprendesse. L'altro comprese la facezia e si mise a ridere, dicendo: Peut ètre, peut ètre! - Intanto si fece ad esaminare lo stato dell'infermo e gli disse che al mal di mare erasi aggiunta la febbre, cagionata da traspirazione soppressa, e che una bibita dì the gli avrebbe fatto bene. D. Bosco ringraziò il dottore e gli chiese il suo nome. - Il mio nome, disse, è Jobert di Marsiglia, dottore in medicina e chirurgia.

  Charles, attento agli ordini del dottore, in brevi istanti apparecchiò a D. Bosco un'ottima tazza di the, di lì a poco un'altra e poi un'altra. Questa bibita lo confortò veramente e rompendo in un tenue sudore potè prendere un po' di sonno. Ma intanto giungevan le cinque, e tolte le ancore il piroscafo fu in alto mare. Di nuovo D. Bosco fu sorpreso dal vomito, che con sforzi ancor più violenti lo agitò intorno a quattro ore; dietro a cui e per lo sfinimento di forze e perchè non aveva più nulla nello stomaco e forse anche perchè già alquanto abituato all'ondulazione del bastimento, si addormentò, e con un sonno tranquillo riposò fino alle sei del mattino, ora dell'arrivo al porto di Civitavecchia.

  Il riposo avevagli ridonato le forze, sebbene fosse sfinito dalla lunga privazione di cibo. Mentre i viaggiatori ponevano sesto ai loro bagagli, il capitano del bastimento era andato a consegnare i loro passaporti alla Polizia, e ritornato consegnò a tutti un biglietto che loro permetteva di prendere terra.

  D. Bosco raccontava poi a' suoi giovani come fosse entrato in Civitavecchia. - Scesi nella barca, e da questo momento spese sopra spese. Una lira caduno pel barcaiuolo, mezza lira pel bagaglio che ciascuno portava sulle proprie spalle, mezza lira di mancia alla dogana, mezza all'ufficio della vettura per visitare i passaporti, mezza per chi ci invitava a prendere la sua carrozza, mezza pel facchino che aveva posto i bagagli sulla vettura, due lire pel visto della polizia sul passaporto, una lira e mezzo al Console Pontificio. Fatto sta che non si trattava di altro che di tener la borsa aperta e parlare e tosto pagare. E la mia borsa non era certamente troppo ben provvista. Si aggiunga ancora che, variando le monete di nome e dì valore, si doveva sempre stare al giudizio di chi era compiacente di farcene cambio. Però la dogana rispettò un pacco indirizzato al Card. Antonelli col bollo Pontificio, entro cui io aveva posto le mie cose e carte di maggior importanza; anzi i doganieri furono abbastanza gentili da non farmi aprire i sacchi de' miei bagagli, riputandomi un galantuomo incapace di fare frode.

   Essendo giorno festivo e l'incomodo del mare avendo impedito a D. Bosco di celebrare la S. Messa, egli si diede premura di informarsi ove avrebbe potuto ascoltarla, e udito che rimanevagli un intervallo di tempo, andò a far visita al Delegato Pontificio, che gli fece molte e buone accoglienze, offrendosi in tutto quello che potesse aver bisogno di lui. Osservando poi il nome di Don Bosco nella lettera del console di Genova, disse che aveva più volte sentito a parlare di un D. Bosco di Torino, e chiese a lui stesso se per caso conosceva quel sacerdote piemontese. D. Bosco ridendo, rispose: - Io sono quel desso! -Dopo alcuni brevi quesiti, il Delegato invitò D. Bosco a passar nuovamente da lui al ritorno; e si congedarono.

   Di qui D. Bosco recossi col Ch. Rua al convento di S. Domenica per ascoltare la S. Messa. Entrarono in chiesa al momento che dovevasi incominciare la messa cantata. Ammirò il contegno di quelli che intervenivano e grandemente lo soddisfece il canto che ivi era eseguito. Le intonazioni erano regolari, le voci chiare d'accordo e sonore: l'insieme poi unito ad una musica semplice formava una tale armonia, che appagava la divozione.

Intanto D. Mentasti era tutto in furia perchè non trovava i due suoi compagni di viaggio, essendo pronta per partire la vettura postale. D. Bosco e Rua avvertiti corsero per recarsi al luogo indicato, e saliti nel cuopè della vettura, tirata da sei robusti cavalli, presero la strada da Civitavecchia per Roma. La distanza tra queste due città è di quarantasette miglia italiane, che corrispondono a trentasei miglia piemontesi. La strada era molto amena, i prati e le ripe verdeggianti e coperte di fiori. D. Bosco dimostrava una viva gioia con osservazioni argute ed amene.

   Frattanto dopo aver percorse diciotto miglia, sempre sulle rive del Mediterraneo, i nostri viaggiatori entrarono in un piccolo paese detto Palo.

   Quivi il vetturino invitò i passeggeri a discendere perchè intendeva di far riposare i cavalli e dar loro la biada. Dovendo la fermata durare un'ora, D. Bosco il Ch. Rua e D. Mentasti se ne giovarono per entrare in una vicina locanda. Il mal di mare, le faccende alla dogana, la smaniosa premura che aveva D. Mentasti di lasciare Civitavecchia loro avevano impedito, anzi fatto quasi dimenticare di prender cibo. La mensa fu subito apprestata e i tre viaggiatori affamati si misero intorno alle pagnottelle e mangiarono tutto quello che loro fu portato davanti.

   Intanto l'uomo che li aveva serviti erasi rannicchiato in un angolo della sala ravvolto nel mantello, scarno, sfinito, tremante e pallido, sicchè sembrava l'immagine della morte. Costui a metà del pranzo si avvicinò a D. Bosco egli disse: - Ella, Reverendo, ha patito mal di mare, non è vero?

     - Verissimo; ed ora mi sento grande appetito, rispose D. Bosco.

     - Ebbene, Reverendo, ascolti me: non mangi più; maggior cibo le arrecherebbe fastidio e danno; ora ha mangiato abbastanza: io sono pratico di queste cose.

D. Bosco lo ringraziò, ed entrato con lui in discorso venne a sapere essere quell'uomo il padrone dell'albergo e da molti mesi essere preso da febbri così terribili da sentirsi ridotto in fin di vita.

     - Conoscerebbe ella forse qualche medicina pel mio male? chiese l'albergatore.

     - Sì che l'avrei, rispose D. Bosco.

     - Oh se mi favorisse! Le assicuro che gliene sarei molto grato.

     - Io l'ho; ma prima avrei bisogno di sapere, se parlo con un buon cristiano.

     - Si, che sono cristiano.

     - Ebbene fin da quest'oggi incominciate a dire un,Pater ed un'Ave in onore di San Luigi e una Salve Regina alla Vergine SS., e ciò per tre mesi. Domenica andate a fare le vostre divozioni, e se avete fede state sicuro che la febbre vi lascia.

     - Le mie divozioni è da un po' di tempo che non le ho più fatte.

     - Appunto per questo, concluse D. Bosco, e abbiate fiducia in Dio. Intanto lasciate fare a me, soggiunse; vi prescrivo una ricetta che vi caccerà per sempre lontano il malanno delle febbri.' -Preso quindi un pezzetto di carta, scrisse colla matita la sua ricetta, raccomandandogli di portarla a qualche farmacista. L'albergatore era trasportato fuori di sè dalla gioia. Non sapendo come meglio dimostrare la sua gratitudine, baciava e ribaciava la mano a D. Bosco.

  Fu pure amena la conoscenza ivi fatta con un carabiniere pontificio di nome Pedrocchi. Egli pensavasi di conoscere D. Bosco, e a D. Bosco parve di conoscere lui: con aria di festa sì salutarono. Dopo si avvidero dello sbaglio, ma l'amicizia, le espressioni di benevolenza e di rispetto continuarono. D. Bosco per compiacerlo dovette permettergli che pagasse a lui una tazza di caffè ed egli pagò al carabiniere un rhum. Richiesto poi D. Bosco dal nuovo amico di una qualche divota memoria, gli diede una medaglia di S. Luigi Gonzaga. La serena cordialità di D. Bosco in qualunque luogo egli mettesse il piede, attirava sempre a lui novelli amici in ogni ordine di persone.

   Montati i viaggiatori nuovamente in vettura e volando più col desiderio che col corso dei cavalli, pareva loro ad ogni momento di essere a Roma. D. Bosco non risentivasi del moto della carrozza. Intanto si faceva notte; per l'oscurità nulla sì poteva scorgere, e continuò la corsa fino alle dieci e mezzo della sera.

   Un certo brivido sorprese i viaggiatori al pensiero che entravano nella Città Santa. Uno diceva: - Siamo a Roma! - Un altro: - Siamo nella terra dei santi! - Fra queste e consimili espressioni pervennero ove il vetturino aveva il suo luogo di fermata.

   D. Bosco era giunto alla città dei Papi il 21 febbraio. Non avendo egli alcuna conoscenza del luogo, cercò una guida che per dodici baiocchi lo accompagnò alla casa abitata dal Conte De - Maistre, via del Quirinale n. 49 alle Quattro Fontane. D. Bosco e i suoi compagni giunsero là alle undici, e furono accolti con tanta bontà dal Conte Rodolfo e dalla Contessa; gli altri della famiglia erano già a riposo. Preso un po' di ristoro, si ritirarono anche essi nelle stanze loro assegnate.

 

 

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