Attestati di stima verso D. Bosco di illustri sacerdoti D. Ambrogio innanzi all'Oratorio - Un opuscolo contro l'apostata fazioso - Bene che potranno operare i collegi salesiani - Esami all'Università e diplomi ottenuti - Incoraggiamento ad un insegnante - Il R. Provveditore autorizza l'apertura del Collegio di Lanzo - - Studi di D. Bosco per accrescere e sostenere le sue case in tempi così difficili La Convenzione tra Napoleone e il Governo italiano; trasporto della Capitale a Firenze - Dimostrazioni e tumulti in l'orino - D. Bosco raccomanda di pregare - Strage in Piazza di S. Carlo - Torino città di provincia - Come Pio IX accogliesse l'Ambasciatore di Francia che gli presentava la Convenzione.
del 04 dicembre 2006
Quanto D. Bosco fosse amato e stimato in Italia pel bene che operava in mezzo alla giovent√π lo dimostrano lettere e testimonianze raccolte in gran numero nei nostri archivii. Fra queste ne scegliamo due sole. D. Apollonio Giuseppe prete veneziano, che fu successivamente Vescovo di Adria e di Treviso, scriveva a D. Bosco da Venezia il 3 settembre 1864.
 
D. Bosco mio dolcissimo!
 
Oh quanta consolazione ho provato l'altro ieri quando ricevetti i suoi saluti per mezzo di persone così care al Signore! Se non che appunto in quell'occasione mi fu inflitta una spina nel cuore, avendo in teso come vostra Reverenza creda di dover camparla solo per un paio d'anni in questo mondaccio tristo. Oh no, no, D. Bosco carissimo, non muoia, no, So, che se Ella non è necessario (il che non si potrebbe dire di nessuno), certo però è sommamente utile costi nelle circostanze in cui ci troviamo! Le mie preghiere valgono poco, ma voglio pregar tanto il Signore che non le badi, se desidera morire presto. Preghi anche Lei via, da bravo e dica con S. Martino al Signore, Domine, si adhuc populo tuo sum necessarius, non recuso laborem. Oh quanto bene Ella ha fatto in questi anni, e quanto ancora può farne! Si dia coraggio in mezzo a tante afflizioni, a tante miserie! Chi sa, poveretto, quanto te patisce nel suo animo! Anch'io, vede, cerco di darmi coraggio più che pomo, abbenchè vi abbiano dei giorni in cui non ne posso più. Oh Gesù caro, a quali tristissimi tempi ci avete riserbati! Davvero che la guerra di sangue che agitò per tre secoli l'immacolata sposa di Cristo, può dirai nulla a petto della guerra che le si muove al presente. Oh che pasto orribile ne' cuori e nelle mentì! Io porto fidanza, dirò anzi, mi pare d'essere certo che non andranno molti anni, né forse motti mesi, che, almeno in quanto all'esterno, le cose rientreranno nelle vie dell'ordine; ma ciò è assai poca cosa se non si raddrizzano le teste: e nelle teste ai è un tal veleno di principi morali, sociali, religiosi che nella massima parte le ha guaste fino al midollo, sicchè ci vorrebe proprio un miracolo e di quelli che l'Angelico chiamerebbe ratione sui, perchè si raddrizzino in pochi lustri. Non le posso dire, D. Giovanni mio quanto io ne patisca anche fisicamente; però mi tien desto e mi rinfranca il bisogno che sento di adempiere meglio che per me si possa ai molteplici e spinosi carichi addossatimi dai Superiori, E poi conviene dire il vero; non le sono tutte amarezze; perchè la buona nostra Mamma Maria e il suo caro Figlio, in mezzo alle fatiche i fanno godere anche di grandi consolazioni. Ma io la tengo troppo occupata in questa lunga diceria, Veniamo dunque a noi Sappia, D. Bosco mio, che Fila fu ed è amai spesso presente nella mia memoria, e che spesso in questo tempo, benchè indegnamente, io ho pregato per lei. Preghi anch'ella adunque per me... Io non oso neppure chiederle una riga, ma s'immagini di quanta consolazione sarebbe per me. Iddio benedica D. Bosco, le sue fatiche e le coroni sempre dell'esito più felice .....
 
Dev.mo e obbl.mo servo e fratello in G. M.
Sac. GIUSEPPE APOLLONIO.
 
In concetto simile a quello di D, Appollonio, teneva Don Bosco il Canonico Gastaldi Lorenzo. In questo settembre erasi ritirato nella Casa dei Signori della Missione per attendervi agli esercizi spirituali, Allo stesso fine si trovava con lui D. Giacomelli, il quale così ci narrò: - “ Una sera il Canonico, che conosceva molto bene l'Oratorio, lo frequentava, vi predicava e confessava, discorrendo meco delle opere di D. Bosco, le approvava e lodava, dicendo di esse molte belle cose; e finalmente terminò col dire di Don Bosco ciò che la Sacra Scrittura afferma di Davidde: - Et Dominus erat cum illo.
“ Gli esercizii dovettero finire un giorno prima del tempo stabilito, perchè D. Ambrogio colle bestemmie e col trarsi dietro la plebaglia faceva il diavolo a quattro, e per lunga ora, innanzi alla porta della Casa de' Lazzaristi ”.
Questo emissario dell'eresia e delle sette aveva già fatte simili sconcie scenate contro altri istituti religiosi; e sulle piazze e presso alle Chiese continuava a vomitare empietà e sciocche invettive contro quanto vi ha di più sacro. Non gli mancavano gli applausi dei prezzolati frequentatori delle osterie.
Un giorno scese in Valdocco seguito da quella gran folla di gente solita a radunarsi intorno ai ciarlatani. Ei predicò innanzi al portone dell'Oratorio ed inveì con modi villani contro D. Bosco, ritirandosi quando incominciava a mancargli il fiato. Il popolaccio aveva schiamazzato, riso sguaiatamente, proferiti insulti e schemi non solo all'indirizzo dei sacerdoti, ma anche dell'oratore, il quale non aveva certamente dato saggio di arte rettorica.
Gli alunni dell'Oratorio non si erano fatti vivi: D. Bosco era fuori di casa.
Rientrato D. Bosco e saputo il fatto, disse: - E perchè non avete fatto giuocare la musica? Un'altra volta si collochi la banda dietro il portone chiuso, e all'improvviso rimbombi una marcia delle più fragorose coi tamburi e la gran cassa.
Una sua musica, però d'altro genere, egli faceva risuonare ed era un opuscolo col titolo: - Chi è D. Ambrogio? Dialogo tra un barbiere ed un teologo. - Vi si dipingeva la vita per
nulla sacerdotale e morale dell'apostata, e l'obbligo dei fedeli di non ascoltarlo e di fuggirlo. Questo opuscolo fu sparso a migliaia e migliaia di copie nelle provincie piemontesi, al costo di soli 5 centesimi. Negli anni seguenti ne furono stampate e distribuite altre edizioni.
D. Bosco adunque in ogni occasione stava pronto a combattere l'eresia ed a smascherarne ì banditori, mentre con pari impegno si occupava a consolidare e sviluppare le sue scuole e i suoi collegi. Era sua ferma intenzione che questi a suo tempo dovessero diventare come fari per illuminare eziandio la gioventù dei paesi e delle città nelle quali sarebbero fondati, per mezzo degli Oratorii festivi.
Lo secondavano con ardore ne' suoi disegni quelli che aveva destinati all'insegnamento. L'esame del primo anno di belle lettere era superato con lode da D. Francesia Giovanni e dal Ch. Cerruti Francesco. Essi chiesero subito di essere ammessi al terzo anno. Fu loro concesso, purchè si assoggettassero ad un nuovo esame sulle materie del secondo corso e questo riuscì pure splendidamente.
Prendevano all'Università le patenti di terza ginnasiale i chierici Barberis Pietro, Tamagnone Giovanni, Fagnano Giuseppe.
Dal Piccolo Seminario di Mirabello si presentarono all'esame magistrale in Alessandria il 10 ottobre: per le classi elementari superiori i Chierici Albera Paolo, Momo Gabriele, Dalmazzo Francesco; per le classi elementari inferiori, i Chierici: Nasi Angelo, Cuffia Francesco. Belmonte Domenico: tutti e soli furono approvati.
E D. Bosco incoraggiava i suoi a rendersi abili per l'insegnamento e a non aver ripugnanza alla nobile e necessaria missione nelle scuole. A D. Bonetti, che aveva insegnato a Mirabello la terza ginnasio e che desiderava occuparsi di studii teologici, Don Bosco scriveva:
 
AI Motto Rev.do Sig. D. Bonetti Gio. Professore,
 
Mirabello.
 
Carissimo Bonetti,
 
Va' pure avanti come abbiamo stabilito e farai la volontà del Signore. Si aggiusterà ogni cosa in modo che tu possa fare i tuoi studii. Abbi fiducia nel Signore; io lo pregherò per te. Tu pregalo anche per me che di cuore ti sono,
Torino, 29 Settembre 1864.
 
Aff.mo in G. C.
Sac. Bosco GIOVANNI.
 
Egli aveva presentato alle Autorità scolastiche i nomi e i diplomi degli insegnanti da lui destinati per Lanzo e in questi giorni riceveva l'autorizzazione di aprire quel Collegio.
 
IL REGIO PROVVEDITORE AGLI STUDII DELLA PROVINCIA DI TORINO.
 
Veduta la domanda fatta dal sig. Sacerdote Giovanni Bosco di aprire in Lanzo, col concorso del Municipio, un collegio convitto per scuole elementari e ginnasiali;
Veduta la convenzione fatta dal predetto sig. Sac. Bosco col comune di Lanzo in data 30 giugno p. p., colla quale il sig. D. Bosco ha convenuto di provvedere alle scuole elementari obbligatorie al Comune;
Veduto il decreto del R. Ispettore delle scuole primarie di questa Provincia in data 27 agosto ultimo scorso, con cui dichiara nulla ostare per parte sua, alla instituzione delle tre classi elementari coll'opera dei signori maestri chierico Capra Pietro per la 3a e 4a Barberis Pietro per la 2a e Cibrario Nicolao per la Ia, a condizione che si sopprima l'obbligo di pagamento del minervale indistintamente a tutti gli alunni, nati o non nel Comune di Lanzo, che vorranno frequentare le dette scuole elementari, siccome contrario all'articolo 317 della legge 13 novembre 1859 n° 3725 che dichiara gratuito ed obbligatorio ai comuni l'insegnamento elementare;
Veduti gli articoli 246 e 247 della legge anzidetta;
Veduto l'elenco, i titoli del personale direttivo ed insegnante, la favorevole relazione igienica del locale e la pianta di esso,
 
SI AUTORIZZA:
 
Il Sig. Sacerdote Gio. Bosco ad aprire nel già locale del collegio di Lanzo un collegio convitto ove, oltre alle scuole elementari inferiori e superiori, assolutamente gratuite, sarà dato in conformità dei programmi governativi l'insegnamento delle tre prime classi ginnasiali sotto la Direzione del signor teol. Cav. Albert Vicario Foraneo di Lanzo e coll'opera dei signori professori sacerdoti:
Ruffino Domenico per la terza classe: Fusero Bartolomeo per la seconda classe; Bonetti Giovanni per la prima classe.
Codesta autorizzazione è vincolata all'adempimento delle condizioni su espresse ed alle disposizioni relative agli stabilimenti privati d'istruzione; e all'obbligo di annunciare all'autorità scolastica i cambiamenti che succedessero nel personale.
 
Torino, 14 settembre 1864.
 
Pel R. Provveditore
VIGNA.
 
Il Collegio di Lanzo era adunque la sua terza casa; e dopo questa egli vedeva chiaramente che molte altre ne avrebbe fondate; collegi convitti, ospizii, scuole professionali di arti e mestieri, seminarii, colonie, agricole, ecc. Perciò ei si faceva mandare da varie parti programmi delle case di educazione destinate per una classe speciale di alunni. E noi abbiamo trovato nel suo scrittoio i programmi del piccolo ospizio dei poveri artigianelli d'Ivrea; del Ricovero dei giovani poveri e abbandonati nella città di Alba; del Ginnasio - Convitto Vescovile di Mondovì; del Collegio Convitto, tecnico commerciale dei Fratelli delle Scuole Cristiane in Torino; del Piccolo Seminario della Piccola casa della Divina Provvidenza; del Collegio elementare semiconvitto dei Fratelli della Scuole Cristiane in Torino; del Collegio Cattolico a Menzingen per l'educazione dei giovani che sono destinati al commercio, del Collegio Convitto di Pinerolo; e di altri de' quali ora più non ci ricordiamo.
Ma sopra tutto egli s'informava delle leggi, dei decreti, dei programmi e delle circolari governative sull'istruzione classica ed elementare. Studiava l'interpretazione che davasi a certi articoli, o la loro applicazione non rigorosa che le Autorità si permettevano in date circostanze. Costava a D. Bosco l'abilitazione legale de' suoi insegnanti e pensava che non sempre riuscirebbe a ritenerli per sè, conseguito il diploma. I titoli equipollenti, le facoltà acconsentite ai Regi Provveditori, le supplenze tollerate faceano parte dei suoi disegni per superate le difficoltà ognora crescenti che si opponevano allo sviluppo delle sue Scuole. Cercava insomma di conciliare l'obbedienza alle prescrizioni della legge coll'obbligo che egli aveva di proseguire nella sua missione.
E oltre a ciò volendo provvedere al buon andamento delle sue case, per l'insegnamento consigliavasi sovente con alcuni Ira i più distinti professori delle scuole governative, per l'igiene consultava medici dotti e sperimentati, per l'amministrazione materiale, e per gli affari legali chiedeva il parere di valenti avvocati.
Si legge ne' Proverbi: “ Il saggio interrogando ed ascoltando accresce le sue cognizioni; e colui che intenderà starà al timone ”.
Ma i pacifici studii erano turbati in Torino da gravi e deplorevoli tumulti. Il 15 settembre Napoleone stipulava una convenzione col Governo Italiano rappresentato dal Ministero Minghetti e Peruzzi, ed eccone il testo: I° L'Italia si obbliga a non attaccare il territorio attuale del Santo Padre, e ad impedire anche colla forza ogni attacco proveniente dall'estero contro il detto territorio degli Stati Pontificii.
2° La Francia ritirerà le sue truppe gradatamente a misura che l'esercito dei Papa sarà organizzato. Ad ogni modo la azione dovrà compiersi entro due anni.
3° Il Governo Italiano non reclamerà contro l'organizzazione di un esercito Pontificio, anche se composto di volontarii cattolici stranieri, sufficiente per mantenere l'autorità dei Papa e la tranquillità tanto all'interno quanto sulla frontiera dello Stato, purchè questa forza non possa degenerare in un mezzo d’attacco contro il Governo Italiano.
4° L'Italia si dichiara pronta a entrare in trattative per prendere a suo carico una parte proporzionale del debito degli antichi stati della Chiesa,
In un protocollo aggiunto dicevasi: “ La convenzione... non avrà valore esecutorio, se non quando S. M. il Re d'Italia avrà decretato la traslazione della Capitale del Regno nel luogo che sarà ulteriormente determinato da detta S. Maestà ”.
Parve che tale convenzione fosse, come quasi tutti i giornali Francesi, Inglesi, Italiani la qualificarono, un atto solenne di consegna di Roma e del Papato all'Italia; e che preludesse ad una nuova guerra contro l'Austria. Ed era così!
Ma quando in Torino si venne a sapere il decretato trasporto della capitale a Firenze, un immenso cruccio prese a lacerare la maggioranza dei cittadini, parte perchè presentivano la propria rovina, parte per indignazione nel vedere sì male ripagati i sacrifizii enormi fatti dal Piemonte e massime da Torino per la causa italica, parte per ispirito settario. Gli agenti di Mazzini, provocatori di ribellioni, spingevano il popolo a tumultuare. In Torino spargevasi un grandissimo numero di lettere minacciose con l'epigrafe: Viva Garibaldi, morte a Vittorio Emmanuele, viva la repubblica. Circa sei mila persone il 20 settembre si radunarono con bandiere in piazza Castello e urlando: Abbasso il Ministero, abbasso la convenzione francese, viva Garibaldi, si recarono nella Piazza S. Carlo facendo una dimostrazione ostile davanti alla tipografia della Gazzetta di Torino, diario ministeriale che aveva fatto plauso alla Convenzione. Ma tutto finì con grida e fischiate assordanti.
Il 21 verso le 2 pomeridiane certa quantità di gente con bandiere si mosse da Porta Nuova e si recò sotto i portici di S. Carlo, fischiando e vociferando contro la Gazzetta di Torino. In piazza si accalcavano più migliaia di persone. A un tratto, senza essere provocate, da ogni parte sbucano le guardie di pubblica sicurezza colle sciabole sguainate, menando
colpi a dritta e a sinistra di punta e di taglio. Alcuni feriti morirono. La folla si disperse intimorita, ma dopo breve tempo ritornò più numerosa e più furibonda, assalì la Questura posta sulla stessa piazza, accanto alla Chiesa di Santa Cristina, e ne tempestò la porta con una terribile sassaiuola. Le guardie non osarono uscire. In piazza Castello intanto uno squadrone di carabinieri impediva una dimostrazione pacifica e legale che era stata indetta il giorno prima. Molto popolo si avanzava e non sapendo perchè fosse chiuso il passaggio acclamava, brontolava e forse qualcuno proferì minacce. All'improvviso i carabinieri fanno fuoco di fila e rimasero fra i cittadini dieci morti e varii feriti.
Verso le 8 la folla irruppe nuovamente contro l'ufficio della Gazzetta con una spaventosa grandinata di ciottoli, dando un guasto considerevole alla tipografia. Furono saccheggiate varie botteghe di armaiuoli; tutti i negozii erano chiusi. La popolazione costernata, triste, e silenziosa riempiva le vie; dal campo di S. Maurizio, chiamati dal Ministero, giungevano più di 28.000 uomini con oltre 100 cannoni occupandola città; le miccie erano accese: sul monte dei Cappuccini che domina Torino furono appostate grosse artiglierie. I Ministri volevano vincere la prova, pronti a bombardare la città e affogare nel sangue ogni resistenza.
D. Bosco, la sera del 21 settembre, raccolti tutti i giovani sotto i portici, prima di mandarli a riposo, volle che pregassero per la città di Torino, per i suoi abitante, e per tutti i benefattori, esortando che li raccomandassero con fede alla bontà della celeste patrona Maria SS.
Il giorno 22 passava tranquillo e così pure le prime ore della sera, quando verso le 9 gruppi di schiamazzatori convenivano in piazza S. Carlo. Gran folla di popolo, spinta dalla curiosità, li aveva seguiti. Una compagnia di linea con carabinieri e questurini era schierata davanti alla Questura; un battaglione del 17° reggimento guerniva la piazza dal lato di
levante; gli stava di rimpetto sul lato opposto un battaglione del 66° fanteria. Verso le 9 e ½  i dimostranti incominciano a scagliar sassi nell'interno del portone della Questura: due militi ne sono gravemente colpiti. I carabinieri senza squilli di tromba incominciano il fuoco contro il gruppo degli aggressori, ma alcune palle vanno a ferire il colonnello e alcuni soldati del 171 fanteria. I soldati, vedendo cadere i loro compagni, credettero che dal popolo fossero partiti quei colpi, e spararono. Ma anche qui per colmo di sventura essi recarono morti e ferite alla truppa che avevano di fronte, la quale, indotta nello stesso errore, scaricò i fucili sulla gente stipata. Così la folla si trovò in un istante tra il fuoco incrociato da tre parti, e cercò salvezza nella fuga. I sacerdoti senza curare il pericolo, corsero ad assistere gli agonizzanti e a levare i feriti. I morti erano 26 e il totale dei colpiti registrati alla statistica del Municipio fu di 187: il numero di quelli trasportati al proprio domicilio e non registrati di gran lunga maggiore. Quasi tutti erano offesi alle spalle, nessuno dei caduti si trovò munito di armi; i più erano giovani operai, parecchi fanciulli e sei donne. Esponiamo questi fatti seguendo la relazione compilata dal Consigliere Ara Casimiro e pubblicata a spese del Municipio.
La cittadinanza era esasperata, quando per buona ventura un personaggio potè penetrare presso il Re ed esporgli il vero stato delle cose. Il Re inorridito temendo qualche scempio più spaventoso, invitò per ben due volte i Ministri a dare le loro dimissioni: si rifiutarono dicendo che non dovevano cedere alle violenze plebee, e che si rimuoverebbero dal proposito solamente per un ordine preciso e formale del Re; e allora Vittorio Emmanuele loro mandò l'ordine di rassegnare la carica. Al che i Ministri obbedirono. Il cambiamento di Ministero, la prigionia degli agenti provocatori che si erano messi alla testa delle dimostrazioni, la presenza di nuove truppe, e la chiamata sotto le armi della guardia nazionale calmò le moltitudini. Ma s'ingannavano a partito i Torinesi sperando che col nuovo Ministero La Marmora si verrebbe a capo di mutate le risoluzioni firmate da Napoleone III, il quale era il vero sovrano d'Italia. E infatti poco dopo si trasportava la Capitale a Firenze. “ Torino, non solo crudelmente ma villanamente oltraggiata, tornava città di Provincia, come era al tempo di Re Arduino; e provava i dolori dello scoronamento come Parma, Modena e Napoli ”.
Ma chi più ne doveva soffrire era il Papa. La Convenzione era di sua natura evidentemente illusoria. Roma e il suo minuscolo territorio cessando di essere difeso dalle forze insuperabili della Francia, restava isolata in mezzo ad un vasto regno che del continuo la minacciava e che attendeva il momento nel quale sorgessero casi che le aprissero la strada per violare le sue promesse. Oltre a ciò la convenzione era in aperto contrasto colla dignità e coi diritti della Santa Sede; e pure Napoleone non ne aveva trattato nè col Sommo Pontefice, nè colle Potenze Cattoliche, in nome eziandio delle quali la Francia aveva occupato Roma.
Il 3 dicembre preti e chierici chiesero a D. Bosco notizie del Papa: Egli è tranquillo, rispose, perchè le sorti della chiesa sono in mano di Dio. Che figura ridicola fece il De Sartiges ambasciatore in Roma, mentre presentava a Pio IX fa Convenzione, ed una nota del Ministro Dronyn de Lhuys colla quale si voleva dimostrate la ragionevolezza e la necessità delle decisioni imperiali. L'ambasciatore parlava della Convenzione, e assicurava essere Napoleone un devoto e leale difensore della Chiese, ma Pio IX per nulla badandogli, gli chiedeva ripetutamente notizie della sanità di sua famiglia.
 
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