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Capitolo 9

Il coléra asiatico predetto - Sua comparsa in Torino - Il Municipio ricorre alla proiezione di Maria SS. Consolatrice - Mortalità nella regione Valdocco - Precauzioni nell'Oratorio - D. Bosco offre la sua vita per gli alunni - Discorso memorando - Virtuosa condotta degli alunni - D. Bosco incomincia ad assistere i colerosi - Figli degni del padre - Opportuni ammaestramenti - I giovani infermieri - Soccorsi agli ammalati e generosità di Mamma Margherita - Il Governo fa sgombrare varii conventi e monasteri.


Capitolo 9

da Memorie Biografiche

del 28 novembre 2006

Don Bosco, asseriva D. Rua, nel mese di maggio annunziava ai giovani che il coléra sarebbe pervenuto a Torino facendovi strage aveva detto in pari tempo: - Ma voi state tranquilli: se farete quanto vi dico sarete tutti salvi da quel fla­gello.

 - E che cosa c'è da fare? - chiesero i giovani ad una voce.

 - Prima di tutto vivere in grazia di Dio; portare al collo una medaglia di Maria SS. che io benedirò, distribuendone a ciascuno la sua; recitare ogni giorno un Pater, Ave, Gloria coll'Oremus di S. Luigi, aggiungendo la giaculatoria: Ab omni malo libera nos, Domine.

   Infatti il coléra uscito dalle Indie, ove regna continuo, dopo aver percorso varie contrade d'Europa, penetrava in Italia, e in Liguria e in Piemonte. Nel mese di luglio esso invadeva la città di Genova, dove nello spazio di due mesi toglieva la vita a circa tre mila persone.

   All'annunzio dei primi casi il 25 luglio il Ministero con un dispaccio dava norme di precauzione al Vicario Generale di Torino, perchè il Clero venisse in aiuto alle autorità civili, nell'esecuzione degli ordini emanati. I parroci obbedirono, il Clero si disse pronto, e i Religiosi di San Camillo, i Cappuccini, i Domenicani, gli Oblati di Maria si offersero per l'assistenza dei colerosi.

   Terribili erano i sintomi e gli effetti dell'asiatico morbo, sicchè incuteva spavento ai più coraggiosi. Era generalmente preceduto da intestini disturbi; ma ad un tratto manifestavasi, nell'assalito, vomito e diarrea incessante. Opprimevalo un senso di grave peso allo stomaco; granchii e contrazioni orribili lo straziavano in tutte le estremità delle membra. Gli occhi facevansi incavati e circondati da un cerchio di color di piombo, languenti e senza vivacità; il naso affilato, il viso scarno e talmente alterato, da non potersi più riconoscere l'individuo. La lingua diventava bianca e fredda, la voce fioca e il parlare appena intelligibile. Il corpo tutto assumeva un color lividastro, e nei casi più gravi diveniva persin ceruleo e freddo poco meno che un cadavere. Alcuni colti dal malore stramazzavano a terra, come colpiti da apoplessia fulminante; altri non sopravvivevano che poche ore,; pochi passavano le ventiquattro. Nei primi giorni dell'infestazione, quanti erano i colpiti, altrettanti erano i morti. Appresso in media sopra cento assaliti ne soccombevano sessanta; quindi è che, tolta la peste, niuna malattia, sino allora conosciuta, presentava una mortalità così spaventosa; anzi, se la peste uccideva un maggior numero di attaccati, ciò non faceva per altro in così breve spazio di tempo come il coléra. Di qui ognuno può argomentare la paura che tutti invadeva.

   Fomentava questa paura il sapere che niun rimedio erasi trovato efficace contro il morbo esiziale, e la persuasione che esso fosse non solo epidemico, ma contagioso. Si aggiungeva il pregiudizio del basso popolo, il quale s'incaponiva nella idea, che i medici somministrassero agli ammalati una bibita avvelenata, cui in Torino davasi il nome di acquetta, e ciò allo scopo di farli più presto morire, e per tal modo distornare più facilmente il pericolo per sè e per gli altri.

   Prova poi della costernazione, che spargeva negli animi la comparsa del morbo distruggitore, era il cessare del commercio, il chiudersi delle botteghe, il fuggire che tosto moltissimi facevano dal borgo invaso. Che più? In certi luoghi, appena uno era assalito, i vicini e talora gli stessi parenti impaurivano siffattamente, che lo abbandonavano senza aiuto e senza assistenza, da rendere necessario che si portasse presso di lui una qualche persona caritatevole e coraggiosa, la quale pur troppo non sempre si poteva trovare. Fu talora persino mestieri che i becchini passassero per le finestre o rompessero le porte, per entrare nelle case ed estrarne i cadaveri, che già mandavano all'intorno orribile puzza. Insomma in alcuni paesi si sono visti ripetuti in quei giorni gli stessi fatti di terrore, che narransi avvenuti nello infierire delle passate pestilenze, delle cui descrizioni abbondano i libri degli scrittori antichi e moderni  Ma il coléra non dava retta­ alla comune paura; che anzi, come nemico imbaldanzito dallo sbigottimento dei suoi avversarii, procedeva di paese in paese, di città in città, mietendo nel suo passaggio innumerevoli vittime. I luoghi più salubri, come le colline­ e le montagne, non erano da lui risparmiati. Il 30 luglio, superati gli Appennini, esso già si trovava sul territorio di Torino, e nei primi giorni di agosto cominciava a fare qualche vittima ne' suoi sobborghi. Tutta la casa reale, invitata dal Conte Cays, andava ad abitare nel suo Castello, di Caselette, situato su di un fresco poggio a piè delle Alpi, e colà rimaneva sicura per ben tre mesi.

   Appena comparso il pericolo di tanto flagello, il Municipio diede un bellissimo esempio di pietà a tutto il popolo. Il Sindaco Notta, dopo di avere adottate le richieste misure sanitarie per la cura ed assistenza degli ammalati ed emanati opportuni provvedimenti, volle altresì che si facesse ricorso alla Regina del Cielo, della quale in altre consimili strettezze erasi provato il valido patrocinio. Ordinò pertanto una funzione religiosa nel Santuario di Maria Consolatrice, a cui nel mattino del 3 agosto, insieme con una immensa folla di fedeli, prese parte una apposita rappresentanza del Consiglio municipale. Il Sindaco ne dava egli stesso comunicazione all'Autorità ecclesiastica con una lettera, nella quale tra le altre leggevansi queste parole:

   “ Il Consiglio delegato, interprete del voto della popolazione di questa capitale, nella circostanza della temuta invasione del coléra asiatco, ha assistito stamane ad una, Messa, susseguita da Benedizione, nella chiesa della Beata Vergine della Consolata, onde impetrarne il patrocinio ”.

E Maria Consolatrice non ispregiò queste preghiere, poichè la terribile malattia, contro ogni aspettazione, infierì assai meno in Torino, che in tante altre città e paesi d'Europa, d'Italia e pur del Piemonte.

   Ciò non ostante, i casi da uno salirono a 10, a 20 a 30 e poi sino a So e 60 al giorno. Dal I di agosto al 21 di novembre la città coi sobborghi e territorio ebbe circa 2500 casi, 1400 dei quali seguiti da morte. La regione più afflitta fu quella di Valdocco, dove nella sola parrocchia di Borgo Dora furono in un mese 800 i colpiti e 500 i morti. Vicino al nostro Ospizio vi ebbero delle famiglie non solamente decimate, ma affatto distrutte. In casa Bellezza, in casa dell'Osteria del Cuor doro'  in casa Filippi e in casa Moretta a pochi metri dall'Oratorio, ci narrava l'assiduo infermiere Tomatis, morirono in brevissimo tempo più di quaranta. In altri siti del Regio Parco e di Bertóla accadde il medesimo.

   Or bene, nella invasione e nello imperversare del fatal morbo così da vicino, e nello sbigottimento degli uomini più animosi, qual fu la sorte, quale fu l'opera dell'Oratorio di S. Francesco di Sales? Lo diremo brevemente.

  Quando si sparse la notizia che il malore cominciava a serpeggiare in città, D. Bosco mostrossi pei figli suoi quale amoroso padre, quale buon pastore. Egli, per non tentare il Signore, usò tutti i mezzi di precauzione possibili, suggeriti dalla prudenza e dall'arte. Fece quindi ripulire il locale, aggiustare altre camere, diminuire il numero dei letti nei dormitorii, migliorare il vitto, sobbarcandosi perciò a gravissime spese.

   Perciò in quei giorni la cattolica e benemerita Armonia avendo saputo la strettezza, in cui si trovava D. Bosco, faceva per lui e pei suoi giovanetti un caldo appello alla carità dei fedeli, con questo breve ma sugoso articolo:

 

Soccorso all'Oratorio di S. Francesco di Sales.

 

   “ A tutti è noto con quanto zelo e con quanta carità il Sacerdote Don Giovanni Bosco si sacrifichi per l'istruzione e per l'educazione dei giovani dell'infima classe del popolo, i quali in generale sono abbandonati a loro stessi in fatto di educazione. E quale sia il risultato di quest'abbandono, niuno meglio potrebbe dircelo, che i magistrati incaricati a punire i delinquenti, i quali sono per la maggior parte spettanti a questa classe. Quanti delitti non previene la carità del pio Sacerdote! A tutti è noto parimenti che quest'Opera, sotto il patrocinio di S. Francesco di Sales, non ha altro modo di sostentamento da quello in fuori, che le, viene dalla carità delle persone dabbene, non ricevendo la medesima alcun sussidio di pubblica beneficenza. Ognuno potrà di leggieri immaginarsi quali spese occorrano per mantenere ed alloggiare un centinaio di giovani, massime in quest'anno, in cui la carezza dei viveri si fa sentire sopra tutte le borse. All'approssimarsi del colèra, nuove ed urgenti spese furono necessarie per ripulire il locale, per diminuire nel medesimo sito il numero dei letti, e quindi riattare altre camere a quest'uso destinate, provvedere biancheria ecc. Sappiamo di buon luogo che il bravo Sacerdote, benchè sempre eguale a sè medesimo e riposantesi tranquillamente in quella Provvidenza che non viene meno agli augelli dell'aria ed alle fiere del bosco, tuttavia si trova in gravi strettezze, ed è disposto a qualunque sacrificio, piuttostochè abbandonare i suoi cari giovani, ora che più che mai abbisognano di soccorso. Non dubitiamo che le anime generose verranno in aiuto dell'ottimo e caritatevole Sacerdote, alle quali il medesimo si dichiara debitore di tutto ciò che ha finora adoperato a vantaggio della gioventù ”.

   Così il cattolico giornale nel suo n. 95 dell'anno 1854, 10 agosto.

 Ma D. Bosco non pago dei provvedimenti terreni, si appigliò di gran cuore a provvedimenti di gran lunga più efficaci, ai provvedimenti celesti. Da persona degna di fede abbiamo saputo che; fin dai primi giorni del pericolo, Don Bosco prostrato dinanzi all'altare fece questa preghiera al Signore: - “ Mio Dio, percuotete il pastore, ma risparmiate il tenero gregge ”. Poscia rivolgendosi alla Beatissima Vergine disse: “ Maria, voi siete Madre amorosa e potente; deh! preservatemi questi amati figli; e qualora il Signore volesse una vittima tra noi, eccomi pronto a morire quando e come a Lui piace ”.

Era il buon Pastore, che offriva la vita pe' suoi agnelletti.

   Il 5 agosto, festa della Beata Vergine della Neve, che in quell'anno cadeva in sabato, egli ad una cert'ora della sera raccolse tutti i ricoverati intorno a sa, e tenne loro un discorsetto, che coll'aiuto dell'uno e dell'altro si potè ricomporre nella sua sostanza.

   “ Come avrete già udito, egli disse, il colèra è comparso in Torino, e vi furono già alcuni casi di morte. Molti in città ne sono costernati, e so che non pochi di voi ne vivono in pena. Voglio pertanto suggerirvi alcune cose in proposito, le quali se voi metterete in pratica, io spero che andrete tutti esenti dal terribile morbo.

   ” Primieramente dovete sapere che questo malore non è nuovo nel mondo. Di esso già si fa parola nei Libri Santi, nei quali Iddio ci avverte delle cause primarie che lo producono. - Il molto mangiare, dice l'Ecclesiastico, cagiona malattia, e la golosità conduce sino al coléra.- In multis escis erit infirmitas, et aviditas appropinquabit usque ad CHOLERAM. - Ma Iddio, che ci fa indicare i germi fatali di questo morbo, ci suggerisce anche i preservativi per evitarlo. - Sii frugale, Egli ci dice, delle vivande, che ti sono messe davanti. -Poco vino è sufficiente ad un uomo bene educato. - Altrove il Signore dà il rimedio, che vale più di ogni altro, e dice: - Allontanati dal peccato, raddrizza le tue azioni e monda il cuor tuo da ogni colpa.

   ” Ecco adunque, miei cari figli, i rimedii che vi suggerisco per andare esenti dal colèra. Essi sono pressochè i medesimi, prescritti dai medici: Sobrietà, temperanza tranquillità di spirito e coraggio. Ma come potrà avere tranquillità di spirito e coraggio chi è in peccato mortale, chi vive in disgrazia di Dio, chi pensa che morendo cade nell'inferno?

   ” Io voglio poi anche che ci mettiamo anima e corpo nelle mani di Maria. Il coléra sarà egli prodotto da cause naturali, come dall'infezione dell'aria, dal contatto e simili? In questo caso noi abbiamo bisogno di una buona medicina, che ce ne preservi. Or qual medicina migliore e più efficace, che la Regina del Cielo, chiamata dalla Santa Chiesa Salute degli infermi, Salus infirmorum? Oppure il morbo micidiale sarà piuttosto un flagello nelle mani di Dio, sdegnato pei peccati del mondo? E allora noi abbiamo bisogno di un'avvocata eloquente, di una madre pietosa, la quale colla sua valida preghiera, colla soavità, del suo amore ne plachi lo sdegno, ne disarmi la mano, e ci ottenga misericordia e perdono. E Maria è appunto questa avvocata, è appunto questa madre: Advocata nostra; Mater misericordiae; vita, dulcedo et spes nostra.

   ” Nell'anno 1835 questa istessa malattia fece pure la sua visita a Torino, ma la Vergine Santissima ne la cacciò ben tosto. In memoria di questa grazia, la città di Torino innalzò la bella colonna di granito, colla statua di marmo bianco della Beata Vergine in cima, che noi vediamo tuttora sulla piazzetta del Santuario della Consolata. Chi sa che Maria non sia per difenderci nuovamente in quest'anno, allontanando questo rio malore, o almeno non lasciandolo infierire con tanta forza tra noi?

   ” Oggi è festa della Madonna della Neve, e domani comincia la novena della più bella Solennità che la Chiesa celebri in onore di Maria Santissima; solennità che ci ricorda la sua placidissima e santa morte; solennità che ci rammenta il suo trionfo, la sua gloria, la sua potenza in Cielo. Io raccomando che domani ognuno di voi faccia una buona Confessione ed una santa Comunione, affinchè io possa offrirvi tutti insieme a Maria e pregarla a riguardarvi e proteggervi come suoi figli dilettissimi. Lo farete voi? ” - Sì, sì, fu risposto da tutti ad una voce.

   Qui D. Bosco si fermò un istante, e poi, ripresa la parola, proseguì con tono singolare, che non saprebbesi ripetere. Disse adunque e conchiuse:

   “ Causa della morte è senza dubbio il peccato. Se voi vi metterete tutti in grazia di Dio e non commetterete alcun peccato mortale, io vi assicuro che niuno di voi sarà tocco dal coléra; ma se mai qualcuno rimanesse ostinato nemico di Dio, e, quel che è peggio, osasse offenderlo gravemente, da quel momento io non potrei più essere garante nè di lui, nè per qualunque altro della Casa ”.

Così D. Bosco la sera del 5 agosto 1854.

   La penna è inetta ad esprimere l'effetto prodotto nei giovani da queste parole memorande. Parte in quella sera istessa, parte al domattina, tutti i giovani dell'Ospizio, con parecchi altri dell'Oratorio festivo, andarono a confessarsi e a fare la Santa Comunione.

Da quel giorno in poi la condotta religiosa e morale dei giovani dell'Ospizio fu di una tale edificazione ed esemplarità, che non si sarebbe potuto aspettare di più. Preghiera, frequenza ai Sacramenti, lavoro, obbedienza, carità, timor di Dio erano portati al più alto grado di perfezione. Soprattutto si aveva tanto timore di commettere peccati, che appena uno avesse detta una parola o fatta un'azione, la quale gli paresse offesa di Dio ancorchè leggiera, correva tosto a confidarla a Don Bosco e a domandargli opportuno consiglio e conveniente penitenza. Specialmente alla sera dopo le orazioni tutti lo circondavano, per esporgli i proprii dubbii, o manifestargli le piccole mancanze della giornata; e talvolta il paziente Sacerdote stava in piedi un'ora ed anche più, per udire e l'uno e l'altro, assicurando, confortando, consolando e mandandoli a dormire tutti contenti e tranquilli. Era quello uno spettacolo che muoveva alle lagrime e dava il più chiaro indizio della nettezza del cuore, che ciascun giovane voleva conservare per Dio.

   Anche i giovani, che frequentavano solamente l'Oratorio festivo, presero a condurre una vita molto virtuosa. Nei giorni del Signore si portavano puntualmete alle sacre funzioni, e si accostavano numerosi ai  Santi Sacramenti; lungo la settimana poi erano di esempio a quanti li vedevano e praticavano.

   Intanto i casi di coléra in Torino e nei sobborghi facevansi ogni dì più frequenti, e D. Bosco appena ebbe notizia che l'epidemia era scoppiata nei dintorni dell'Oratorio, senz'altro accorse ad assistere gli appestati. Mamma Margherita, che in varie circostanze aveva dimostrata tanta trepidazione per la vita del figlio, dichiarò essere doveroso per lui l'affrontare il contagio.

   Nello stesso tempo il Municipio torinese creava in fretta dei lazzaretti, per raccogliere i colerosi che non avessero mezzi di assistenza e di cura nella propria casa. Due di questi ospedali improvvisati vennero stabiliti nel Borgo S. Donato, che allora faceva ancor parte della parrocchia di Borgo Dora. Ma se al Municipio torinese riusciva facile fondare qua e colà lazzaretti, tornava poi difficilissimo il trovare persone, le quali ancorchè per paga volessero prestarsi a servire gli ammalati nei medesimi e nelle case private. Anche i più coraggiosi te­mevano di contrarre il malore, e rifiutavano di esporre a cimento la propria vita. Allora fu che alla mente di D. Bosco balenò un gran pensiero: pensiero, che gli suggerì una  generosa e nobile determinazione. Dopo essersi per parecchi giorni e parecchie notti prestato qua e colà all'assistenza dei colerosi, insieme con D. Alasonatti e con alcuni Sacerdoti di Torino ad­detti all'Oratorio festivo; dopo di aver veduto coi proprii occhi il bisogno in cui molti malati versavano, D. Bosco un giorno radunò i suoi giovani e fece loro una tenera parlata. Egli descrisse loro lo stato miserando, in cui tribolavano tanti poveri colerosi, alcuni dei quali soccom­bevano per mancanza del pronto e necessario soccorso. Disse il bell'atto di carità, che si era il consacrarsi in loro sollievo; che il divin Salvatore aveva assicurato nel santo Vangelo di riguardare come fatto a se stesso il servizio prestato agli infermi; che in tutte le epidemie, e nelle stesse pestilenze vi erano sempre stati Cristiani ge­nerosi, i quali avevano sfidata la morte allato degli ap­pestati, per servirli ed aiutarli nel corpo e nell'anima. Loro notificava come il Sindaco stesso erasi raccomandato, per avere degli infermieri ed assistenti; che D. Bosco con varii altri già si erano esibiti; e conchiudeva esprimendo il desiderio che alcuni de' suoi giovani si facessero suoi compagni in quell'opera di misericordia. - Queste parole di D. Bosco non caddero invano. I giovani dell'Oratorio le raccolsero religiosamente e si mostrarono degni figli di un tal padre. Quattordici di essi gli si presentarono bentosto, pronti a compiere i suoi desiderii, e gli diedero il proprio nome, per essere consegnato in nota alla Commissione sanitaria; e pochi giorni dopo altri trenta ne seguirono l'esempio.

Chi considera per una parte il terrore, che in quei giorni padroneggiava gli animi a segno, che molti, non esclusi i medici stessi, fuggivano dalla città, e che molti infermi venivano abbandonati dagli stessi parenti; e per altra parte rifletta alla età e naturale timidezza della gioventù in simili casi, non può non ammirare questo nobile slancio dei figli di D. Bosco, il quale ne andò sì lieto, che ne pianse di consolazione.

     Prima per altro di metterli in campo di battaglia, il buon padre loro prescrisse varie norme da seguire, affinchè l'opera loro tornasse ai colerosi vantaggiosa tanto pel corpo quanto per l'anima. La terribile malattia aveva generalmente due stadii o periodi; l'assalto cioè, il quale senza un pronto soccorso per lo più era mortale; e la reazione, per cui, ridestandosi nel corpo la circolazione del sangue, molti scampavano alla morte. Per la qual cosa chi prestava il suo servizio ad un coleroso doveva avere di mira il vincere la violenza dell'assalto, col produrgli addosso la reazione, la quale si procurava sopratutto per mezzo di moderate fregagioni e di caldi fomenti, con pannilani alle estremità del corpo, colte dal granchio e dal freddo. Su questo punto D. Bosco diede ai giovani infermieri ammaestramenti opportuni ed assai utili cognizioni, da renderli come altrettanti medici improvvisati. Egli aggiunse poi alcuni suggerimenti spettanti le partite dell'anima, affinchè per quanto dipendeva da loro niuno degli ammalati avesse a morire senza i conforti della Religione.

   Istruitili adeguatamente, venne stabilito un orario, e furono dispersi quali in uno e quali in un altro luogo. Gli uni dovevano porgere il loro aiuto nei lazzaretti, gli altri nelle case particolari, questi in una e quegli in un'altra famiglia. Alcuni poi giravano all'intorno per esplorare, se vi fossero malati non ancora conosciuti; altri rimanevano a casa, per essere ognora pronti alla prima chiamata.

   Appena si seppe che i giovani dell'Oratorio eransi consacrati alla cura ed assistenza dei colerosi, e che riuscivano eccellenti infermieri, le domande per averli si moltiplicarono talmente, che dopo una settimana si dovette rinunziare allo stabilito orario. Parenti, vicini, conoscenti, Municipio, tutti facevano capo a D. Bosco, così che si può dire che i giovani erano sempre in moto. Alcuni giorni avevano appena tempo a prendere un boccone di pane, e talvolta in fretta nella casa stessa del coleroso. Di notte poi era un continuo andirivieni, e chi si levava e chi si coricava, e parecchie furono le notti che passarono insonni o presso gli infermi, o vegliando senza un bricciolo di riposo, ma sempre lieti e contenti.

   Da principio, prima di recarsi al caritatevole uffizio, ciascuno si muniva di una boccetta di aceto, o di una dose di canfora e simili; ritornato poscia a casa si lavava e profumava, per disinfettarsi; ma in appresso questa operazione si sarebbe dovuta fare così di sovente, che fu d'uopo darle il bando, per non perdere tempo. Allora ad altro più non pensarono che ai loro poveri infermi, lasciando la cura di se stessi alla divina Provvidenza.

   Nè in quei dolorosi frangenti l'opera dell'Oratorio fu solamente personale; poichè, quantunque poveri, poterono nondimeno provvedere anche materialmente a molti malati. Avveniva sovente di trovarsi presso ad un infermo, che mancava di lenzuola, di coperte, di camicie e di questo e di quello. Vedendo tanta penuria delle cose più necessarie, si veniva a casa, si esponeva il fatto alla buona mamma Margherita; ed essa ai loro racconti presa da tenera compassione andava alla guardaroba, n'estraeva e somministrava gli oggetti, secondo il bisogno. All'uno dava una camicia, all'altro una coperta, a questo un lenzuolo, a quello un asciugamano, e così via via. In capo a pochi giorni non si possedeva più nulla fuori di ciò che si portava indosso, o serviva a ravvolgersi in letto.

   Un giovane infermiere le venne un giorno a raccontare come un suo malato, colto allora allora dal terribile morbo, si dimenava in un misero giaciglio senza lenzuola, e le domandava un qualche lembo per coprirlo. La caritatevole donna andò tosto in cerca, se mai le venisse tra mano qualche oggetto di biancheria; ma non trovò più altro che una tovaglia da tavola. - Prendi, disse la pietosa madre; ecco l'unico oggetto di biancheria che ancor mi rimanga: va e ingegnati alla meglio col tuo povero malato. - E quel giovanetto correre dal suo infermo tutto contento di poterlo avvolgere in un qualche cosa di pulito.

   Ma le domande di soccorsi continuavano: erano povere madri di famiglia che venivano a raccomandarsi per le loro figlie, o ragazze per le loro madri, o altre donne che si prestavano per l'ufficio di infermiere; e Margherita, donate le sue cuffie, il suo scialle, terminava con dar loro le sue vesti e le mezze sottane, in modo da non avere più altri panni fuori di quelli che indossava.

  Un giorno le si presenta una persona  chiedendo ancora qualche oggetto per coprire i sofferenti. Margherita è presa da vivo dolore per non aver più niente da donare. Poi, colpita da una subitanea idea, prende una tovaglia della mensa dell'altare, un amitto, un camice e va a chiedere licenza a D. Bosco di poter dare in elemosina quegli oggetti di chiesa. D. Bosco concede e Margherita porge tutto alla richiedente. Così i sacri lini rivestivano le membra di Gesù Cristo, chè tali sono i poverelli. D. Bosco aveva scritto di sua mano sovra un foglio: Si può egli fare cosa più degna dei vasi destinati a contenere il sangue del Redentore che col ricomprare per la seconda volta coloro che sono già stati comprati col prezzo di questo sangue medesimo Così S. Ambrogio, costretto dalla necessità a vendere i vasi sacri in riscatto degli schiavi. Il suo caso equivaleva a quello del santo Vescovo di Milano.

  Il Governo intanto aveva designato di sbarazzarsi degli ordini monastici; e Urbano Rattazzi, col pretesto del coléra, il 9 agosto avvertì la Curia che, non bastando i Lazzaretti municipali, intendeva occupare i conventi di S. Domenico e della Consolata, e i monasteri delle Lateranensi e delle Cappuccine. Il Provicario Fissore fece le necessarie rimostranze, poichè trattavasi di violare la clausura, senza la Superiore autorizzazione Ecclesiastica; e protestò di non poter acconsentire a tale usurpazione. Rattazzi gli rispose acerbamente che gli ordini dati non potevano essere discussi, e il solo Governo essere giudice competente dei bisogni della società civile. E il 18 agosto le guardie alle 3 del mattino davano la scalata al monastero delle Canonichesse Lateranensi e conducevano le suore ad una villa della Marchesa di Barolo presso la città; e la notte del 22, quaranta tra carabinieri e guardie, rotta la ruota, invadevano il monastero delle Cappuccine, e trovate le monache che pregavano in coro, le costringevano ad uscire, e in carrozze trasportatele a Carignano le chiudevano nel monastero di S. Chiara.

I Religiosi dovettero pur sgombrare da S. Domenico e dalla Consolata, rimanendovi i soli necessarii per il servizio delle Chiese. Collo stesso pretesto furono usurpati qua e là varii altri conventi in Piemonte; e i Certosini vennero espulsi colla forza dalla magnifica Certosa di Collegno per mutarla poi in Ospedale de' pazzi. Tutto ciò si faceva a dispetto dei diritti riconosciuti dallo Statuto, mentre quelle case religiose non servirono menomamente allo scopo pel quale il Ministro ne aveva preso possesso.

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