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CAPO XXVI

Quando il padre di Domenico il vide pro¬≠ferire parole nel modo che abbiamo riferito, e poi piegare il capo come per riposare, pensavasi realmente che avesse di nuovo preso sonno. Lo lasciò alcuni istanti in quella posizione, ma tosto volle chiamarlo, e si accorse che egli era già fatto cadavere.


CAPO XXVI

da Spiritualità Salesiana

del 05 maggio 2009

Annunzio di sua morte. Parole del prof. D. Picco ai suoi allievi.

Quando il padre di Domenico il vide pro­ferire parole nel modo che abbiamo riferito, e poi piegare il capo come per riposare, pensavasi realmente che avesse di nuovo preso sonno. Lo lasciò alcuni istanti in quella posizione, ma tosto volle chiamarlo, e si accorse che egli era già fatto cadavere. Lascio ad ognuno immaginare la desolazione dei genitori per la perdita di un figliuolo che alla innocenza, alla pietà univa i modi più graziosi e più atti a farsi amare!

Noi pure quivi nella casa dell’Oratorio eravamo ansiosi di avere notizie di questo venerato amico e compagno; quando ricevo dal padre di lui una lettera che incomin­ciava così: «Colle lagrime agli occhi le annunzio la più trista novella: il mio caro figliuolo Domenico, di lei discepolo, qual candido giglio, qual Luigì Gonzaga, rese l’anima al Signore ieri sera 9 del corrente mese di marzo dopo di aver nel modo più consolante ricevuto i santi Sacramenti e la benedizione papale».

Tale notizia pose, in costernazione i suoi compagni. Chi piangeva in lui la perdita di un amico, di un. consigliere fedele; chi sospirava di aver perduto un modello di vera pietà. Alcuni si radunarono a pregare pel riposo dell’anima di lui. Ma il mag­gior numero andavano dicendo: Egli era santo, ora è già in paradiso. Altri comin­ciarono a raccomandarsi a lui come ad un protettore presso Dio. Tutti poi andarono a gara per avere qualche oggetto che avesse appartenuto a lui.

Recata quella notizia al prof. D. Picco, ne fu profondamente addolorato. Come furono radunati i suoi alunni, tutto commosso par­tecipava loro il tristo annunzio con que­ste parole:

«Non è molto tempo, o giovani caris­simi, parlandovi a caso della caducità della vita umana, vi faceva osservare come la morte non risparmii talvolta anche la vostra florida età, e per esempio vi adduceva, come or son due anni, in questi stessi giorni frequentava questa medesima scuola, sedeva qui presente ad ascoltarmi un gio­vane pieno di vita e di vigore, il quale, dopo l’assenza di pochi giorni, passava da questa vita, dai parenti e dagli amici compianto ([1]). Quando io vi rammentava quel caso doloroso era ben lungi dal pensare che il presente anno avesse ad essere fu­nestato da un somigliante duolo, e che tale esempio si avesse a rinnovare sì presto in uno di quelli stessi che mi ascoltavano. Sì, miei cari, io debbo amareggiarvi con una dolorosa nuova. La falce della morte mieteva ieri l’altro la vita di uno tra i più virtuosi vostri compagni, del buon giovinetto Domenico Savio. Voi forse vi ricorderete, come negli ultimi giorni, in cui frequentò la scuola, si mostrasse tormentato da una tosse maligna, che già mi faceva presagire una seria malattia, onde nissuno di noi si stupì quando udimmo che era stato da quella obbligato ad assentarsi dalla scuola. Per meglio curare il suo morbo, e già pre­vedendo, come replicatamente disse ad al­cuni, il suo prossimo fine, egli secondò il consiglio de’ medici e de’ suoi superiori, e andò in seno della famiglia. Quivi la vio­lenza del male si sviluppai oltre modo e dopo soli quattro giorni di malattia rese l’innocente suo spirito al Creatore.

Io lessi ieri la lettera, con cui il deso­lato genitore dava la dolorosa nuova, e questa nella sua semplicità faceva tale pit­tura della santa morte di quell’angelo, che mi commosse fino alle lagrime. Egli non trova espressioni più acconcie a lodare l’a­mato suo figliuolo che col chiamarlo un altro S. Luigi Gonza sì nella santità della vita come nella beata rassegnazione alla morte. Io vi assicuro che assai mi duole, che egli abbia frequentato sì poco la mia scuola, e che in questo breve tempo la sua poca sanità non mi abbia permesso di conoscerlo o praticarlo più che si può fare in una scuola alquanto numerosa. Per­ciò io lascio a’ suoi superiori il dirvi quale fosse la santità dei suoi sentimenti, quale il suo fervore nella divozione e nella pietà; lascio a’ suoi compagni ed amici, che quo­tidianamente lo avevano seco, e con lui domesticamente conversavano, il dirvi la modestia de’ suoi costumi e di ogni suo portamento, la severità de’ suoi discorsi; lascio a’ suoi parenti il dirvi quale fosse la sua obbedienza, il suo rispetto, la sua docilità. E che potrò io ricordarvi che a tutti voi non sia già noto? Io altro non dirò se non che sempre si rese commende­vole pel suo contegno e per la sua tran­quillità nella scuola, per la sua diligenza ed esattezza nell’adempimento di ogni suo dovere, e per la sua continua attenzione a’ miei insegnamenti, e che io sarei beato se ognuno di voi si proponesse di seguirne il santo esempio.

Prima ancor che l’età e gli studi gli per­mettessero di frequentare la nostra scuola, essendo egli da tre anni annoverato tra quelli che hanno ricetto ed istruzione presso l’Oratorio di S. Francesco di Sales, io ne aveva più volte udito a fare parola dal di­rettore di quell’Oratorio, e lo aveva udito ad encomiare come uno tra i più studiosi e virtuosi giovani di quella casa. Tale era il suo ardore nello studio, tale il rapido progresso che aveva fatto nelle prime scuole di latinità; che sommo era il mio deside­rio di porlo nel numero de’ miei allievi e grande era l’aspettazione che io aveva della felicità del suo ingegno. E prima di averlo in iscuola già l’aveva annunciato ad alcuno de’ miei allievi come un emulo, con cui bello sarebbe stato il gareggiare non meno nello studio che nella virtù. E nelle fre­quenti mie visite all’Oratorio scorgendo in lui una fisonomia sì dolce, quale voi sa­pete essere stata la sua, scorgendo quel suo sguardo sì innocente, mai nol vedeva che non mi sentissi tratto ad amarlo e ad ammirarlo. Alle belle speranze, che io ne aveva concepite, certamente egli non venne meno allorché nel presente anno scolastico prese a frequentare la mia scuola. A voi mi appello, giovani dilettissimi, che siete stati testimoni del suo raccoglimento e della sua applicazione non solamente nel tempo che il dovere lo chiamava ad ascoltarmi, ma in quello eziandio, il quale per lo più non si fanno scrupolo di perdere molti gio­vanetti, i quali non sono privi di docilità e diligenza. A voi domando, che gli eravate compagni non solo nella scuola, ma pur anche negli usi domestici della vita, se mai lo avete veduto a far cosa che lo mostrasse dimentico di alcuno dei suoi doveri.

Parmi ancora di vederlo, quando con quella modestia, che era tutta sua propria, entrava nella scuola, prendeva il suo luogo e in tutto il tempo dell’ingresso, lungi dal vano cicaleccio consueto dei giovani della sua età, ripeteva la sua lezione, scri­veva annotazioni, oppure si tratteneva in qualche utile lettura; e quindi cominciata la scuola con quale applicazione io vedeva quel suo angelico volto pendere dalle mie parole! Perciò non fa maraviglia se non ostante la sua tenera età e la sua poca sa­lute fosse grandissimo il profitto che col suo ingegno dagli studi ricavava. E prova ne sia che in un considerevole numero di giovani, la maggior parte di più che me­diocre ingegno, benché già covasse in seno la malattia, che alfine lo trasse alla tomba, e fosse perciò obbligato a frequenti assenze, tuttavia egli tenne quasi sempre i primi posti della sua classe. Ma una cosa destava in modo affatto particolare la mia attenzione, e traeva a sé la mia ammirazione, ed era il vedere come quella giovanile sua mente si mostrasse unita con Dio, ed affettuosa e fervida nelle preghiere. Ella è cosa con­sueta anche nei giovani meno dissipati, che tratti dalla naturale vivacità e dalle distra­zioni, a cui va soggetta questa fervida vo­stra età, pochissima riflessione facciano al senso delle orazioni, cui sono invitati a recitare e quasi con nessuno affetto del cuore le accompagnino. Onde avviene che in gran parte di essi niente altro vi ha che le labbra e la voce. Ora se così abituale è la distrazione della gioventù anche nelle preghiere che indirizzano al Signore nel silenzio e nella tranquillità delle chiese, oppure nella solitudine delle proprie celle, nelle quotidiane orazioni, voi, o giovani, lo sapete quanto questo avvenga più facilmente in quelle brevissime preghiere che sogliono dirsi prima e dopo le lezioni della scuola. Ed è appunto in queste che mi fu dato di pietà, e l’unione dell’anima sua con Dio. Quante volte io l’osservai con quel suo sguardo rivolto al cielo, al cielo che sì presto doveva essere la sua dimora, raccogliere tutti i suoi sentimenti, e con quell’atto offrirli al Signore ed alla Beatissima sua madre, con quella pienezza di affetti che appunto richiedono le recitate pre­ghiere! E questi sentimenti, o amatissimi giovani, erano poi quelli, che animavano i suoi pensieri nel compiere ogni suo dovere, erano quelli, che ogni suo atto, ogni sua parola santificavano, che tutta la stia vita interamente dirigevano alla gloria di Dio. O beati quei giovani che a tali concetti s’inspirano! Faranno la loro felicità in questa vita e nell’altra, e beati renderanno i parenti che li educano, i maestri che li istruiscono, tutte le persone che si occu­pano del loro bene.

Dilettissimi giovani, la vita è un dono preziosissimo, che Iddio ci fece, per darci il mezzo di acquistarci dei meriti pel cielo, e così sarà se tutto quello che noi facciamo è tale che offerir si possa a quel supremo Donatore, come appunto faceva, il nostro Domenico. Ma che direm noi di quel gio­vane, che passa tutta intera la vita dimen­tico affatto del fine a cui Dio lo ha desti­nato, che mai non trova un momento, in cui pensi a dedicare i suoi affetti al Crea­tore, che nel suo cuore; non dà mai luogo ad alcuna aspirazione che lo sollevi verso il suo Dio? Inoltre che diremo di quel gio­vane che fa quanto sta in lui per tenere da sé lontani simili sentimenti, o per combat­terli o soffocarli, se li sente vicini a pene­trare nel suo cuore? Deh! riflettete alquanto sulla santa vita e sul santo fine del caris­simo vostro compagno, sulla invidiabile sorte, di cui possiamo avere fiducia che goda; e quindi ritornando col pensiero su di voi stessi esaminate che cosa, ancora vi manchi per somigliargli e quali voi essere vorreste, se al par di lui vi trovaste sul punto di dovervi presentare a quel tribu­nale ove Dio chiederà a tutti stretto conto di ogni più leggero mancamento. Quindi se a questo confronto voi ritrovate che grande sia la differenza, proponetevelo per esempio, imitatene le cristiane virtù, disponete l’a­nima vostra ad essere come la sua, pura e monda agli occhi di Dio, acciocché all'im­provvisa chiamata, la quale immancabil­mente o tosto o tardi dovrà udirsi da tutti noi, le possiamo rispondere coll’ilarità sul volto, col sorriso sulle labbra, come fece l’angelico vostro condiscepolo. Ascoltate ancora un mio voto, con cui io conchiudo queste mie parole. Se io m’accorgerò che i miei allievi diano luogo nella loro con­dotta ad un notevole miglioramento, se li vedrò d’or innanzi più esatti nei loro do­veri, e più compresi nell’importanza di una vera pietà, lo crederò effetto del santo e­sempio del nostro Domenico e lo riguarderò quale grazia di lassù impetrata dalle sue preghiere in premio di essergli stati per breve tempo voi compagni ed io maestro.»

Così il professore D. Picco esponeva ai suoi allievi la profonda e dolorosa sensazione provata all’annunzio della morte del caro suo alunno Savio Domenico.

[1] Leone Cocchis studente di 2a Retorica, giova­netto di belle speranze, morto il 25 marzo 1855 in età di 15 anni.

san Giovanni Bosco

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