Attingendo da una nuova biografia di Charles de Foucauld (Strasburgo, 15 settembre 1858 - Tamanrasset 1° dicembre 1916), l'articolo ripercorre le tappe di questo eccezionale «piccolo fratello universale», dalla conversione sino all'eremitaggio tra i magrebini del profondo Sahara. Quando alcuni tuareg ribelli ne stroncarono brutalmente la vita, il suo ideale di fraternità universale, nato ai piedi dell'Eucarestia, fu trasportato lontano dal vento sahariano.
del 17 luglio 2006
 
Una vita fatta di contemplazione, preghiera e servizio agli ultimi quella di Charles de Foucauld (1858-1916), beatificato il 13 novembre 2005 alla presenza degli «uomini blu» del deserto, quei tuareg che egli aveva tanto amato e per i quali si era annullato fino a diventare l’ultimo tra i poveri. Con gli sconfinati orizzonti sahariani e il loro assoluto silenzio, rotto dalle preghiere che i tuareg intonavano cinque volte al giorno, era stato amore a prima vista. Fu il deserto a riportarlo sulla via della fede, a fargli scoprire che l’inquietudine del cuore trova pace soltanto nelle ore di preghiera, ai piedi dell’Eucarestia. Proprio questo anelito lo spinse dove nessun religioso era mai giunto — a Hoggar, nel profondo sud dell’Algeria —, per recarvi una testimonianza di fede e pace universale. Come Gesù a Nazaret, voleva che la propria presenza testimoniasse soltanto bontà e fratellanza.
Nell’eremo di Beni-Abbès, nella provincia di Orano, al confine col Marocco, aveva messo questi cartelli: «Se qualcuno vuole essere mio discepolo, rinunzi a se stesso, prenda la croce e mi segua»; «Fatevi tutto a tutti, con l’unico desiderio di donare a tutti Gesù»; «Vivere oggi, come se dovessi morire stasera, martire». E quando la prima guerra mondiale, sconfinando dal continente europeo, armò la mano che lo uccise proprio nel suo eremo di pace, quella morte fu semplicemente l’esito più conforme a una vita che, dopo la conversione, era stata pura lode di Dio, rimettendosi totalmente nelle sue mani, fino a dissolversi come il chicco di grano, che tuttavia qui vediamo rinascere anche nel deserto e diventa ancora vita per quanti ne sanno raccogliere l’arduo esempio1.
 
 
La via della conversione
 
Charles de Foucauld nasce a Strasburgo il 15 settembre 1858 da nobile famiglia francese, ma nel 1864 viene sconvolto da un dramma: in pochi mesi perde entrambi i genitori. A prendersi cura di lui e della sorella Marie è il nonno materno, Charles-Gabriel de Morlet, che dopo la guerra franco-prussiana si trasferisce a Nancy, optando per la nazionalità francese. Qui Charles compie gli studi secondari e poi a Parigi frequenta il liceo dei gesuiti, in rue des Postes. Dirà più tardi, ricordando quegli anni: «Penso di non essermi mai trovato in uno stato d’animo più deplorevole. A 17 anni ero solo egoismo, vanità, empietà, desiderio del male: ero come fuori di me», e tristemente ammette che, «di fede, non restava traccia nella mia anima»2. Conseguita la maturità, affronta l’esame per l’Accademia militare di Saint-Cyr, dove entra nel 1876, e un biennio dopo lo troviamo alla scuola di cavalleria di Saumur.
In entrambi gli ambienti si distingue per indisciplina e trasgressività, per le serate fitte di gioco a carte e ragazze, per i sigari di qualità che fuma e i vestiti costosi che indossa. Nel 1880 raggiunge per la prima volta quel deserto che in seguito lo affascinerà. È in Algeria col 4º battaglione ussari — in seguito 4º cacciatori d’Africa —, già col grado di luogotenente, ma ancora una volta prevale la trasgressione: si è portato dalla Francia un’amante, con la quale vive more uxorio. Quando il colonnello, scoperta la relazione, gli impone di mettervi fine o di andarsene, Charles, che non è tipo da arrendersi, rientra in Francia. Ma quando, nella primavera del 1881, apprende dell’insurrezione a Bou-Amama, nel Sahara del sud, non resiste al pensiero che i suoi compagni si battano senza di lui. Riparte per l’Algeria, raggiunge il fronte e durante la battaglia si distingue per coraggio e solidarietà.
Il deserto e i suoi abitanti li ha ormai nel cuore, al punto da fargli chiedere una licenza per intraprendere un viaggio nelle regioni subsahariane, per studiarle a fondo. Aveva soltanto 24 anni: l’ignoto dominava nel suo futuro, ma fin d’allora sentiva di essere nato per abitare quel deserto e ascoltare il silenzio che riempiva quei vasti orizzonti. Stabilitosi ad Algeri, inizia a preparare una esplorazione del Marocco, Paese chiuso e diffidente verso gli stranieri. Ma prima bisognava imparare l’arabo, così gli riemerge la voglia di sapere — trascurata durante gli anni scolastici — e comincia a frequentare biblioteche, a prendere lezioni private, a interpellare quanti potevano aiutarlo. Incontra Oscar Mac Carthy, un vecchio esploratore che aveva viaggiato molto in Africa: senza scorta né bagagli, senza badare alle comodità materiali, con le tasche piene soltanto di taccuini e di carte manoscritte. Oscar gli dice che il problema maggiore è la scelta del travestimento, essendo impossibile entrare in quel Paese ostile senza celare il proprio status di cristiani. Soltanto due modi di vestire lo avrebbero fatto passare inosservato: arabo o ebreo. Charles opta per quest’ultima foggia e, scelto un rabbino come guida, parte da Tangeri il 20 giugno 1883.
Il viaggio gli consente di realizzare un’opera scientifica — insieme geografica, militare e politica, Reconnaissance au Maroc3  —, ma è anche l’occasione per intraprendere una «ricognizione» dentro la propria anima. Rientra in Francia profondamente cambiato e, dopo aver invano tentato di dimenticare quei luoghi, nel settembre 1885 riparte per l’Algeria, dove percorre chilometri e chilometri, per ascoltare nel silenzio della notte la voce del deserto, per guardare l’immensità del cielo stellato, per capire la ragione del fascino che emana da quel Paese fatto di sabbia e di luce. In particolare, rimane colpito dalla fede dei musulmani e dalla loro costante invocazione a Dio; quelle preghiere lo mettono di fronte alla sua mancanza di fede e così, dopo anni passati a soffocare quella nostalgia, essa torna a galla più forte che mai: riconosce gli errori del passato e cerca di rispondere alle domande che vanno moltiplicandosi in lui.
Dio, che sa manifestarsi pure attraverso vie insolite, lo attese una sera a casa di una cugina, facendogli incontrare l’abbé Huvelin: uomo di grande fede, capace di parlare alle anime e di riconoscere il loro dolore. Egli intuì subito cosa domandavano gli occhi inquieti di quel giovane, ma non fece pressioni e aspettò. A fine ottobre 1886 era in confessionale, a Saint-Augustin, e Charles si recò a chiedergli di istruirlo, perché non aveva fede. L’abbé lo fece inginocchiare e lo invitò a confessarsi a Dio; poi gli diede l’Eucarestia. Da quel momento Charles de Foucauld ritrovò la pace, che ora traspariva dal sorriso e dalle parole, dalle lettere che sempre più spesso parlavano di Dio, dalla vita che conduceva in casa della sorella Marie e dalla ricerca per scoprire la chiamata di Dio. Per questo fece un viaggio in Terra Santa e, mentre attraversava le vie di Nazaret, meditando sulle parole dell’abbé Huvelin — «Nostro Signore ha talmente occupato l’ultimo posto che mai nessuno è riuscito a sottrarglielo» (p. 116) —, ebbe la netta sensazione di essere chiamato alla vita nascosta, in tutta umiltà.
 
Fratel Albéric e il richiamo del deserto
 
Tornato a Parigi, nel marzo 1889, gli resta l’ultimo problema da risolvere: quale ordine religioso gli è più adatto? Fa diversi ritiri, passa mesi in preghiera e finalmente sente di essere attirato verso la trappa per cui, lasciato ogni suo bene alla sorella, raggiunge Notre-Dame-des-Neiges, dove viene ammesso in noviziato con il nome di fratel Marie-Albéric. Nonostante la durezza caratteristica della trappa, Charles si distingue per servizievolezza, austerità, ponderato giudizio, ma soprattutto per l’umiltà, che traspare da ogni suo gesto e dalle parole che scrive alla sorella: «Per me tutto continua ad andare veramente bene. Fin dal primo giorno, la mia vita procede con regolarità. E la mia anima, come va? Proprio non ci speravo: il buon Dio mi fa trovare nella solitudine e nel silenzio una consolazione sulla quale non contavo. Sono costantemente e assolutamente con lui e con coloro che amo»4. Fare la volontà di Dio era il suo unico desiderio, e proprio quella volontà adesso gli chiede di lasciare Notre-Dame-des-Neiges e stabilirsi nel più remoto monastero dei trappisti in Siria. Tornava il richiamo della solitudine nel deserto, il fascino di quei luoghi silenziosi, per vivere in maggiore povertà, vicino alla Terra Santa, dove il Figlio di Dio aveva operato e sofferto.
Parte da Marsiglia il 27 giugno 1890 diretto alla trappa di Cheïkhlé — un monastero sperduto tra le montagne, con una ventina di trappisti —, dove prosegue il noviziato scandito tra lavoro nei campi, meditazione, lettura e preghiera, fino al giorno della sua professione religiosa, il 2 febbraio 1892. Ma fratel Albéric, che vuole seguire una regola ancora più esigente di quella trappista, ha l’ispirazione di fondare una piccola congregazione che ricalchi al massimo la vita di Gesù: soltanto così egli ritiene possibile testimoniare l’amore di Dio nei Paesi abbandonati e dove si ignora il Vangelo. Per farlo, però, deve uscire dall’Ordine nel quale è appena entrato. Ne parla col suo confessore, dom Polycarpe, e scrive all’abbé Huvelin i dubbi che lo assillano. Il vecchio direttore spirituale sapeva bene che era impossibile trattenerlo quando sentiva dentro «la misteriosa chiamata» e perciò, dopo vari scambi epistolari, lo autorizza a seguire quel progetto di vita solitaria e totalmente nascosta, ma respinge la regola scritta per la fondazione dei Piccoli Fratelli di Gesù, ritenendola impossibile per l’eccessiva severità.
È il febbraio 1897 quando parte da Brindisi5 per raggiungere la Terra Santa con un biglietto regalatogli dai trappisti e, una volta arrivato a Nazaret, si reca dalle clarisse per avere un posto come domestico. La badessa, madre Saint-Michel, sapeva bene chi aveva di fronte e lo prese come sacrestano: avrebbe dormito in una capanna all’ombra del monastero, ricevuto un pezzo di pane al giorno, avuto tutto il tempo per pregare. Era quanto cercava, e la vita eremitica che riuscì a condurre lo rese felice, permettendogli di applicare la sua regola alle ore del giorno e della notte, scandite tra lavoro e preghiera. L’anno dopo madre Saint-Michel lo invia a Gerusalemme, per consegnare una lettera a quelle clarisse. Arrivò stremato, con i piedi piagati dal lungo cammino e madre Élisabeth du Calvaire lo trattenne per qualche tempo. Sicura della grande intelligenza come dell’immensa fede di quell’uomo, che si era presentato come un mendicante, la badessa riuscì a convincerlo, con l’aiuto dell’abbé Huvelin, ad abbracciare il sacerdozio. All’inizio dell’agosto 1900 Charles torna così a Notre-Dame-des-Neiges, dove lo attendeva dom Martin, che gli fa completare la preparazione al sacerdozio nel seminario del clero a Viviers (Ardèche). Fu un anno di studio, preghiera, clausura, ma anche di riflessione, durante il quale scopre di essere chiamato non soltanto al puro nascondimento di Nazaret, ma a vivere quella forma di vita portando l’Eucarestia nelle contrade più selvagge, tra gli «infedeli» e le anime più dimenticate o smarrite.
Il 9 giugno 1901 viene ordinato sacerdote e rimane fra i trappisti in attesa della risposta: aveva chiesto di stabilirsi tra Aïn e il Touat, in una delle guarnigioni francesi prive di sacerdote, ed essere autorizzato ad aggregare alcuni compagni per praticare l’adorazione del SS. Sacramento. A settembre prende congedo dai trappisti di Notre-Dame-des-Neiges e sbarca nella sua Africa, portando con sé soltanto il necessario per costruire la cappella e qualche libro. I soldati francesi, saputo che il ben noto esploratore, già loro camerata, era giunto nel deserto per rispondere a un richiamo così nobile e ammirevole, lo accolsero con entusiasmo e vollero scortarlo fino a Beni-Abbès6. Qui compra un terreno dove passava l’acqua e inizia, con l’aiuto dei fucilieri, a costruire un eremo, iniziando dalla cappella in cui avrebbe esposto l’Eucarestia7. Passa tante ore del giorno e della notte in meditazione o in adorazione, steso ai piedi dell’altare; il resto del tempo lo dedica ai soldati, che vanno a trovarlo per avere un consiglio, per farsi benedire o semplicemente per ascoltare quell’uomo che ispirava pace e santità. Egli li accoglieva nel «terreno della fraternità» — come lo aveva definito —, li ascoltava e poi li accompagnava sul limitare che, tracciato dalle pietre, rappresentava lo spazio della clausura.
 
 
Il «marabutto cristiano» che amava i magrebini
 
Gli abitanti di Beni-Abbès cominciarono a guardare il «marabutto cristiano» — nel lessico magrebino significa santone, eremita — con un misto di timore e ammirazione. Ma, poco a poco, si avvicinarono sempre più all’eremo, ed egli volentieri sacrificò qualcosa di quella contemplazione, respiro della sua anima, per riceverli fraternamente e aiutarli. Apriva la sua casa a nomadi inaffidabili, a schiavi corrotti e a quanti avevano bisogno di un rifugio, perché voleva abituare tutti, «cristiani, musulmani, ebrei e idolatri, a considerarmi il loro fratello, il loro fratello universale. Tutti cominciano a chiamare questa casa “la fraternità”, e ciò mi fa molto piacere» (p. 238). E affinché questo proposito diventasse realtà, esauriva quel che aveva per riscattare qualche giovane schiavo.
La vita che conduceva nel deserto era fatta di poco sonno, di molto lavoro, di consolazione per gli afflitti, di pochissimo cibo, ma soprattutto di contemplazione e preghiera davanti alla fonte del suo amore, l’umile tabernacolo. Attraverso la testimonianza della carità, dell’umiltà, della fraternità e del perdono, Charles de Foucauld cerca di seguire il Vangelo e di portare Gesù tra quei musulmani, che sembrava impossibile convertire. L’impresa era difficile, ma un segno arrivò quando una giovane donna tuareg, durante l’attacco alla missione Flatters, non solo curò i feriti, ma si oppose alla loro uccisione. Non era forse questa la carità cristiana? Quella che fa amare tutti gli esseri umani, senza eccezione? Ora Charles non aveva più dubbi: sarebbe andato in mezzo ai tuareg, gli «uomini blu» nomadi del deserto, per portare loro il messaggio di fraternità universale e di amore cristiano. Con l’aiuto del comandante Laperinne iniziò una visita nelle regioni dell’Ahnet, dell’Adrar e dell’Hoggar, per conoscere le sei grandi componenti del popolo tuareg e per avvicinarsi alla loro lingua.
Nella primavera del 1905 si trasferisce nel cuore dell’Hoggar, precisamente a Tamanrasset, un villaggio lontano dai centri principali, in piena montagna, abitato dai gag-rali. Di quel periodo ci resta una foto, ormai universalmente nota, con Charles sulla porta della capanna, vestito con una tunica bianca che sul petto ha cucito un cuore rosso, sormontato da una croce8. Studia il tamacheq, la lingua tuareg, per tradurre la Bibbia e cerca di fare i primi approcci con i suoi vicini nomadi entrando nei giardini dove lavorano, parlando con loro, distribuendo farmaci e piccoli regali, come gli aghi, di cui le donne hanno tanto bisogno. Nella primavera del 1907 gli fu proposto di aggregarsi alla missione di pace e civiltà del capitano Dinaux, e Charles, che vedeva in questo viaggio l’occasione per approfondire la conoscenza della lingua tuareg, accetta. In ogni villaggio o accampamento prometteva un soldo per ciascun verso, per i canti d’amore o di guerra, per le poesie antiche o recenti del popolo tuareg.
Per comprendere questi momenti aveva cercato di afferrare ogni parola smarrita nel deserto e ne aveva fatto un piccolo pezzetto del suo cuore, sentendosi parte di quel Paese. Era convinto che la volontà di Dio si stava compiendo attraverso la sua permanenza nell’Hoggar e mediante la stesura di un glossario9, a cui stava dedicando tempo ed energie in quanto elemento essenziale di comunicazione e comprensione reciproca. Si era fatto piccolo e povero, annullandosi in una vita nascosta, pur di portare la testimonianza evangelica a quei popoli che il deserto aveva a lungo nascosto. Sapeva che non li avrebbe conquistati con la predicazione, ma soltanto con la presenza dell’Eucarestia, con l’esempio, la penitenza, la fraterna carità universale. Non si sbagliava, e quando improvvisamente il «marabutto cristiano» si ammalò gravemente, i tuareg si presero cura di lui portandogli il poco latte di capra che avevano, pur di farlo guarire. Riuscì a riprendersi e continuò a muoversi da un eremo all’altro, fece dei viaggi in Francia, per l’insistenza della sorella che voleva rivederlo, subì il dolore di due gravi perdite: quelle di padre Guérin, suo direttore spirituale, e dell’abbé Huvelin, che morirono entrambi nel 1910.
Intanto i tuareg, colpiti dalla siccità, erano migrati verso Asekrem, una località di montagna nell’Hoggar, dove Charles li seguì, costruendovi un nuovo piccolo eremo pur di non lasciarli. «Questo è un bel posto per adorare il Creatore. Possa il suo regno stabilirsi qui! Ho il vantaggio di avere molte anime intorno a me e di essere veramente solitario sulla vetta. L’anima non è fatta per il rumore, ma per il raccoglimento, e la vita deve essere una preparazione al cielo, non solo attraverso le opere meritorie, ma anche attraverso la pace e il raccoglimento in Dio» (p. 422). Questi erano i suoi pensieri mentre riceveva le famiglie tuareg dentro un abitacolo che somigliava più a un corridoio, e condivideva con loro il poco cibo che aveva. La sua preoccupazione maggiore era quella di rendersi utile e sollevare quel popolo, che tanto amava, dalla condizione d’inferiorità in cui era vissuto per anni. Per questo nel maggio 1913 intraprende un viaggio in Francia insieme a Ouksem, giovane tuareg di nobili origini. Non sapeva che la Provvidenza lo faceva tornare a casa per l’ultima volta.
Rientrato nell’amato deserto, fu travolto pure lui dalle gravi ricadute che la prima guerra mondiale ebbe anche nei territori coloniali. Decise allora, nonostante il pericolo rappresentato dai senoussistes — i ribelli tuareg che attaccavano l’esercito francese —, di non abbandonare Tamanrasset, ma semplicemente di rifugiarsi con qualcuno dei suoi protetti in un luogo più fortificato, dove continuò a vivere in preghiera e solitudine, davanti all’Eucarestia, ultimando la traduzione delle poesie tuareg. «Viviamo giorni in cui l’anima sente il bisogno di pregare. Nella tempesta che soffia sull’Europa si percepisce il nulla della creatura e ci si rivolge al Creatore. Si tendono le braccia verso il cielo, come Mosè durante la battaglia dei suoi, e, dove l’uomo è impotente, si prega Colui che tutto può» (p. 477), scriveva pochi giorni prima di essere ucciso da alcuni tuareg ribelli.
Era il 1° dicembre 1916, quando veniva brutalmente stroncata la vita terrena di Charles. Ma la sua fraternità universale, nata ai piedi dell’Eucarestia e concretizzatasi in parole, gesti e servizio d’amore verso gli ultimi, fu trasportata lontano dal vento, insieme alla sabbia del deserto, e raggiunse in crescendo uomini e donne che, affascinati, tentarono di seguirlo in quella eccezionale avventura10. Sono quei petits frères e quelle petites sœurs11 e le tante associazioni laicali che, nelle varie forme e denominazioni, si ispirano a quel carisma e vivono in silenzio tra gli ultimi del mondo, tentando di essere, come il loro fondatore, testimoni del Vangelo con una presenza fatta di amorevole e calda solidarietà.
 
 Fonte: Quaderno 3746 del 15 luglio 2006 de La Civiltà Cattolica (Civ. Catt. 2006 III 136-144). 1   Il primo a raccogliere quell’eredità fu René Voillaume (1905-2003) che, sedicenne, proprio in seguito alla lettura della biografia scritta da R. Bazin, uno degli scrittori cattolici più famosi in Francia, cambiò radicalmente destinazione alla sua vita: non più sacerdote diocesano, come aveva pensato, bensì «l’esecutore testamentario di Charles de Foucauld», risuscitandone il carisma e portando a compimento l’opera rimasta incompiuta di «fratel Carlo di Gesù».
2   R. Bazin, Charles de Foucauld. Esploratore del Marocco, eremita del Sahara, Milano, Paoline, 2005, 22. Questa approfondita biografia — che utilizziamo ampiamente (le pagine citate nel testo si riferiscono a essa) — fu scritta nel 1921, attingendo da lettere, manoscritti, diari e testimonianze. È un ritratto incomparabile e ancor oggi fondamentale per quanti vogliono conoscere questo straordinario eremita, «piccolo fratello universale». Cfr anche A. Pronzato, Il seme nel deserto: Charles de Foucauld, 2 voll., Milano, Gribaudi, 2004-2005.
3   Dal 20 giugno 1883 al 23 maggio 1884 Charles raddoppia le rilevazioni in Marocco, tanto che la parigina Société de géographie commentava: «Ha ripreso, perfezionandoli, 689 chilometri dei suoi predecessori e vi ha aggiunto 2.250 chilometri nuovi. Per quanto riguarda la geografia astronomica, ha determinato 45 longitudini e 40 latitudini. Inoltre in una zona in cui era nota soltanto qualche decina di altitudini, ne ha stabilito con precisione 3.000». Cifre indicative del grande coraggio e dell’abnegazione ascetica del giovane esploratore, che si rivelerà in tutta la sua forza negli anni successivi, quando avrà ritrovato anche la fede (cfr p. 94).
4   Nelle lettere alla sorella, oltre a raccontare del digiuno, della preghiera, della meditazione — «La vita continua con tutto ciò che mi è caro in cielo e in terra e mi ha dato consolazioni, pur senza colmare il vuoto, ma è stato comunque il buon Dio a sostenermi in questi primi giorni. Il lavoro manuale non impedisce la meditazione: mi si raccomanda di lavorare pacatamente per poter meditare» —, trapela un crescente desiderio di andare oltre la forma di vita religiosa «per tenere compagnia a nostro Signore, per quanto possibile, nelle sue pene» (p. 124 s).
5   Parte dall’Italia perché l’abate generale dei trappisti gli aveva imposto, prima di essere dispensato dai voti, di recarsi a Roma per studiare teologia.
6   Si trattava di un’oasi nel deserto abitata da tre gruppi diversi: gli uomini liberi che si consideravano originari del Paese chiamati abbabsa; gli arabi della tribù dei rehamna; gli uomini di colore. Il più vicino sacerdote si trovava a 400 chilometri.
7   Una cappella, diceva, che «mi si addice alla perfezione: è devota, povera e pulita, molto raccolta» (p. 223).
8   Come sempre, le ore della giornata erano scandite tra lavoro, adorazione del SS. Sacramento, meditazione, celebrazione della messa. Fu quasi sempre solo nel deserto, e quando Paul, l’ex schiavo che si era portato da Beni-Abbès, lo abbandonò, gli fu impossibile celebrare la messa. Un dolore indicibile, che si placò dopo mesi di preghiere e lettere — ma soprattutto grazie all’intercessione dei Padri Bianchi del Sahara, specie del loro procuratore a Roma, padre Buttin —, quando ottenne dal Papa lo speciale permesso di celebrare da solo.
9   Ricordiamo che egli, durante la permanenza tra i tuareg, scrisse un dizionario tuareg-francese in quattro volumi, un dizionario di nomi propri tuareg-francese e una raccolta di poesie e proverbi.
10   Durante la sua vita Charles de Foucauld non riuscì a fondare una congregazione religiosa, nonostante ne avesse scritto la regola. Ma dopo la morte crebbe una multiforme, grande famiglia spirituale — grazie soprattutto all’opera instancabile di René Voillaume —, oggi comprendente 19 gruppi organizzati in questo modo: 11 Istituti religiosi; 2 Istituti secolari; 6 associazioni pubbliche e private di fedeli. L’insieme costituisce l’Associazione generale delle fraternità di Fratel Carlo di Gesù, con circa 15.000 membri, riconosciuta di diritto pontificio nel 1968.
11   Per uno sguardo d’insieme a questa crescita e ai suoi protagonisti cfr Madeleine di Gesù, Da un capo all’altro del mondo, Roma, Città Nuova, 1985; Madeleine di Gesù fondatrice delle Piccole sorelle, Milano, Jaca Book, 1999; R. Voillaume, Charles de Foucauld e i suoi discepoli, Roma, San Paolo, 2001; M. Borrmans - F. Grasselli, «René Voillaume e la missione a partire da Nazaret», in Ad Gentes 8 (2004) n. 1, 98-103.
 
Piersandro Vanzan S.I.
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