Di seguito l'intervento tenuto da don Michele Bortolato ai giovani del MGS Triveneto in ritiro il Sabato Santo 2024
«Chi ci separerà
dall’amore di Cristo?»
(Rm 8,35)
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RITIRO GIOVANI MGS
Sabato Santo 2024
È sorprendente come molti di noi affidino senza timore alla musica la chiave di lettura di tante esperienze a cui è troppo difficile dar voce riconoscendole una sorta di «perfetta innocenza» capace di sintonizzarsi, come in una danza, con i movimenti e le melodie dell’anima. Con-fusione perfetta di ragione ed emozione la musica è verità dello spirito.
Apro la porta di una stanza di casa: Fabrizio De André. Da qualche parte, in un qualche tempo, la fede bambina ha dialogato con lui. De André non professa la divinità del Cristo, ma nei suoi gesti e nelle sue parole non può fare a meno di vedere la traccia di qualcosa che va oltre una logica meramente umana. “Inumano”, dice, a proposito del perdono pronunciato da Gesù nei confronti di chi l’ha messo in croce.
Ma inumano è pur sempre l’amore
di chi rantola senza rancore
perdonando con l’ultima voce
chi lo uccide fra le braccia di una croce
De André, come il centurione romano ai piedi della croce, trova in Gesù qualcosa di inumano. Non arriva a chiamarlo Figlio di Dio, non vuole, ma riconosce in lui una forza d’amore inafferrabile che riguarda l’Oltre. Insiste molto sulla solidarietà di Gesù nei confronti degli ultimi, dei poveri e degli sconfitti riconoscendo in Gesù il compagno di viaggio di tutti i crocifissi della storia.
Mettere in musica i vangeli era perfettamente nelle corde del De André. Anarchico e provocatore, aveva vissuto pienamente le contestazioni del Sessantotto e considerava i Vangeli una lettura perfettamente in linea con le sue idee politiche: “Sono il più bel libro d'amore che sia mai stato scritto”.
In un album intitolato La buona novella l’autore affronta i vangeli apocrifi leggendovi un’umanità interessante. Si tratta di una delle opere maggiori e, in una canzone in modo particolare, racconta la vicenda di uno dei due ladroni che muoiono insieme a Gesù sulla croce. Tito, il malfattore chiamato in causa, canta il suo testamento spiegando come, in fondo, anche lui abbia seguito un suo codice, quello degli ultimi che chiedono dignità.
La forma laica (laicista?) dei comandamenti proposta De André non sembra molto distante da una convinzione che comunque portiamo dentro. Anche se, paradossalmente, concordiamo sul fatto che i comandamenti siano «cosa buona e giusta», con altrettanta sicurezza intuiamo che se le loro richieste non intercettano l’umanità della vita, di ogni vita, possono esser sentiti come un tradimento grave da parte di chi soffre:
Non avrai altro Dio all'infuori di me
Spesso mi ha fatto pensare
Genti diverse venute dall'est
Dicevan che in fondo era uguale
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Non nominare il nome di Dio
Non nominarlo invano
Con un coltello piantato nel fianco
Gridai la mia pena e il suo nome
Ma forse era stanco, forse troppo occupato
E non ascoltò il mio dolore
Ma forse era stanco, forse troppo lontano
Davvero lo nominai invano
Che cosa lo infastidisce? Il fatto che le cose non vadano come dovrebbero o il fatto che davanti alle ingiustizie l’uomo debba accettare di invocare l’aiuto di un «assente» senza essere ascoltato? È una legge molto dura questo silenzio di Dio, soprattutto quando diventa teatro di drammi ed ingiustizie insopportabili:
Onora il padre, onora la madre
E onora anche il loro bastone
Bacia la mano che ruppe il tuo naso
Perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Ne rimane forse escluso qualcuno dalla legge di questo irritante silenzio?
Guardatela oggi questa legge di Dio
tre volte inchiodata nel legno.
Guardate la fine di quel Nazzareno,
un ladro non muore di meno!
L’autore conclude così:
Ma adesso che viene la sera ed il buio
Mi toglie il dolore dagli occhi
E scivola il sole al di là delle dune
A violentare altre notti
Io nel vedere quest'uomo che muore
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l'amore
Sorge spontanea una domanda. Se anche i Dieci Comandamenti possono essere così opinabili tanto da negare anche il minimo conforto a un uomo che sta morendo, a chi ci si potrà mai rivolgere per trovare comprensione? Dove si nasconde la speranza? «Nella pietà che non cede al rancore», direbbe Tito, ovvero nella continua ricerca del perdono, nel provare compassione per ogni tipo di sofferenza. É lì che Tito prova sollievo, in una specie di “undicesimo” comandamento di cui troviamo traccia nel Nuovo Testamento: «Che vi amiate gli uni con gli altri come io vi ho amato» (Gv 13,34-35). Mi piace pensare che Tito pronunciasse tutte queste parole mentre guardava Gesù. Dio era lì con lui. Crocifisso. Ascoltava. In silenzio.
Dobbiamo subire la legge di questo grande silenzio o possiamo sentirvi dentro una vocazione, l’appello ad una ricerca umile della verità di Dio e dell’uomo? Non avremmo potuto rispondere a questa domanda se non ci fosse stato donato Cristo. La vita di Gesù. Un uomo che ha forzato dall’interno la presunta violenza del silenzio per farci scoprire che siamo disposti ad obbedire al più duro dei comandamenti, e a comprenderne dunque il vero significato, solo grazie all’Amore. Anzi, che gli stessi comandamenti nascono come un’esigenza successiva al dono d’Amore ricevuto nella vita per onorarne la verità del legame fondamentale e difenderne la bellezza.
Un po’ come Tito, dall’alto o dal basso delle nostre croci, tutti abbiamo l’occasione di stare accanto Gesù e guardarlo così com’è. Sulla croce di tutti c’è Cristo, l’incontro con lui è decisivo. E tu? l’hai incontrato?
Tutto inizia nell’intimo
Ho sempre immaginato Gesù come un uomo estremamente affascinate, capace di spezzare il tempo, uno con cui entravi in contatto sul serio entrando dalla porta dello sguardo. Gesù era un uomo capace di amare. Amava di un amore particolare, riusciva a trattenere i particolari, così come ci piace che ci amino «particolarmente» le persone che abbiamo scelto e che ancor prima ci hanno trovato e sorpreso in quel nostro primo risveglio.
Per molti di noi è faticoso fare i conti con le promesse di questo sentimento che spesso paragoniamo al fuoco. Chi incontra l’amore incontra l’esperienza del fuoco: brucia o consuma? Il punto che ritengo interessante è la possibilità di riuscire a decifrare il «linguaggio del fuoco», un linguaggio fatto di gesti e parole intimamente connessi in un misterioso accordo spesso sproporzionato rispetto alla nostra capacità di comprensione. Questa sproporzione riguarda Gesù e i suoi. Il tentativo della decifrazione del «linguaggio del fuoco», del linguaggio dell’amore, è affidato a chi, con Cristo, entra nella Pasqua. La Pasqua è il linguaggio con cui l’Amore dice sé.
Durante l’ultima cena Gesù presenta ai dodici una domanda cruciale che riguarda la profondità del loro incontro: «Capite quello che ho fatto per voi?» (Gv 13,12).
«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i cuoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1-2).
È l’ora del passaggio, è l’ora dell’amore fino alla fine. Nei gesti di un amore particolare (la lavanda dei piedi e l’ultima cena) avviene una trasformazione. L’amore di Gesù, l’amore del servo, rende l’uomo capace di Dio. Dio appartiene ai gesti di Gesù così come i gesti che Gesù compie appartengono a Dio.
«Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto» (Gv 13,3-5)
Tutto inizia nell’intimo. La qualità dei gesti di quella sera, e l’intensità del loro significato, racconta un’intimità tra Gesù e i suoi difficile da ignorare. Qualcosa accade nell’intimo dell’anima. Pietro, in modo maldestro, esprime la sua incomprensione rifiutando il gesto di Gesù («Tu non mi laverai i piedi in eterno» Gv 13,8) e forzando la sua interpretazione del modo in cui Gesù avrebbe dovuto comportarsi. Ciò che accade a Giuda non si spiega («Satana entrò in lui» Gv 13,27). Troppo facile giudicare. Ogni tradimento, in fondo, è un mistero che non possiamo conoscere. Entrambi, a loro modo, prescrivono un comandamento molto forte: chi recide l’amicizia con Cristo diventa “cattivo”, prigioniero di sé, fino a scontrare con la seconda grande tragedia che oscurerà il cuore di Giuda: la disperazione, il pentimento che non spera più.
La Pasqua di Gesù inizia nell’incomprensione che Egli vive fin nel cerchio più intimo («Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il calcagno» Sal 41,10). Si tratta di un’esperienza del tutto singolare da rileggere con una sana prudenza. L’incomprensione, infatti, non è per forza un’esperienza negativa; chi mai ha potuto conoscere tutto dell’altro che gli sta davanti? Pensare di riuscirci sarebbe presunzione, una violenza inaccettabile. La qualità del dono che offriamo a chi amiamo, invece, sta nel riconoscere (accogliere) la sua dimensione incomprensibile, il suo segreto, quel mistero che è altro dalla nostra percezione e sfugge alla nostra presa. Amare il segreto dell’altro è il segreto del fuoco. In questa vicenda non accade. Nell’intimo dell’anima non c’è spazio per questa ospitalità e l’incomprensione si fa distanza. Gesù, mentre spezza il pane come un papà di famiglia, inizia il suo «passaggio» facendosi intimamente carico del tradimento di tutti i tempi, dell’inospitalità violenta, per regalare, nei suoi gesti e nelle sue parole, l’ospitalità di Dio, il vero amante del nostro segreto e della nostra differenza:
«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35)
La preghiera di Gesù
Era notte. Gesù esce nella notte e pregando con i discepoli li conduce dentro il suo segreto. Come prevedeva la legge per la notte di Pasqua, Gesù non lascia Gerusalemme. È la città della pace, è la meta del suo pellegrinaggio, è la città di Dio. Prima di sperimentare l’ultima solitudine chiede ai suoi di restare: «Restate qui e vegliate» (Mc 14,34). Tutti abbiamo bisogno che nelle notti oscure qualcuno resti, che qualcuno ci sia mentre a fatica trasciniamo quei pesi invisibili con cui il male ha ingombrato le nostre stanze più profonde.
Gesù vuole con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e ne fa i testimoni sonnolenti della sua lotta notturna. Poi si allontana ancora un po’, è solo, cade ed inizia a provare paura e angoscia. Gesù è sopraffatto dall’angoscia, quel silenzio apparente in cui il grido della vita soffoca, quel silenzio in cui all’anima è negata la libertà di respirare la sua parola. Dimenandosi, colpisce tutto ciò che la circonda pesandovi addosso con violenza (ventre, cuore, mente). È il dolore del nulla. Gesù fa esperienza del nulla che divora senza confini, sente il grido della vita soffocare dentro di lui. Con chi è possibile condividere questo peso?
«E disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me". Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: "Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!". Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: "Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole"». (Mt 26,38-41)
Gesù, per tre volte, trova i discepoli addormentati. C’è una sorta di ambiguità in questo sonno, certamente porta con sé molta stanchezza, ma vi si può altrettanto leggere in filigrana un intorpidimento dell’anima che diviene occasione delle tenebre. Nei momenti in cui sentiamo venirci incontro qualcosa di drammatico capita di cedere ad un leggero torpore che preferisce non percepire fino in fondo quanto sta accadendo. Si apre lo spazio della giustificazione, di piccoli egoismi, lo spazio della mancata vigilanza che nel Getsèmani, come nei nostri giardini, si trasforma nella mancata vigilanza sia per il riconoscimento di Dio, lì presente, quanto per le forze del male. La vigilanza è un’urgenza di tutta la storia della cristianità.
Il Signore ci insegna, molto umilmente, che alcune situazioni si possono risolvere solo con la preghiera. Il Monte degli ulivi ha ospitato il mistero interiore della vita di Gesù, la sua confidenza con il Padre, la sua fede nell’oscurità, la sua disponibilità a bere tutta la perfidia che gli uomini hanno versato nel calice del suo cuore purché siano salvi, affinché sappiano di essere amati. Quando un cristiano dice «Ti voglio bene da morire», quando un essere umano pronuncia tremando a bassa voce queste parole a colui o colei che ama, sta gridando la disponibilità di questo amore. Non può essere preso alla leggera.
Che cos’è la verità?
Tradito «è» consegnato. Colui del quale avevano avuto paura, ora è nelle loro mani. Che responsabilità…Gesù è nelle loro mani tanto quanto è nelle mani di ogni fedele che si avvicina all’altare per ricevere l’Eucaristia. «L’Amore è nelle mie mani», che cosa desidero farne?
Dopo il canto del gallo molte anime entrano nella notte. Immaginate che cosa ha voluto dire per Pietro e Giuda incrociare lo sguardo di Gesù condannato mentre usciva dal sinedrio. È uno sguardo che nemmeno le lacrime sono capaci di sostenere. Davanti al sinedrio Gesù è colpevole di bestemmia, davanti a Pilato è un usurpatore, davanti ai suoi è uno sconfitto. Gesù, ancora una volta, sembra rivelarsi incomprensibile: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). In questo nostro tempo la domanda di Pilato, di questo “piccolo capo di stato”, si fa interessante, per nulla estemporanea; dopotutto, quale dei nostri governi sta in piedi affondando le radici sulla verità? Deriso, umiliato, flagellato Gesù, come La Verità ai nostri giorni, è accusato di non aver nulla in comune con Dio. Egli, diversamente, ha dichiarato con la sua innocenza che coloro che sono capaci di tanta violenza non hanno nulla a che fare con l’uomo.
«Ecco l’uomo» (Gv 19,5). Niente di più vero. In Gesù appare la verità di ogni essere umano. Solamente assomigliando a Cristo l’uomo diventa veramente se stesso. Tutti, quando ne abbiamo l’umiltà, diventiamo sempre più simili alle persone che amiamo e in questo misterioso reciproco appartenersi si è in grado di assomigliare a Cristo nell’unico modo in cui ci è possibile: insieme.
«Essi presero ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall'altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l'iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: "Gesù il Nazareno, il re dei Giudei"» (Gv 19,17-19)
La croce ci ha mostrato la Verità. Solo l’amore particolare di Gesù poteva farci entrare nel suo mistero più profondo. I fatti di quell’ora sul Gòlgota sono riempiti di Parola, di senso, e ciò che anticamente era solo parola, una profezia lontana, è divenuto realtà: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
In questa alleanza tra la parola e la vita nasce la testimonianza. Pensandoci, è proprio nelle parole che nascono le alleanze più profonde che stringiamo nella vita: «Mi ami?», «Mi perdoni?». Alla parola è affidato il compito di creare, è il segno esteriore della vita interiore, una mano tesa alla concretezza del mondo capace di trasformare la realtà svincolandola dai limiti della materia per portarne alla luce il vero significato. L’uomo è chiamato a rispondere a questo grave compito: diventare parola conforme a Dio. Gesù sulla croce è la perfezione della parola d’amore irrevocabile, parola detta una volta e per sempre.
«Sempre» è la parola, il tempo, il luogo degli amanti. «Sempre» è la trasformazione cui giungono coloro che si trovano, la consapevolezza che quell’incontro non può finire, anzi, la speranza che quel punto del tempo si ripeta eternamente anche quando si avverte che tra sé e l’altro, tra noi e Gesù in molti casi, c’è una distanza insuperabile. «Non temere», sussurra Dio Padre, la «Parola Gesù» è per sempre. Non è un amore ideale, si scioglierebbe presto, è un amore reale, un amore capace di legarsi alle imperfezioni, ai tradimenti. È l’amore per quella novità di ognuno che fa vivere il corpo dell’altro nel suo vero nome tanto da renderlo insostituibilmente presente in ogni respiro della giornata. Gesù ama di questo amore particolare, l’amore per il vero nome, l’amore che è sempre.
Ditemi: «Chi ci separerà mai dall’amore di Cristo?» (Rm 8,35)
L’aurora
«Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. Dicevano tra loro: "Chi ci farà rotolare via la pietra dall'ingresso del sepolcro?"» (Mc 16,1-3)
È mattino. La Chiesa degli uomini vive un momento di forte distanza dal Signore, la Chiesa delle donne, invece, rimane e manifesta nella cura un’attenzione profondamente umana per l’amato. Quand’era ancora buio, Maria di Màgdala, Maria Madre di Giacomo e Salome si mettono in cammino verso Gesù per completare la sepoltura. L’ultima unzione era considerata un tentativo di fermare la morte, un modo per conservare, nell’affetto dei cari, colui che amaramente avevano dovuto salutare. Ma Gesù non può essere conservato nella morte. Nella premura e nell’amore delle donne si preannuncia il mattino di Risurrezione. Ogni nostro piccolo gesto di cura è, nella fede, amore per Cristo e annuncio di Risurrezione.
Nella risurrezione di Gesù si apre una possibilità nuova di essere uomini e donne, di avere a cuore la novità di ognuno come verità di cui prendersi cura fino ad incontrare il volto di Gesù illuminato dalla bellezza di ciascuno. Tutti avvertiamo il problema di non perdere le persone che amiamo e tutti sperimentiamo la fatica di accettare la vicinanza e la distanza di Cristo nella nostra vicenda. Solo camminando umilmente accanto a coloro che ci sono stati affidati, abbandonando la pretesa di afferrarne il segreto, potremmo un giorno gridare la bellezza dell’incontro con Colui che ha fatto di noi il tempio eterno di Dio e che è sempre rimasto lì accanto.
«Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32)
Mi sono sempre piaciute le persone che con pazienza hanno imparato a scegliere le parole…le parole da dire ma soprattutto quelle da non dire. Con la parola, come in un'arca, possiamo accogliere le cose, gli uomini, il creato, possiamo riconoscerli nella loro natura e farci carico della loro custodia, spettatori privilegiati della loro manifestazione. Da sempre siamo ospitati nell’intreccio della trama e dell’ordito delle parole che ci sono state rivolte e in cui ci troviamo a vivere. Quando questa accoglienza accade gratuitamente nasce il mistero, nasce la poesia. Ci vuole un po’ di follia per far nascere la bellezza nelle parole che scegliamo di dire e non dire, una follia che, a volte, può diventare il testamento di chi, come noi, considera il Calvario il monte degli amanti.
È la storia di Alda nata il 21 a primavera (21 Marzo 1931), mamma di quattro figlie, toccata in famiglia, fin da subito, dalla violenza della guerra. A dodici anni aiuta la mamma a partorire il fratello mentre l’Inghilterra, a tradimento, bombarda Milano. Invece di andare a scuola, dice,
«Andavo a mondare il riso, a cercare le uova per quel bambino piccolino, mio fratello, nato sotto i bombardamenti: badavamo a lui, era tutto fermo, c’era la guerra. Stavo in casa e aiutavo la mamma, andavo all’oratorio, ero una brava ragazza io».
Ha tutti i suoi buoni motivi per rivolgere a Dio frasi molto dure: “Credo nella crudeltà di Dio”. Vive con il suo Dio un continuo dialogo, fatto di assordanti silenzi e di tacite grida: lo cerca, lo trova, lo perde, lo ama, lo odia, lo comprende, lo rifiuta.
A ventisei anni incontra «le prime ombre della mia mente» che, come in un gioco impertinente, arriveranno e partiranno continuamente senza preavviso.
«Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti quelli, che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita».
Nel 1962 inizia un difficile periodo di silenzio e di isolamento, dovuto all’internamento che dura fino al 1972, salvo alcuni periodi trascorsi in famiglia. Nel 1979 ritorna a scrivere, dando il via ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza del manicomio, contenuti in quello che può essere inteso come il suo capolavoro: Terra Santa. Le sue condizioni peggiorano nonostante la serenità ritrovata con il secondo marito e nel luglio del 1986 la poetessa sperimenta nuovamente gli orrori dell’ospedale psichiatrico. Il 1° novembre 2009 muore all’ospedale San Paolo di Milano avendo trasformato il dolore in un vestito incandescente, in pura poesia, in fuoco d’amore per gli altri:
«Tu mi hai parlato del senso della vita, la vita non ha senso, anzi è la vita che ti da un senso sempre che noi la lasciamo parlare, perché prima dei poeti parla la vita, dobbiamo ascoltarla la vita. Il poeta soffre molto di più però ha una dignità che non si difende neanche alle volte, è bello accettare anche il male. Una delle prerogative del poeta che è stata anche la mia, è non discutere mai da che parte venisse il male, l’ho accettato ed è diventato un vestito incandescente, è diventato poesia. Ecco il cambiamento della materia che diventa fuoco. Fuoco d’amore per gli altri, anche per chi ti ha insultato».
Nelle sue poesie frequenta amicizie interessanti, incontra le figure fondamentali del cristianesimo, esplora il firmamento e la costellazione che ruota attorno a Gesù di Nazareth. Persino Giuda, travestimento simbolico di ogni rinnegamento umano, appare come strumento di riconciliazione:
«Giuda, che io ringrazio perché un giorno tu mi hai consegnata a Lui, perché un giorno tu mi hai baciata e mi hai derisa. […] ma è venuto lui e con il mio dolore lui si è cinto il collo e son diventata il suo monile più bello».
Lei lo ha incontrato facendo della fede la sorella della poesia, sorelle eternamente rivolte all’Altro e all’Oltre, nel desiderio, come dice lei, di fare omaggio alla figura di Cristo. In questi testi non racconta solo qualcosa di Gesù, non gli recita un sonetto, lo abbraccia. Lo stringe come una sposa abbraccia l’amato dopo tanto tempo. L’intensità di questo momento è più forte di quella del primo incontro.
Nei versi di Alda Merini il corpo è la chiave che apre le porte dell’anima, la dimensione sensuale è permeabile alla manifestazione divina, ne registra la presenza, ne denuncia, disarmata, l’enigma. La carne porta l’impronta dell’Invisibile. Alda, donna nella carne e nello spirito, è innamorata di quest’uomo, nel quale vede incarnata la bellezza dello Sposo, la violenza di un amore più forte della morte, la vittima esemplare di un’ingiustizia comprensibile perché è solo umana. La poetessa ha desiderato raccontare i momenti più forti del suo incontro con Gesù raccogliendone la divina bellezza e l’umana pietà nell’opera Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (2001). Questo libro ha tutta l’autenticità di una mistica improvvisazione:
«Io suonavo il pianoforte e Alda dettava questa pagine su Cristo improvvisando».
Si può permettere di improvvisare solo chi conosce intimamente il colore dei suoni. Così la nostra poetessa lascia vibrare le corde della sua anima e fa della sua esperienza cristiana una sinfonia di emozioni, silenzi e parole, affidando a quell’«ebreo dal volto severo» il compito di sciogliere col calore di un disumano amore il gelo nel cuore degli uomini. E a quelli che, nell’incomprensione, prontamente la mettevano sotto i ferri rispondeva: «loro non sanno che parlo di te…»
Nell’estremo desiderio di possedere l’Amato che si dona senza fine, Alda, in modo quasi egoista ed impertinente, rivendica il suo diritto di respirare:
«Questo mi serve: averti, rubarti, e in qualsiasi parte tu sia, anche insieme a un’altra donna, ma avere in me la tua figura e allora io dopo che l’ho mangiata comincio a respirare, ma senza te non ho più respiro. E così fu Gesù: un grande respiro…»
Il suo Cristo, uomo forte, risoluto, ha insegnato un amore fatto di presenza, scongiurando l’abbandono della follia, della morte. In ogni istante Lui era lì, accanto.
La carne di Gesù è la carne della Parola, la lingua che Dio ha scelto per raccontare la sua storia e la verità della nostra vita con Lui. Ora, nel Crocifisso, tutto è compiuto, ogni cosa è rinnovata, ogni uomo ed ogni donna scoprono il significato dei frammenti della loro esistenza contemplando quell’unica parola d’amore scritta con la carne che il cuore da sempre ha gridato nel suo vero nome: Cristo.
Noi abbiamo delle piccole utilità:
per esempio io amo te e vorrei che tu mi guardassi negli occhi,
e metto gli occhiali scuri affinché tu non possa vedere i miei occhi
perché entreresti con le tue mani nella mia anima
e sentiresti che il mio cuore pulsa in una sola direzione,
per questo faccio finta di non vedere niente.
E difatti io non osservo ciò che mi circonda
ma osservo ciò che accade dentro di me,
e per sentirlo non occorrono gli occhi,
per sentirlo non occorrono le labbra,
per sentire ciò che accade dentro di me ho bisogno soltanto
di una tua manifestazione di carne,
di vederti per un secondo
per parlare di te
attraverso i secoli.
—
Intervento a cura di:
d.Michele Maria Bortolato
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