Se analizziamo la situazione del cristianesimo nel nostro occidente in questo inizio di terzo millennio, non possiamo non rilevare gli ostacoli che si frappongono alla pratica della vita interiore e della vita spirituale cristiana, ostacoli annidati nel clima culturale che si respira e ormai ben insediati anche al cuore della vita ecclesiale. Si pensi innanzitutto al narcisismo, sigillo che segna la nostra società, vero e proprio stile di vita dell'uomo contemporaneo...
del 01 gennaio 2002
Se analizziamo la situazione del cristianesimo nel nostro occidente in questo inizio di terzo millennio, non possiamo non rilevare gli ostacoli che si frappongono alla pratica della vita interiore e della vita spirituale cristiana, ostacoli annidati nel clima culturale che si respira e ormai ben insediati anche al cuore della vita ecclesiale. Si pensi innanzitutto al narcisismo, sigillo che segna la nostra società, vero e proprio stile di vita dell’uomo contemporaneo. Alla compressione dell’io e della sua creatività nell’ambito del lavoro tecnico, si contrappone l’esprimersi parossistico dell’io negli altri ambiti dell’esistenza. Ed è un io patologico, descrivibile con i tratti della difficoltà dell’interiorizzazione, del primato accordato all’emozionale sul razionale, dell’estrema debolezza della vita interiore. Non a caso, a fronte di un’accentuazione dei bisogni e dei diritti della soggettività, oggi proliferano le malattie della soggettività: anoressia, bulimia, depressioni, noia esistenziale, tossicomanie...
Si pensi ancora alla rimozione dell’interiorità, a cui contribuisce soprattutto la diffusione capillare dei mass media, in particolare la televisione, con l’ossessiva ricerca di audience spesso soddisfatta da programmi e rubriche in cui i moti della vita affettiva, i problemi più strettamente personali e inerenti alla sfera dell’intimo sono riversati all’esterno e dati in pasto a milioni di persone. Di fronte a questa omologazione dell’intimo e a questa esorcizzazione dell’interiorità a cui tendono le società conformiste, è bene ricordare la parole «scandalose» di Sören Kierkegaard: «Gli uomini non amano l’interiorità. Per loro essa è un pungolo che esaspererebbe lo sforzo della loro vita ... L’uniformità monotona dell’interiorità fa orrore agli uomini».
Venendo più da vicino all’ambito religioso, va denunciata l’attuale diffusione di uno spiritualismo caratterizzato da ricerca di fusione con il divino, da sete di miracolistico e di taumaturgico, dall’identificazione di Dio con il «sé» dell’uomo. In questo spiritualismo, veicolato certamente da movimenti spirituali sincretistici come quello del New Age, ma ormai in via di diffusione anche all’interno delle chiese cristiane, il simbolico viene confuso con il simbiotico, il calore affettivo del gruppo chiuso viene scambiato con la profondità dell’esperienza religiosa, l’emozione interiore con l’autenticità dell’esperienza di Dio. Si tratta di un atteggiamento religioso regressivo e narcisistico che può essere definito «a struttura simbolica materna»: il rapporto con Dio viene cioè vissuto alla stregua del bambino che si coglie come un prolungamento del corpo materno, vede nella madre la figura onnipotente capace di soddisfare tutti i suoi desideri, comunica con lei attraverso il contatto sensoriale e con lei sogna un’unione fusionale, da prolungarsi indefinitamente.
A questo religioso impersonale che cerca la fusione panica nell’«Oceano dell’Essere», e nella partecipazione all’«Energia cosmica», la rivelazione ebraico-cristiana oppone «il Dio dei padri», il «Dio dell’altro», il Dio che può essere colto non all’interno di un processo intimistico o facendo a meno degli altri e della storia, ma proprio e solamente nella storia e con gli altri; oppone dunque la relazione personale e storica, che sa cogliere il rapporto con l’altro uomo alla luce del rapporto con Dio. Nella stessa ottica va rilevata anche la tentazione – oggi assai diffusa – di cercare Dio confidando in tecniche di iniziazione, in pratiche di concentrazione, in metodi di meditazione spesso originari dell’estremo oriente. L’età della tecnica ci pone di fronte al fenomeno della «tecnicizzazione dello spirito», ma la vita spirituale cristiana e, al suo cuore, la preghiera, sono quanto di meno tecnico possa esistere.
Non ha spazio, nella vita cristiana, il “tutto e subito”. Essa è un cammino che attraverso le mediazioni tipiche della tradizione cristiana (la Scrittura, i sacramenti, il padre spirituale, ecc.) tende a guidare l’uomo a un esodo, a un’uscita da sé che, tramite l’adesione personale a Cristo e l’acquisizione del dono dello Spirito, lo renda capace della vita di agape a immagine del suo Signore. Nella vita spirituale cristiana, alla centralità dell’«io» viene cioè opposta la centralità del Cristo, al benessere interiore o all’espansione delle proprie facoltà psichiche, la vita di carità e la libera donazione di sé per amore. Secondo il linguaggio tradizionale cristiano, questo significa che la vita spirituale è sotto il segno della grazia. Alla tentazione pelagiana, il vero spirituale cristiano oppone l’espressione della sua totale apertura alla grazia: “Non io ma Tu”.
Infine, ciò che a mio avviso è più grave è lo scollamento tra vita ecclesiale e vita spirituale; si tratta infatti del terreno in cui possono proliferare buona parte dei fenomeni fin qui analizzati. L’ambito ecclesiale, ormai segnato da quel fenomeno che amo definire «ecclesificazione della fede», non è più sentito come scuola che introduce all’arte della vita spirituale. Negli ultimi decenni la chiesa è divenuta sempre più ministra di parole economiche, politiche, etiche, e sembra aver smarrito l’uso delle parole e del messaggio suo proprio. La pastorale ha fatto sua l’idea che la vita cristiana corrisponda a una vita di impegno sociale, a uno stile di vita genericamente altruista, piuttosto che all’accesso alla relazione personale con Dio attraverso Cristo, da viversi in un contesto comunitario. La dimensione spirituale è stata così evacuata, e ormai il cristianesimo può essere confuso con una qualunque prassi al servizio degli altri.
Enzo Bianchi
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