Cina: il "lager" dei "blue-jeans"

Lavorano 18 ore al giorno, sono "sottopagati" e tengono in vita un "sistema" che produce di tutto. Un enorme "business" che serve alle grandi "aziende" occidentali. Il fotografo Justin Jin è riuscito ad entrare negli "atelier", che fabbricano i "jeans" per il mondo intero. Un vero "inferno".

Cina: il 'lager' dei 'blue-jeans'

da Attualità

del 10 novembre 2008

C’era una volta il 'West'… Oggi i 'jeans' delle maggiori 'brand' mondiali arrivano dal 'Far East' e sono frutto di condizioni di lavoro 'proibitive'. La fabbrica 'Huang' a Zhonghan, al centro di un esclusivo 'servizio' del 34enne fotografo Justin Jin, è un 'lager' impregnato di polveri e vapori tossici, ma senza traccia di 'diritti sindacali', dove gli operai lavorano 18 ore al giorno per un salario mensile equivalente a 150 euro.

Pochi soldi che sono il prezzo per soddisfare la sete di moda a basso costo dell’Occidente come, in altre aziende della città, di calzature, fuochi d’artificio, giocattoli, fiori sintetici… Una miseria che in Cina rappresenta il necessario e che a molti è comunque negato, pure in questa provincia del Guangdong, da sempre necessario 'retroterra' di Hong Kong. Ma anche, dal 1979, al centro dell’esperimento di sviluppo economico avviato da Deng Xiaoping, che ha permesso il decollo industriale di aree selezionate del paese e l’apertura di un 'divario' fra 'Cine' a più velocità che va approfondendosi.

Parte integrante del successo cinese, l’uso massiccio, poco regolamentato e per molti aspetti 'spregiudicato' delle 'risorse umane' si avvantaggia di una realtà 'rurale' in arretramento e dei molti milioni di cinesi che, senza documenti e nessuna tutela, vagano da una città all’altra in cerca di opportunità, testimoni insieme del fallimento della politica del 'figlio unico' e della mancanza di diffuse opportunità fuori dalle «zone di sviluppo speciale».

Dei dieci milioni di bambini che secondo gli 'osservatori internazionali' ogni giorno mancano all’'appello' nelle aule scolastiche dell’immenso paese orientale, la metà sono impiegati in 'manifatture' di ogni tipo e dimensione, e se in alcune delle province più arretrate i minori costituiscono addirittura il 20% della 'forza-lavoro', nel popoloso Sichuan un accesso al mondo del lavoro sarebbe garantito all’85% dei bambini e dei giovani, in cambio di orari 'massacranti' e stipendi che raramente superano i 20 centesimi di euro l’ora.

L’'Organizzazione mondiale del lavoro' ('Oml') ha rilevato come persino la sterminata produzione di capi di vestiario, accessori e 'gadget', che ha accompagnato il percorso della 'fiaccola' verso Pechino, ha visto impegnata per 12-13 ore al giorno un’ampia 'manodopera infantile', non solo 'sottopagata' ma anche senza alcuna prospettiva una volta chiusi i 'cancelli olimpici'.

Firmataria di diverse 'Convenzioni internazionali', a partire da quella 'Onu' 'N. 182', che proibisce attività lavorative che siano pericolose o interferiscano con l’educazione dei bambini, la Cina non ha mai ratificato la 'Convenzione ‘Oml’ N. 138', che definisce l’età minima di accesso al lavoro.

Tuttavia, l’adesione 'formale' non solo è sovente 'aggirata' in nome dello sviluppo 'Made in China', ma addirittura negata quando ad avviare a un lavoro con poche o nessuna tutela sono le scuole o le organizzazioni di 'partito' che gestiscono i programmi di 'studio-lavoro': secondo i dati di 'Human Rights Watch', nel 2004 hanno coinvolto 400mila studenti tra i 12 e i 16 anni di età, per una produzione dal valore stimato di circa 1 miliardo di euro.

 

 

Stefano Vecchia

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