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Claude Rault, il vescovo del deserto

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Claude Rault, il vescovo del deserto

da Quaderni Cannibali

del 15 gennaio 2009

Nel deserto, Monsignor Claude Rault si sente a casa. Regolarmente lascia Ghardaïa dove risiede -“il luogo delle mie assenze”, dice – e si avvia per visitare le piccole comunità cristiane disseminate sul territorio. Più di 800 chilometri fino ad Adrar, con una sosta ad El Golea e Timimoun. A volte, una tempesta di sabbia o un uadi dalle acque impetuose lo obbligano a fermarsi. Strada facendo, incontra cammelli che masticano arbusti spinosi, asini imperturbabili, greggi di pecore o di capre ribelli, autisti di camion in panne, nomadi che raggiungono il loro accampamento. A seconda del luogo, il paesaggio cambia. Terribile e pericoloso come può essere l'Hoggar con i suoi picchi verticali. O di una bellezza sensuale come le dune sabbiose del Tassili. Ma che sia luminoso o grigio come una giornata dura, Claude Rault si sente “in armonia”.

Quando ne parla, prendendosi tutto il tempo necessario, o quando lo evoca nel libro che ha appena pubblicato (1), è per esprimere un credo poetico ed umanista. “Il deserto, dice, mi riconduce alla mia piccolezza e a quel tesoro che porto in me. È lì che risuona la parola interiore. La preghiera più bella è quella che si riceve così, muti e silenziosi, completamente al di dentro di sé.” Poi, con la sua voce dolce, aggiunge: “Il deserto è anche un invito a contemplare la profondità di coloro che gli danno un'anima. Attraversarlo, significa essere accolti. L'ospitalità vi è sacra. L'ospite è l'inviato di Dio e trattato come tale. Tayeb, un padre di famiglia numerosa, aveva incontrato in una notte fredda e piovosa un uomo senza domicilio. Lo ha accolto per undici anni! E inoltre c'è la pazienza, elevata alla dimensione di virtù religiosa.”

Tuttavia, Claude Rault non può parlare del Sahara senza ricordare che esso è per molti “un muro”. I migranti venuti dalla Nigeria, dalla Liberia, dal Camerun, dal Congo o da altri paesi, che lo affrontano per raggiungere le rive del Mediterraneo, ne sanno qualcosa. Lo sanno anche i circa 160000 rifugiati saharaui della regione di Tindouf, per i quali il deserto è “una vasta prigione.” Di questa realtà si fa testimone presso le Conferenze episcopali dei paesi europei, affinché facciano pressione sui governi. Si tratta ai suoi occhi di un “dovere di coscientizzazione politica su vasta scala”.

Un'altra realtà segna la vita di Claude Rault: l'islam. Questa religione, che egli guarda come “un ideale di vita e un certo modo di essere davanti a Dio ed in società, a rischio di lasciare un po' nell'ombra le sue deformazioni”, è entrata nella sua vita in un modo che “non può essere attribuito al caso”. Il primo musulmano che ha incontrato era un mercante di tappeti: percorreva la campagna normanna e si fermava alla fattoria della sua famiglia dove gli si offriva un caffé “non corretto”. A quell'epoca, i migliori giocatori della squadra di calcio locale erano anche lavoratori nordafricani.

Tuttavia l'incontro più determinante ha luogo in Canada. Faceva i suoi studi di teologia ad Ottawa. “Un confratello della Tunisia è venuto a tenere una conferenza sull'islam e sui musulmani. Ha parlato della sua esperienza con una passione tranquilla che ha colpito la mia curiosità. L'ho rivisto nei giorni successivi. Ho saputo che aveva deciso di riprendere la vita laica. È morto poco tempo dopo, in un incidente d'auto. Devo a questo compagno di alcuni giorni la mia vocazione all'islam.”

Quella vocazione lo porterà in Algeria. Vi sbarca con la sua 2CV nel settembre 1970 e si ritrova vicedirettore di un centro di formazione professionale tenuto dai Padri Bianchi nei locali del loro ex noviziato. L'Algeria è un vasto cantiere. Come molti, padre Rault improvvisa. E funziona, nonostante la paura “inconscia ed insidiosa” nei confronti dell'algerino “distillata nel cuore dei giovani durante il servizio militare”. Da quella paura lo libererà la madre di uno dei suoi alunni, Akly, con cui ha mantenuto dei legami profondi. “Il padre di Akly era stato ucciso dall'esercito francese nel 1962. Otto anni dopo, sua moglie mi ha aperto la sua casa.”

Da quel momento, “nulla sarà più come prima”. E l'adattamento che caratterizzerà la sua vita sarà legato alla storia dell'Algeria. Istruttore in un centro di pre-formazione professionale dei Padri Bianchi a Ghardaïa, diventa, dopo le nazionalizzazioni, professore di inglese in un collegio femminile diretto dall'imam della moschea a Touggourt, poi professore supplente ad Ouargla, prima di diventare, non avendo i diplomi richiesti – apprendista ottonaio a Ghardaïa.

Nel 1994, quando l'Algeria è trascinata in una spirale di violenza e la Chiesa si trova nell'occhio del ciclone, vive un periodo difficile in cui lotta dopo aver subito un'operazione ad una gamba. “Un chirurgo mi aveva sezionato il nervo crurale. Ho vissuto nove mesi di paralisi, di dolori. Ma in fondo il dolore non era quello della gamba, era quello dell'Algeria. E quando ho ritrovato l'uso della gamba, ne ho dedotto che se il nervo della mia gamba poteva rivivere, anche il nervo vitale dell'Algeria avrebbe potuto farlo. La speranza era ormai segnata nella mia carne.”

Oggi vescovo di Laghouat, Monsignor Rault, che ha “fatto voto di instabilità”, lascia che gli avvenimenti sconvolgano la sua vita. Come raggiungere i più poveri, ma anche i giovani laureati senza lavoro, dimenticati dalla manna petrolifera? Come venire in aiuto ai migranti dell'Africa subsahariana? Dove investire le energie? “I nostri limiti non possono essere un alibi all'immobilismo.” E poi: come rinnovare le comunità cristiane, eredi di Charles de Foucauld e del cardinal Lavigerie? Quali scelte di futuro compiere? Come trasmettere l'eredità spirituale ed umana? Continuare a “fare carovana”?

La tormenta che colpisce da alcuni mesi la Chiesa d'Algeria – proibizione in certi luoghi di fare sostegno scolastico o di celebrare il culto in certe basi petrolifere per i cristiani espatriati, grane amministrative, difficoltà per ottenere dei visti – fa dire al vescovo del deserto che in Algeria “la Chiesa sta percorrendo una nuova tappa”. Le sue parole, come il suo sguardo chiaro, restano improntati ad una irriducibile serenità. “Quello che capita non è il puro frutto del caso, ma deriva da qualche intenzione premeditata. Noi disturbiamo certe persone con la nostra sola presenza e non mancano di farcelo sapere. Ma molti algerini ci manifestano la loro amicizia e la loro solidarietà. La cosa migliore da fare: aspettare, senza piegare la schiena. Più che mai siamo nelle mani di Dio!”

Poiché si sente solidale con il popolo che lo ha accolto, e poiché quel popolo gli ha insegnato la pazienza, ricorda anche che nel Sahara il vento di sabbia che penetra negli occhi e nella minestra e che irrita i nervi, si incaricava un tempo di trasportare il polline per fecondare le palme.

Poi parla, a lungo, con parole dense, di Gesù. Confida di seguire le orme “di colui che è stato, più di chiunque altro, l'uomo dell'incontro”, “che ha sempre lasciato l'altro libero”, e che, attraverso la sua vita, ha rivelato Dio “non innanzitutto come una verità da credere e da proclamare, una morale da seguire, ma un'esperienza da vivere.” “In Algeria, non ci è dato di rivelare Cristo attraverso una parola pubblica. È un limite importante, ma forse anche una provocazione felice. Il nostro mondo soffre di una tale inflazione di parole! Gridare il Vangelo con tutta la nostra vita, per riprendere un'espressione cara a Charles de Foucauld, quella è la nostra vocazione per oggi in Algeria. Essere presenti con le nostre mani nude. Vivere con tutti in nome della gratuità dell'Amore di Gesù. Il domani non ci appartiene.”

All'interno di questa vocazione, Claude Rault si sente chiamato a vivere con i musulmani algerini una solidarietà concreta e quotidiana, ma anche spirituale. Nel 1979, ha fondato con Christian de Chergé, monaco di Tibhirine, il gruppo Ribat Essalâm, “Legame di Pace”, che riunisce dei cristiani e dei musulmani che condividono “una stessa ricerca di Dio riconosciuto come colui che è di tutti”, e osando l'incontro con l'altro, “nella verità di ciò che è”. Oggi, per ragioni di calendario e di distanza, non può più partecipare a tutti gli incontri del piccolo gruppo. “Lo vivo come un invito ad approfondire la mia vocazione in un ribat interiore, nutrito degli incontri nel cuore della vita quotidiana, dei legami di fraternità che spesso hanno la loro radice in Dio.”

 

 

 

(1)   Désert, ma cathédrale, Desclée de Brower, p. 201.

 

 

Fonte:  “La Croix” ; traduzione: www.finesettimana.org

 

Martine De Sauto

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