Intervista al politogo John Esposito, docente della Georgetown University: «Gli Usa devono capire che non c'è scelta all'autodeterminazione»
del 01 gennaio 2002
«L'antiamericanismo (ma anche l'antieuropeismo), che si va sempre più diffondendo nelle società arabe e musulmane, è l'effetto non tanto del fondamentalismo religioso, quanto del crescente risentimento nei confronti della politica estera Usa da parte di chi, pur respingendo il cieco odio e la violenza efferata dei terroristi, si chiede se essere moderni significa anche pensare, parlare e vestirsi come in Occidente». Parte da questo concetto la nostra intervista con John L. Esposito, docente alla Georgetown University di Washington e direttore del Center for Muslim-Christian Understanding, ospite dell'università Cattolica di Milano, mentre esce in questi giorni in italiano nelle edizioni Vita e Pensiero il suo ultimo libro «Unholy War: Terror in the Name of Islam» (tradotto in «Guerra santa? Il terrore nel nome dell'Islam» la prima parte del titolo perde un po' di efficacia).
Questa mentalità, secondo lei, è presente anche nelle classi dirigenti e più in generale nell'intellighenzia dei Paesi arabi e musulmani?
Sono in effetti in molti a condividerla: funzionari di governo, diplomatici, militari, uomini d'affari, giornalisti: molti di essi vantano dei legami anche di amicizia con le loro controparti occidentali, si sono laureati o mandano i loro figli a studiare in America o in Europa, ammirano i nostri principi e i nostri valori - la partecipazione politica, le libertà di parola, di pensiero e di stampa - ma essi credono anche che questi principi non siano del tutto applicati dagli americani nel mondo musulmano.
Un'equazione che vale anche per la guerra e il dopoguerra in Irak ?
In primo luogo, io penso che se l'America in Irak - come del resto in Afghanistan - non saprà dimostrare di agire in maniera multilaterale, sarà sempre più percepita come una potenza imperiale. La mia seconda osservazione è che gli Stati Uniti devono imparare - e imparare adesso - che favorire l'autodeterminazione e la stabilità politica in Irak può significare magari dover accettare la nascita di un governo che può essere non del tutto o magari per niente gradito. Ma può essere molto pericoloso tentare di insediare al potere una leadership dall'esterno, come io credo l'Amministrazione Bush ha cercato di fare con Ahmed Chalabi. Gli Usa sono invece andati in Irak senza tener conto di avere a che fare con una diversa società e con una diversa religione, dove non potevano ergersi ad autorità morale.
E' possibile un'evoluzione in senso democratico dei governi Islamici?
Nella politica musulmana l'autoritarismo è più la regola, che non l'eccezione e la cultura dell'autoritarismo non tollera un'opposizione organizzata. Molti Paesi musulmani rimangono degli 'Stati di polizia' i cui governanti pensano soltanto a mantenere i loro potere e i loro privilegi ad ogni costo. Ma nel corso della storia l'Islam si è dimostrato dinamico e differenziato e, al pari di altre religioni, in esso si possono trovare secondo me le risorse intellettuali e ideologiche per un'ampia varietà di modelli di governo, che vanno dalla monarchia assoluta alla democrazia.
Qual è oggi il ruolo dei media nei Paesi arabi? A differenza del passato, al Cairo come a Beirut, ad Amman come a Doha, le notizie del mondo non arrivano più dalla Bbc o dalla Cnn, ma ci sono le pubblicazioni e i media arabi che offrono una copertura quotidiana delle questioni internazionali. Incollate ai televisori le famiglie guardano a colori vivaci gli eventi in diretta da Baghdad, da Gerusalemme, dalla Cecenia o dal Pakistan. Mentre in Occidente a volte si sottostima la rilevanza della questione palestinese, per la maggior parte della gente che vive negli Stati arabi si tratta di un problema di importanza basilare.
19 maggio 2004
Piero Fornara
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